IMMAGINARIO E “COMUNISMO”
E’ esistito qualcosa che possiamo chiamare “comunismo” o piuttosto movimento comunista, inteso come un insieme culturale, politico, sociale? O invece “comunismo” è soltanto un astratto – das Kommunismus – che si riferisce ad elementi disparati: movimenti sociali e politici, istituzioni, gruppi, individui?
Credo che la valutazione unitaria di una complessità storica ricchissima di contrasti violenti – che possiamo chiamare movimento comunista, il cui corso va almeno dallo spettro aggirantesi per l’Europa nel 1848 fino agli anni Ottanta del Novecento in cui è ritornato spettro fino a svanire – abbia una base sperimentale (che indubbiamente riguarda ormai persone di una certa età): chiunque in questo periodo si fosse dichiarato comunista – magari da anarchico o da situazionista – e soprattutto avesse cercato di agire in quanto tale, avrebbe dovuto fare i conti con la massiccia presenza ed il potere delle istituzioni che si dicevano comuniste, se non altro per distinguersi, sempre ostacolato.
Darei dunque per scontata l’esistenza di un insieme rintracciabile con il nome di movimento comunista, pur nel suo carattere plurale e conflittuale, con molti sottoinsiemi, dilaniantisi a morte, con più contrasti interni di quanto ve ne fossero con molti esterni. Ci si può allora domandare: quale è stato l’ elemento o quali sono stati gli elementi produttivi unificanti, che pongono dentro un unico cerchio Marx e Bakunin, Stalin e Durruti, Pol Pot e Débord? Chiunque abbia cercato di agire in quanto comunista – non solo di studiare testi più o meno sacralizzati – ha dovuto ri-conoscersi, suo malgrado, dentro questo cerchio, che ne racchiudeva molti altri.
Tale insieme implica la sintesi conflittuale di elementi diversi:
– un corpo sociale, cioè l’esistenza di una massa sociale dotata almeno potenzialmente e in parte di un embrionale livello di consapevolezza intorno a interessi e/o valori comuni
– delle strutture istituzionali che garantiscano una certa unità, continuità e coerenza nel tempo a una parte limitata ma significativa del corpo sociale
– un immaginario condiviso
Per la costituzione del corpo sociale in soggetto politico permanente occorrono tutti e tre gli elementi, in un gioco complesso ed instabile.
Il sistema istituzionale, che diventa o tende irresistibilmente a diventare il principale depositario dell’autorizzazione al nome comune e detentore dell’autorità, autorizza per contrasto anche le “eresie”, le controistituzioni, le “deviazioni”.
L’istituzione, sede dell’autorità degli enunciati, esige per funzionare un minimo di legittimità, cioè di riconoscimento da parte del corpo sociale più vasto, cui fa riferimento e nel cui nome agisce. Tale consenso è uno degli elementi principali che portano alla costituzione del soggetto politico.
Il rapporto dell’istituzione con il corpo sociale non può essere che nel modo della rappresentanza, implicante la separazione del rappresentante dal rappresentato. Il rapporto fra il corpo sociale, divenuto soggetto politico, e le sue istituzioni è complesso, difficile e ambiguo, spesso conflittuale: l’implicazione reciproca tende spesso a sfaldarsi con danno di entrambi, perché non può durare a lungo un soggetto politico senza istituzioni e viceversa, ma nello stesso tempo l’istituzione, ove risiede principalmente l’organizzazione della continuità, tende a prevaricare. C’è quindi una dialettica irrisolta o un rapporto bipolare tra “movimento” e istituzioni (partiti, sindacati). Sia quando le istituzioni vengono al movimento operaio come sua propria produzione, sia quando vengono dall’esterno, sociologicamente e culturalmente (la notissima concezione kautskyano-leninista), in ogni caso tendono comunque a separarsi ed anche a contrapporsi al movimento sociale, ad avere interessi divergenti, nella misura in cui esercitano un potere mediante un corpo di funzionari e dirigenti. Nel caso delle rivoluzioni, in cui i problemi di coesione, tenuta e continuità, si radicalizzano, le istituzioni diventano Stato. Su questa irrisolta contraddizione, che ne cela altre più profonde come l’adesione impensata ad una cultura patriarcale, il movimento comunista è naufragato.
Un altro elemento d’unificazione fondamentale e necessario per la costituzione del soggetto politico è un immaginario condiviso. Un immaginario collettivo ha la sua efficacia nella saldatura fra la capacità individuale di produrre e ricevere immagini, che è alla base della soggettività, e grandi immagini collettive unificanti. L’immaginario è sintesi di immagini, emozioni ed enunciati che si implicano reciprocamente: le emozioni si legano ad immagini che le rappresentano, connesse ed articolate dagli enunciati. La sua efficacia dipende dall’intensità emotiva, dalla potenza rappresentativa delle immagini in grado di ‘visualizzare’ queste emozioni, dalla forza coesiva degli enunciati che articolano le immagini. La condivisione avviene mediante l’identificazione degli immaginari individuali con quello collettivo.
L’immaginario storico-sociale comunista si è formato in un lasso di tempo che va almeno dalla Rivoluzione Francese al Manifesto marxengelsiano per rinsaldarsi nella sua prima per quanto labile istituzione, la Prima Internazionale, nelle prime organizzazioni sindacali e via via nei partiti socialisti, con un’intensificazione incomparabile nell’Ottobre, subito assunto come nuova tradizione e rafforzamento della precedente.
Un immaginario condensato intorno a parole come solidarietà, lotta e rivoluzione, con i loro simboli fondamentali, che assorbiva alcuni enunciati elementari sull’importanza fondamentale delle classi lavoratrici quali uniche produttrici della ricchezza; sull’eliminazione o subordinazione della proprietà privata; sulla messa in comune dei beni essenziali; per poi dirigersi, prevalentemente anche se non esclusivamente, verso una sintesi già più articolata di alcuni passaggi del pensiero di Marx, codificati soprattutto da Kautsky, probabilmente il vero padre del marxismo. Non dimentichiamo che il marxismo si sviluppa all’interno della più forte organizzazione operaia del mondo in uno dei paesi più industrializzati, per poi passare trionfalmente al partito della Rivoluzione vittoriosa.
Il rapporto fra istituzione e immaginario non é estrinseco. L’istituzione – forma di potere – non è in fondo che una modalità d’irrigidimento, di fissazione, di relazioni intersoggettive e l’immaginario attiene alla struttura riflessiva della coscienza per cui l’individuo diventa cosciente di sé rispecchiandosi nell’alterità di un’immagine.
Parte inseparabile di un immaginario storico-sociale è inoltre la formazione di una tradizione, di sintesi narrative, con relativi tòpoi, in cui si legano memorie individuali e memoria collettiva, frutto per lo più, quest’ultima, di un’elaborazione istituzionale.
La condivisione dell’immaginario è forse il motore più attivo dell’unità, relativa e discontinua, di un corpo sociale, in cui i sogni individuali si saldano nel “sogno” collettivo. Da sola non basta, ovviamente. La formazione di un immaginario storico è dovuto ad un insieme complesso e imprevedibile di circostanze, alcune delle quali radicate in una lunga durata. Un fenomeno molto più rapido sembra invece la sua crisi, di cui gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati testimoni. La crisi di un grande immaginario collettivo come quello comunista, che è stato per un secolo e mezzo il principale distributore di senso a “larghe masse” di subalterni, assolvendo ad un compito funzionalmente analogo a quello di una religione, lascia un vuoto disperante o deprimente, che deve essere almeno parzialmente occupato, ad esempio da ritorni di miti identitari, di tipo religioso, nazionalistico, familistico, etnico.
