Lucia Annunziata, Grande Hilary

da LA STAMPA 28 agosto 2008

LUCIA ANNUNZIATA,
GRANDE HILARY
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Finalmente. Finalmente una donna in meno e un politico in più sulla scena mondiale. Hillary Clinton, arrivata boccheggiante alla fine della corsa presidenziale che avrebbe dovuto vederla vincitrice, ha avuto nell’ultimo round l’illuminazione giusta, e ha ricorretto il tiro. In un virtuale striptease si è tolta i fronzoli.

Si è tolta i fiocchi, le lacrime, le tenerezze, i ruoli di mamma e moglie, insomma tutta quella bardatura da «donna» che l’attuale cultura politica l’aveva obbligata a indossare, e alla luce dei riflettori è rimasta scintillantemente nuda, in tutta l’intelligenza, la cattiveria, la capacità di calcolo e di tattica d’un politico di razza. E grazie a questo ha vinto.

Il discorso con cui due giorni fa, dal palco della Convention di Denver, la Clinton ha (forse) salvato il destino del partito democratico (e il suo) in queste elezioni 2008, contiene una morale politica, che a guardar bene è una sana lezione di realismo. «Voglio che voi vi domandiate: avete partecipato a questa campagna solo per me? O per quel giovane marine, o per la mamma malata di cancro che fatica a crescere i suoi figli, o per quel ragazzo e la madre che tirano avanti con il salario minimo?», è il passo più significativo di questo discorso. Domande e risposte retoriche, ma efficaci nel contrapporre l’interesse generale a quel «per me», formula che condensa tutta l’ipertrofia personalistica in cui la politica si è trasmutata nello scorcio di secolo: l’elezione come percorso imperniato su un personaggio più che su una persona, su un’immagine piuttosto che su una linea politica. Complice una cultura dei mass media considerati più nel loro potere di condizionamento che in quello di convincimento. Dalla Thatcher e Reagan, a Blair e Sarkozy, la storia di questi ultimi due decenni potrebbe essere facilmente raccontata nel passaggio da personaggi realmente carismatici, e dunque produttori di immagini, a personaggi carismatici solo attraverso le immagini.

In questo gioco di travestimento della politica, il ruolo di «donna» ha avuto uno spazio sempre più grande: come nella commedia dell’arte, la politica alla ricerca di nuove identità da spingere in scena ha ripescato le maschere meno utilizzate. Le donne, i giovani, poi le minoranze, i nuovi immigrati, i neri. Maschere – diciamocelo – perché mentre il potere reale non si è mai spostato dalle mani in cui è sempre stato, queste nuove identità sono state spesso solo la rappresentazione del nuovo, illusioni ottiche per mostrare un cambio in atto, senza che ci fosse. Il nuovismo, appunto. Dentro le cui vacuità si sta perdendo più di una democrazia (e di un partito) occidentale.

Solo grazie a questa sorta di vacuità politica, del resto, si poteva arrivare, come si è fatto, a descrivere le elezioni della più rilevante carica politica del mondo, quella del presidente degli Stati Uniti, come una competizione fra la Prima Donna e il Primo Nero alla Casa Bianca. In una gara di «mascheramento», in cui i due candidati hanno in qualche modo dovuto autolimitare la misura della propria sfera d’influenza per diventare figurine pubbliche. Con il risultato che in questi mesi una campagna elettorale partita in maniera molto stimolante ha cominciato, agli occhi degli stessi elettori, a perdere senso proprio a causa del suo eccesso di simbolismo.

Essere «nero» o «donna» si sono rivelati ruoli sempre meno convincenti rispetto alle richieste di leadership nate dalla crisi del prezzo del petrolio, dei mutui, o della Georgia. Entrambi questi forti candidati hanno alla fine raggiunto Denver molto più deboli che all’inizio, anche in termini di favore di voto. E la Convenzione nelle prime ore è sembrata, invece che nuova, normalizzata, con le solite figure: da Joe Biden a Ted e Caroline Kennedy, a Gore, a Bill Clinton, fino al discorso di Michelle Obama, ex ragazza ribelle dei quartieri neri, costretta a impersonare, in questo gioco di maschere, la versione nera di Jackie Kennedy, che a sua volta fu costretta a impersonare una First Lady che non era.

Poi, Hillary sembra aver capito. È salita sul palco e ha fatto quello che un politico di razza deve fare: non alimentare il proprio spazietto, il proprio piccolo mito, ma prendersi la responsabilità per tutti e di tutti. Ha smesso i panni della Evita Perón delle femministe di mezza età ed è tornata il politico-avvocato: additando obiettivi e costi necessari a vincere e capitalizzando così in senso vero la scommessa sulla vittoria: aumentando cioè la somma finale non sottraendo i propri voti.

Discorso da politico, ripeto. Crudo, nel senso che in politica conta vincere. Ipocrita, perché dopotutto non ha mai detto le cose che pur avrebbe dovuto dire di Obama: ad esempio, che è inadatto a guidare il Paese in una crisi internazionale. E realistico: Hillary sembra aver capito prima di altri nel centro di Denver quello che è successo nelle ultime settimane. Le tensioni con la Russia hanno infatti avuto un immediato impatto anche in questa campagna elettorale, rovesciandone le logiche: una nuova lacerazione dentro l’Occidente (non più con il nemico «terzo») è cosa troppo seria per essere affrontata con quattro cliché sulla democrazia, due luoghi comuni su donne e neri, e qualche bella immagine su Cnn.

Ma questa parte della vicenda è ancora tutta da scrivere. Per ora ci basta segnalare che, dopo mesi di lagna, Hillary per la prima volta ha fatto un discorso in cui non ha mai detto di essere la Prima Donna che vuole entrare alla Casa Bianca. E per questo la ringraziamo.

Lucia Annunziata, Grande Hilaryultima modifica: 2008-08-28T17:27:00+02:00da mangano1
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