Michele Nani, Storia sociale e storia politica

da il manifesto del 31 Luglio 2008MICHELE NANIProspettive DI CLASSE – QUEL CHE RESTA DELLE RICERCHE SUL PROLETARIATOLa sconfitta del movimento operaio non ha determinato la fine delle «divisioni sociali», ma segna il passaggio della struttura sociale da una forma di «unità» del lavoro a un’altra, ancora tutta da costruire e da interpretare«Addio alla classe operaia?»: a partire da questo interrogativo, con il quale si cercava di problematizzare un’espressione che risaliva a un celebre saggio di André Gorz, nell’aprile del 2000 la direzione dell’«International Labor and Working-Class History» pubblicava un ampio dibattito sulle prospettive della storia dei lavoratori. Il saggio di apertura, intitolato appunto Farewell to the Working-Class?, era affidato a due importanti studiosi, Geoff Eley e Keith Nield. Vi si sosteneva la necessità di superare le polemiche che per vent’anni avevano arroventato la labour history, fra studiosi fedeli a un’impostazione di storia sociale della classe operaia e fautori di un approccio «culturalista». La scomposizione odierna della classe, facevano rilevare gli autori, invitava a considerare con occhio diverso il lavoro della sua composizione e ricomposizione in oltre un secolo di storia. Lì stavano le ragioni dei «culturalisti»: nello sganciamento della formazione della classe operaia da schemi troppo rigidamente legati a una prospettiva economicistica e deterministica. In realtà era stato lo scambio continuo fra lavoratori, organizzatori e intellettuali socialisti a costruire lo spazio per una politica di tipo nuovo, che aveva avuto nella «classe operaia», come soggetto storico e come rappresentazione collettiva, il proprio fulcro, ma che era stata tutt’altro che corporativa o settoriale, poiché aveva saputo unificare attorno alle organizzazioni di classe un ampio spettro di rivendicazioni e di identità sociali. Da quella vicenda venivano anche lezioni per il presente. La pragmatica della buona fedeL’attacco neoliberale di Reagan e Thatcher ha mostrato l’importanza della dimensione politica, un tema peraltro al centro di un’ampia sezione di Forging Democracy, il volume nel quale lo stesso Eley ha ricostruito un secolo e mezzo di storia della sinistra europea. La sconfitta del movimento operaio, ben lungi dall’implicare la scomparsa delle classi, ha segnalato un passaggio di struttura sociale, da una forma secolare di «unità» del lavoro a un’altra, tutta da costruire. Eley e Nield, infine, delineavano un ruolo attivo degli studiosi. Rileggere i processi passati di costruzione della classe significherebbe continuare a evocare le potenzialità alternative racchiuse nel presente e nutrire le progettualità odierne: si è potuto fare, dunque si può ancora fare.L’intervento del 2000 costituisce la traccia di un volume, da poco uscito per le edizioni dell’Università del Michigan, dal titolo impegnativo e felicemente ambiguo (The Future of Class in History. What’s Left of the Social?), che gioca sul nesso fra politica e cultura: «il futuro della classe nella storia» può alludere alle sorti di una categoria interpretativa in un campo del sapere, ma anche ai ben più ampi destini della classe lavoratrice nel nostro futuro. Eley e Nield insistono sulla «pragmatica della buona fede» e sulla necessaria tregua fra eredi della storia sociale e propugnatori della «svolta culturale». Il fair play è senz’altro produttivo, ma la proposta resta per più di un verso discutibile. Da quasi trent’anni, dal vecchio articolo Why does Social History Ignore Politics? («Social History», 1980) fino al dibattito del 2000 rievocato sopra, i loro ragionevoli appelli, per esplicita ammissione dei due, cadono costantemente nel vuoto. Si tratta di un segnale, non tanto delle cattive maniere o del pessimo carattere degli storici, bensì dell’irriducibile conflittualità che costituisce il motore stesso del campo storiografico e delle sue articolazioni, un campo che non presenta l’andamento «paradigmatico» caro a Thomas Kuhn e non arriva mai a definire una «scienza normale». La stessa ispirazione riconciliativa di Eley e Nield rappresenta uno specifico posizionamento nelle lotte che attraversano il campo, nel quale i due sono figure tutt’altro che marginali: specialista di storia tedesca e di sinistra europea, membro di uno dei più importanti dipartimenti di storia al mondo (Università del Michigan) il primo, codirettore di una rivista del calibro di «Social History» e professore emerito all’Università di Hull il secondo.Attenzione al linguaggioNel merito, come è stato notato da più parti, la proposta di sintesi concede forse troppo credito alla «svolta linguistica» e all’importazione negli studi storici dell’arsenale «post-strutturalista», ma ha il pregio di conservare il meglio della tradizione della storia sociale nata dalla lezione di Edward P. Thompson e poi maturata lungo molti differenti percorsi. È un campo di studi ricco e articolato, irriducibile