Marco Dotti, Kadarè nell’inferno del 900

DA il manifesto 27 LUGLIO 2008
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L’altra riva DELL’ADRIATICO – ISMAIL KADARÉ NELL’INFERNO DEL NOVECENTO

In «Dante l’inevitabile» edito da Fandango e in «Eschilo, questo gran perdente», pubblicato dalle edizioni Controluce, il grande scrittore albanese affronta i miti e i fantasmi dell’immaginario balcanico
MARCO DOTTI

Esiste sempre un punto ben circoscritto, delimitato e preciso in cui ogni coscienza colloca le proprie, personalissime porte dell’ inferno. Per Ismail Kadaré – il più noto, letto, tradotto e forse anche ascoltato fra gli scrittori albanesi contemporanei – nella sua forma più semplice questo inferno coincide, inevitabilmente, con le acque dell’Adriatico e con il sangue che nel corso dei secoli vi è stato versato. Inevitabile, però, è anche il fatto che questa visione particolare si coniughi con quella di un immaginario collettivo che affonda le proprie radici nelle saghe, nei fantasmi, nella tragedia antica, in altrettanto antichi e spesso non meno cruenti rituali, ma soprattutto in una storia che sembra avere inscritto le proprie tracce direttamente nel corpo vivo della morfologia, della geografia e della lingua albanese con i suoi innumerevoli prefissi e la sua tendenza a dar vita a parole composte, e le sue sponde che hanno conosciuto sbarchi di eserciti, migrazioni disperate, infrazioni della bessa, la più sacra fra le consuetudini del paese, che impone di non uccidere mai, ma proprio mai, i propri ospiti, da qualunque luogo arrivino.
Perdersi nel palazzo dei sogni
L’inferno, ammetteva Kadaré tra le pieghe del libro-intervista con Eric Faye pubblicato poco dopo il suo esilio volontario in Francia (Conversazioni con Kadaré, Guanda, 1991), è all’origine di ogni legge e a fondamento della stessa «legittimità». «Non so – proseguiva – come prenda inizio nei libri di diritto lo studio storico della giurisprudenza, ma credo che esso dovrebbe partire dall’inferno come concetto generale. L’inferno è il primo codice penale dell’umanità… il concetto di diritto nasce con l’inferno». Il ventesimo secolo, rimarca Kadaré, ha riattivato nella letteratura la necessità di confrontarsi con questo fondamento infernale del potere.
Il mito delle porte degli inferi, «già molto sentito nella Grecia antica, e ripreso nel Medioevo, è poi caduto in disuso, perché con il cristianesimo è stato codificato secondo alcuni cliché, secondo la morale dell’epoca, mentre la visione dei Greci era più spontanea, più libera». Pure nelle tragedie che lo hanno contrassegnato – o forse, ironia della sorte, proprio grazie a quelle – il «secolo breve» ha rinverdito questo mito. Si tratta, rimarca Kadaré, di un’epoca che ha creato passaggi sotterranei, metropolitane, burocrazie di ogni genere e grado, alimentando una nuova visione infernale del rapporto col potere. Un rapporto che, spesso, non può che presentarsi nella forma della caduta. Come nel Palazzo dei sogni, dove il protagonista si ritrova a poco a poco risucchiato nell’archivio sotterraneo di un regime che, senza sosta, seleziona e scheda i sogni dei propri sottoposti. O nel più recente L’aquila (traduzione di Francesco Bruno, Longanesi, pp. 94, euro 10), quando inaspettatamente, mentre fa rientro a casa, il giovane protagonista, un funzionario di nome Maks, precipita in un pozzo senza fondo, ritrovandosi in una sorta di città fantasma, riservata ai funzionari caduti in disgrazia, prigionieri di un incubo dai tratti metafisici. È tutta l’identità dei protagonisti a venire trasformata: incubi e cadute del genere, non ammettono ritorno. Ancora più espliciti, questi tratti, si rivelano nell’ultimo romanzo uscito da poco in libreria, Il successore (traduzione di Francesco Bruno, Longanesi, pp. 152, euro 12,60). Partendo dalla morte «misteriosa» di Enver Hoxha, Kadaré costruisce un sofisticato thriller segnato da un lutto oscuro. Chi ha ucciso il Successore, la guida designata del paese? Forse l’architetto che ha progettato la sua casa e che ora teme di fare la fine dei geometri egizi, condannati a morte dopo avere costruito le piramidi, affinché non ne svelassero il segreto (tema, quest’ultimo, già affrontato nel ’96 nel romanzo La piramide)? O la Guida suprema che, violando la bessa, ha ucciso il proprio ospite? Non si diceva forse che anche Mao avesse fatto lo stesso col suo successore designato, Lin Piao?
Legami di sangue esterno
Quale segreto si cela dunque dietro la morte del Successore? Ismail Kadaré parla di una «architettura dell’angoscia», di edifici costruiti a rovescio, a partire dalle loro macerie, in cui non è difficile scorgere una critica – forse tardiva – alla statualità comunista. A interessare Kadaré, e a costituire il filo conduttore del romanzo, è però il tema del legame forte, e di una società incapace di istituirne, se non sul sague. Che cosa spinge il Successore, padre della giovane Susana, a vietarle di sposarsi, fatto che è alla base della disgrazia che colpisce l’intera famiglia? La fedeltà al partito? Forse, si ripete Suzana, c’è dell’altro e sulle montagne, tra le cime di quell’inferno verticale dove nel ’43 Hoxha organizzò le sue brigate antifasciste, altri legami si sono cementati. Legami di sangue, forse contro natura. Sono vincoli «diversi da quelli delle sette, ma simili a quelli delle stirpi», fondati «non sul sangue interno che circola nelle vene di una stessa famiglia, inalterato da millenni, come afferma la genetica, ma sull’altro, il sangue esterno, vale a dire il sangue degli altri», versato in preda a un’ebbrezza antica, brutale, senza nome.
In un altro libro – tra i più belli e importanti di Kadaré – appena uscito per le edizioni Controluce, Eschilo, questo gran perdente (traduzione dall’albanese di Adriana Prizreni, pp. 144, euro 13), l’autore albanese interroga l’opera di Eschilo per interrogarsi, al tempo stesso, sulle radici perdute del legame politico contemporaneo. Ricostruzione minuziosa della vita, dell’opera e del «mito» di Eschilo, il lavoro di Kadaré si trasforma presto, come osserva nella premessa Raffaele de Giorgi, in una articolata «drammaturgia del diritto» che mette in scena il conflitto tragico fra legge e giustizia, fra «le potenze dell’ordine dell’equivalenza» da un lato, e quelle più deboli del riconoscimento dell’altro. Per Kadaré, il diritto «riattiva continuamente la sua costituzione tragica», e in questo senso il Kanun, codice consuetudinario delle montagne albanesi, rappresenta una rielaborazione di questo materiale tragico.
Poche decine di miglia separano il paese delle aquile dall’Italia. Dall’Italia e dall’Europa: il passaggio via terra, a nord, attraverso i confini di Serbia, Montenegro e Macedonia è chiuso da altre tragedie, forse non più insormontabili ma di certo più ostili del calcare del monte Prokletije e del Maja Jezercë, nelle Alpi Dinariche. Dal porto di Otranto, invece,volgendo lo sguardo a est, si può scorgere netto il Monte Cika, duemila e venticinque metri, nel distretto di Valona. La sua vetta innevata lascia attoniti. Per secoli, nella storia dell’Albania, la terra e il mare – o se si preferisce le montagne e il mare – hanno rappresentato due costanti e, al tempo stesso, due varianti del rapporto del popolo albanese con la propria storia, il proprio rapporto con lo spazio, la propria spesso mal compresa «nostalgia dell’Europa». Una nostalgia che ha origine e confini certi e che gli albanesi non smettono di associare al nome, alle imprese, alla singolare figura del loro eroe nazionale, il conte albanese dal doppio nome, Giorgio Castriota e Scanderberg.
Dante nei Balcani
Nato a Dibra nel maggio del 1405, rapito e cresciuto alla corte del sultano Murad II che gli aveva ucciso il padre e occupato parte dei territori dell’Impero bizantino. Coltissimo, intelligente, particolarmente scaltro nell’arte strategica e militare, il giovane Castriota era riuscito a conquistarsi i favori e la fiducia del sultano. Incaricato di affrontare gli eserciti cristiani, improvvisamente Scanderbeg abbandonò però il nome con cui gli ottomani lo conoscevano – Iskënder Bej – e si mise alla testa delle tribù dell’Epiro e dell’Albania, asserragliandosi nella roccaforte del castello di Krujë. Per venticinque anni riuscì a resistere a un esercito che, nonostante la propria schiacciante supremazia, come d’incanto si fermava stremato davanti alle mura di Krujë.
A questa vicenda Kadaré ha dedicato uno dei suoi più riusciti romanzi storici, Keshtjella – letteralmente «il castello» – scritto nel ’70 e tradotto dal francese in italiano col titolo I tamburi della pioggia (traduzione di Augusto Donaudy, Tea, pp. 236, euro 9). Kadaré torna ora sulla figura di Scanderberg, con un saggio a tratti sorprendente, intitolato Dante, l’inevitabile (traduzione di Francesca Spinelli, Fandango, pp. euro 10). All’incirca negli anni in cui l’Alighieri scriveva la propria Commedia, osserva Kadaré, nella penisola balcanica «fanno irruzione strane creature che non sembrano di questo mondo».
Qualcosa nasce e qualcosa si spezza perché, se Dante scrive del proprio inferno, Giorgio Castriota attraversa l’Adriatico, inferno d’acqua – «elemento inevitabile» nella storia albanese – tentando l’ultima carta per fermare l’avanzata ottomana. Si reca a Venezia, a Napoli, in cerca di alleati. Un rinnegato si ritrova così alla testa delle truppe europee alleate contro l’avanzata degli «infedeli». Ma Castriota non riuscì nell’impresa e, conclude Kadaré, i Balcani vennero inghiottiti e in qualche modo cessarono di fare parte del continente europeo. È proprio allora che Dante diventa inconcepibile per l’Albania. Fino a tempi recenti, quando il legame fra Italia e Albania si rimaterializza, nella forma di un doppio incubo: quello del 7 aprile del 1939, un venerdì santo, con l”invasione fascista dell’Albania e quello dei quotidiani, non meno tragici esodi di massa verso l’agognato miraggio europeo.

Marco Dotti, Kadarè nell’inferno del 900ultima modifica: 2008-07-28T17:44:00+02:00da mangano1
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