Il rapporto tra immaginario, movimento sociale e istituzioni, nel quale si deposita il senso, è circolare: si avvalorano a vicenda. Base sociale e istituzioni costituiscono il riferimento della politica a un “reale”, al suo reale. Sembra che senza istituzioni, che lo mettono in rapporto ad un sapere, ad un pensiero o ad una simil-scienza, che gli diano continuità e tradizione, l’immaginario e i movimenti sociali tendano a sfaldarsi, tenendo conto ovviamente dell’attività di chi vi si contrappone. L’immaginario senza il rapporto con un pensiero capace d’incorporarsi socialmente, di riferirsi a pratiche – un pensiero cioè effettivamente politico -, tende a scomporsi nelle sue componenti costitutive. Depositarie e custodi del pensiero collettivo – gli “ismi”: kautskysmo, leninismo, maoismo eccetera – e del filo della tradizione, sempre ricostruita, sono state le istituzioni.
Finora almeno è andata sempre così. Farla andare diversamente potrebbe essere uno dei difficili compiti del futuro. Al di fuori delle istituzioni c’è stato posto solo per pensieri individuali – è stato così persino per il Marx non marxista, nell’irrisolta complessità del suo work in progress – o di gruppi che però tendevano subito a diventar istituzioni: l’esperienza dimostra che quando un pensiero politico viene assunto collettivamente e si pone il problema della prassi, si forma quasi immediatamente un gruppo che tende ad istituzionalizzarsi, per piccolo che sia, anche sulla spinta del dover coordinare le logiche diverse del discorso e dell’azione e spesso della sua urgenza.
Ma c’è dell’altro a proposito dell’immaginario. Vi agisce anche la dimensione inconscia della soggettività individuale e collettiva, che sfugge alla volontà cosciente e all’oggettivazione razionale. Comunismo e marxismo nascono prima della rivoluzione culturale inaugurata da Freud, ambigua e solo parzialmente emancipatoria, ma che segna tuttavia un cambiamento irreversibile nella considerazione della soggettività individuale e collettiva. Uno dei limiti del pensiero politico comunista e marxista è stato appunto la mancata considerazione di tale complessità, malgrado qualche tentativo marginale.
L’immaginario collettivo, quale messa in comune di emozioni mediante immagini tenute insieme da enunciati, ha un rapporto fondamentale con il tempo, di cui si può considerare una sintesi figurativa. Da una parte, implica il rimando ad una tradizione raffigurabile attraverso immagini e sistemi d’immagini, tenute insieme da narrazioni (ad esempio la Comune di Parigi, la Rivoluzione sovietica). Dall’altra, rende visibili, e perciò più credibili, possibilità, sorrette da convinzioni, il cui cuore è emotivo, anche se si appoggiano ad enunciati presi per veri. E’ l’unico modo di rappresentare, quasi di presentificare, il futuro, colmandone il vuoto con la rappresentazione del possibile. La forza dell’immaginario, infatti, sta nella rap-presentazione, nel potere assertivo proprio dell’immagine. Il rapporto tra possibilità, credenza e convinzione è fondamentale per agire. L’importanza politica dell’immaginario sta principalmente nel costruire il ponte tra il dire e il fare, tra discorso e prassi.
Il fare non è la realizzazione del dire, ma, con una diversa logica, assolve ad un’altra funzione. La prassi è un lavoro sul limite che può condurre da un luogo ad un altro […] Questa operazione sposta, mentre i discorsi e le istituzioni circoscrivono i posti successivamente occupati. Essa è legata alle particolarità dell’azione, ma per far loro subire uno scarto, un superamento critico. Ma la prassi è anche il silenzio in rapporto ai linguaggi. […] Non potrà esservi introdotta come un contenuto o un oggetto. La prassi non è la «cosa» di cui un enunciato potrà essere l’«espressione». […] Ogni racconto od ogni analisi della prassi resta un discorso che non è più «fedele» all’azione per il solo fatto di parlarne. […] la relazione tra il dire e il fare non è affatto un rapporto tra contenitore e contenuto o di formalizzazione dell’esperienza. E’ piuttosto un’articolazione di termini differenti.
Se la prassi viene ridotta ad “oggetto del discorso”, “è negata in se stessa dall’essere destinata al dire”. All’inverso, senza un rapporto con qualcosa di “teoreticamente enunciabile e sociologicamente reperibile […] non si sa più che cosa si fa. L’apologia esclusiva del fare promuove una militanza arruolata da non importa chi, guidata a propria insaputa dal cieco slogan dell’«impegnatevi, reimpegnatevi».”[1]
Il fare, producendo una situazione diversa dalla precedente, modifica il dire. Tra il dire e il fare, c’è la cesura, lo scarto o vuoto, della decisione. Sono due funzioni simboliche differenti[2], che vanno coordinate e non confuse. Per agire occorre un salto fuori dal discorso, nel vuoto, occorre un di più di energia, eccedente la teoresi, la descrizione, l’analitica – la si può chiamare convinzione o con altri nomi – che la decisione può attingere solo dalla potenza rappresentativa dell’immaginario.
Può esistere un discorso comunista oggi? In altri termini, chi o che cosa autorizza oggi il discorso comunista?
Il discorso comunista, oggi, non è socialmente autorizzato. Non è sufficiente – non lo è mai stata – una classe sociologica. Non serve a molto rilevare che la classe operaia esiste come prima e più di prima nel mondo – o forse sono molte classi operaie non sufficientemente unificate dall’estrazione del pluslavoro. In ogni caso, la sua presenza, se necessaria, è insufficiente. Non può avere, inoltre, il monopolio della contraddizione sociale. Basti pensare all’importanza dei contadini ancora oggi, alla complessità della stratificazione sociale, in Asia, in Sud America, in Africa. E’ stato un mito pericoloso l’assunzione della dinamica economico-sociale dell’Occidente a modello generale[3]. Non esistono oggi uno o più soggetti politici, non esistono istituzioni, forme organizzative relativamente stabili che continuino o abbiano raccolto la tradizione comunista in quel che ha avuto di meglio e in ciò che può dare al futuro. Ma, soprattutto, non esiste più un immaginario collettivo comunista. Lo testimonia anche la labilità di movimenti come il cosiddetto noglobal o come si voglia chiamare.
Gli enunciati del comunismo storico sono certamente segnati da un’epoca che non è più la nostra. Ma, se l’enunciazione comunista è priva di soggetti, la domanda di senso ivi posta, ancorata alla nozione di giustizia – un’enunciazione quindi in cerca di soggetti collettivi della giustizia – è più che mai valida, nell’epoca del feticismo del mercato, dei fondamentalismi identitari, della desertificazione capitalistica della terra, è anzi divenuta del tutto necessaria, assumendo una risonanza cosmologica che può ricordare l’antica dìke. Questo basta a dare un senso a ricerche individuali, a piccoli gruppi, che dovrebbero però tendere, come oggi si dice, a far rete. Ma, soprattutto, queste ricerche, questi gruppi, non dovrebbero mai perdere di vista il rapporto difficile tra il dire e il fare, perché è questo che differenzia il pensiero politico dalle retoriche politiche e filosofiche.
Il femminismo, autentico erede del miglior Sessantotto, ha mostrato che la prassi di piccoli gruppi che si estendono a rete, non gerarchicamente, che partono dalla singolarità dei componenti, è un modo non solo efficace, anche se talora non molto visibile (il che non vuol dire inefficace: tutt’altro, tenendo conto di come viene gestito il visibile), ma che soprattutto è in grado di affrontare alla radice il nodo chiave del rapporto fra singolarità e collettività, fra particolare e universale. Il femminismo ha usufruito e “messo al lavoro” un immaginario molto diverso da quello tradizionale androcentrico, ben presente anche nell’immaginario comunista. Questo è l’ambito su cui impegnarsi.
[1] Michel de Certeau, Debolezza del credere, Città aperta Edizioni, Troina (En), pp. 199 passim.
[2] Un discorso sul fare diventa inevitabilmente un discorso su un altro discorso. Dire e fare sono eterogenei. In politica però il fare non deve avere come modello il lavoro, cioè l’azione su una materia oggettuale, data e resistente, ma la relazione fra soggetti: si tratta di modificare delle relazioni.
[3] Ciò non è del tutto vero, pensiamo all’importanza dei contadini nel maoismo, che è però rimasta ideologica: il modello era pur sempre l’operaio di fabbrica.