alla caricatura marxista-ortodossa e riduzionistica che ne fanno i detrattori odierni, un settore vivo e in continuo aggiornamento, senza bisogno di rinunciare a categorie fondamentali come quella di «classe sociale». Non si tratta di esorcizzare il rinnovamento degli ultimi vent’anni, ma di discernerne gli apporti: la «classe» è costantemente intrecciata ad altre identità (prima di tutto quella di «genere»); nella migliore delle accezioni il «culturalismo» rappresenta un salutare recupero della storicità delle categorie interpretative di cui si servono gli studiosi e una altrettanto feconda attenzione al linguaggio degli agenti sociali concreti dei quali si ricostruiscono le vicende; il ritorno alla «storia politica» non implica una chiusura negli spazi istituzionali, ma anzi un allargamento della nozione di «politica» e della stessa idea di Stato, con Foucault e con Gramsci. Sul terreno della storia, queste prospettive sono senz’altro compatibili con la sensibilità al peso delle regolarità strutturali capitalistiche nella produzione di ineguaglianza sociale, all’importanza delle situazioni lavorative concrete, delle reti di relazione urbane e famigliari. Meno produttive sono le proposte di una fuoriuscita netta da queste problematiche, perorate da storici autorevoli in nome dell’autonomia della politica. Eley e Nield ricostruiscono efficacemente le traiettorie di quattro importanti studiosi di storia sociale (gli inglesi Patrick Joyce e Gareth Stedman Jones e gli statunitensi Joan Scott e William Sewell) protagonisti dell’ondata di ricerche degli anni ’70, poi nel decennio successivo fra i principali fautori del rifiuto del presunto determinismo della «formazione sociale» in nome delle «pratiche discorsive». In realtà mentre il postmodernismo storiografico radicale ha prodotto poche opere di ricerca e si riduce a un continuo commento dei suoi fautori su lavori altrui, nel campo della storia del lavoro la proposta eclettica di svolta «culturale» ha dato spesso vita alla riedizione di una raffinata storia delle idee, a una pratica storiografica dedita all’esame di scritti a stampa e di piccoli gruppi di individui. I toni dell’attacco a una storia sociale definita «vecchia» solo per far meglio risaltare la – dubbia – «novità» dei nuovi orientamenti lasciano spazio a un singolare silenzio dinanzi all’esistenza di precisi limiti all’accesso alla presa di parola e di condizionamenti alle forme stesse del discorso (ad esempio i problemi legati alla produzione e ricezione degli stessi scritti), così come non si interrogano sull’esistenza di movimenti sociali di massa, la cui presa ed efficacia non è riducibile alla potenza del discorso. Che le realtà passate siano accessibili soprattutto per via linguistica non significa che il discorso sia l’unica realtà storica, come ha da tempo sostenuto Roger Chartier, curiosamente qui non ripreso, come gran parte dell’importante riflessione francese in materia (basti pensare alla concezione delle classi in Bourdieu, affine a quella degli autori e senz’altro teoricamente più rigorosa).Due genealogie armonioseNonostante si soffermi per lo più sulla storiografia di lingua inglese, e dedichi poca attenzione sia alla dimensione globale dei fenomeni, sia alla ricca produzione sociologica in merito all’analisi di classe, The Future of Class in History resta un libro importante. Come Dennis Dworkin (autore di una importante sintesi sullo stesso tema), gli autori sono convinti della valenza generale della parabola, soprattutto britannica, della storiografia qui ricostruita, e lo mostrano ad esempio attraverso confronti con il caso statunitense, ove un ruolo analogo a quello di Thompson è stato giocato dalla sociologia storica di Charles Tilly, autore recentemente scomparso. Anche sul continente, gli anni ’60 e ’70 sono stati un periodo di innovazione storiografica collettiva (un riscontro per le vicende nostrane si può trovare, ad esempio, nello studio Marxismo e storia di Paolo Favilli). In quel felice periodo si armonizzarono le due genealogie della storia della classe operaia: da un lato l’identificazione con i subalterni e l’apertura della storiografia alle loro vite, dall’altro il dialogo con le scienze sociali, nel segno della possibilità di comprendere la «società» nel suo complesso, della priorità analitica del «contesto» sociale e della logica universalistica della comparazione fra casi specifici. La loro dissociazione, che qualcosa deve alla crisi del socialismo e del marxismo, ha condotto al declino anche storiografico della «classe» come strumento di lettura del mondo. Ma Eley e Nield, sulla scorta dei lavori di più giovani studiosi che intrecciano sul terreno di ricerche concrete le prospettive «sociali» e «culturali», ci ricordano che quello strumento non ha solo un passato, ma può avere anche un futuro.

Michele Nani, Storia sociale e storia politicaultima modifica: 2008-08-02T19:28:45+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo