DAL manifesto del 29 Agosto 2008
italia underground
La ballata DEL SILENZIO VEGETALE
IVAN DELLA MEA
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Da Torre Alta di Ponte del Giglio, frazione di Lucca, località Castelletto, decido di scendere fino alla Maddalena, giù nella Val Freddana che è nome di un torrente, la Freddana, anche quando torrente proprio non è. Raggiungo la sterrata sassosa che attraversa il bosco selvatico piuttosto anzichenò. Mi garantisco la possibilità di incontrare nessuno e nessuno incontro. Cammino e penso e dico e canto a volte. Il bosco è pieno, gonfio, verde nell’edere invasive e nelle felci e nelle forre, ma lecci e carpini e acacie e robinie e sambuchi soffrono l’acqua che ancora e da troppo non viene e il caldo di questa feria agostana tacita anche tordi e merli e uccelli ballerini e gruccioni e cincie e passeri e lodole e non un murmure ne viene dagli asfittici polmoni della selva e anche la Freddana giù a valle ristà immobile e silente d’un silenzio secco, arido. Si può vivere e patire il deserto anche nella selva quando non piove da più di un mese. Tant’è. Cosi è.
«E l’avete fatto un gran troiaio» dice chi.
C’è un ulivo ed è strano che ci sia. S’è fatta come una nicchia tra carpini e noccioli e lecci. Pieno di polloni rinsecchiti i più e con rare olivine stente è combinato tutto a modo suo nel senso che fusto e rami sono abbastanza diritti e non v’è traccia delle contorsioni cerebrali che per solito fanno nodi e grovigli come in un cervello attorcigliato da contorti ragionari e lì se ne sta proteso con tutti i rami suoi verso e sopra il tratturo sterrato sicché pare una comare grande e grossa che si sporgesse dal balcone per far di chiacchiera con chi avesse a passare di sotto e ha gli anni suoi l’ulivo e così a occhio mi paiono tanti, più di cento e mi chiedo come sia arrivato lì…
«Una merla» mi dice «un secolo e un pezzo d’anni fa. Qui venne e qui lasciò un seme ben digerito. Qui sono nato e cresciuto e qui vivo e vivrò fino a che, maledetti voi umani, mi riuscirà di scampare. E sì che l’avete fatto un gran troiaio. Molto state uccidendo del vivo del mondo intero. La speranza pure. La vostra di certo. Noi, invece, il vivo di piante d’ogni specie la fauna che tra noi vive, noi una speranza l’abbiamo ancora. Sì, seguitate a inquinare, anzi, inquinate di più e peggio e ammazzatevi che vi riesce bene e vedete di morire svelti. Tutti. Tutti sì, poiché questo è l’avvenire che una straminoranza assassina sta procacciando all’umanità intera. Posso dispiacermi e mi dispaccio per la maggioranza umana, innocente e inane, affamata e ammalata e sparata e avvelenata così come mi dispaccio di tante specie animali e vegetali che già sono morte e stanno morendo per causa vostra, ma la nostra speranza è che l’umanità intera abbia a morire tutta e presto perché noi, noi resisteremo, oh sì, e tutti insieme si farà il possibile per ridare armonia alla natura tutta, cielo e terra e acqua. Poi, come già è successo, forse verrà il tempo di un’altra specie umana e c’è da sperare che sia meglio delle precedenti. Che ci sono state e che sono scomparse».
Atlantide, penso, Mu. Platone.
D’incanto tutto mi parla nella selva, dentro mi parla con tutte le sue voci, ma è di silenzio che ho bisogno. Da tempo lo cerco, da tempo ma temo di non poterlo trovare. Le voci dentro a volte mi riesce di zittirle, tutte, ma non la mia, la mia no, la mia non tace mai, mai. Avesse a cessare questa vita mia per il silenzio di tutti i silenzi… ma io lo so: non è vero che voglio smettere di vivere, vero è che vorrei smettere di morire epperò non mi riesce. E intanto dentro di me il deserto cresce.
«Il deserto cresce – scriveva Nietzsche alla fine del XIX secolo – guai a chi protegge deserti dentro di sé». Questa frase niciana l’ho ripresa dalla prefazione di Serge Latouche al libro di Jean-Claude Besson-Girard (2007).
Bon. Più l’uomo desertifica il pianeta più desertifica anche se stesso ed è quanto sta avvenendo con progressione geometrica.
Scrive Pier Paolo Poggio nella sua postfazione a Il ritorno dei contadini di Silvia Pèrez-Vitoria (2007): «Sono stati i più grandi interpreti della civiltà industriale, Hegel e Marx, a pronunciare le parole definitive sulla sorte dei contadini, sul carattere antistorico del loro attaccamento alla tradizione e alla terra». Scrive Marx e riporta Pier Paolo Poggio: «L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini (il corsivo è di Poggio siccome quelli a seguire), e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo». Ciò nonostante è lo stesso Marx che, scrive Poggio «attraverso Justus Liebig, era riuscito a cogliere le conseguenze distruttrici per la fertilità della terra che avrebbe avuto la grande agricoltura capitalistica, con lo svuotamento delle campagne e la concentrazione crescente della popolazione nelle grandi città». Una tale situazione, che oggi vediamo realizzata su scala mondiale, «genera le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese». «Marx però», scrive ancora Poggio, «pensava che i contadini piccolo-proprietari fossero una classe di barbari, politicamente schierati con la reazione, ponendo una barriera invalicabile, che tutto il marxismo avrebbe fatto propria, tra i lavoratori dei campi e gli operai di fabbrica. Veniva così costruita una trappola ideologica micidiale (il corsivo è mio). Ma è proprio in Russia che la frattura assume le dimensioni della catastrofe e segna il fallimento della rivoluzione. Lo scenario è tragico e, ad un tempo, paradossale. Il bolscevismo è, sotto vari aspetti, l’erede del populismo rivoluzionario (durissimamente combattuto da Marx, dico io); la rivoluzione del ’17 fu possibile solo perché i contadini (che costituivano la stragrande maggioranza del partito socialista rivoluzionario, dico io), contrari alla guerra, si schierarono contro il vecchio regime e non appoggiarono i partiti borghesi; anche la forma più avanzata in cui si espresse la rivoluzione, il soviet, traeva origine dal mir contadino (tutto il corsivo è mio e ne sono ben cosciente; e, per inciso, il mir era l’assemblea di tutti i cittadini di un villaggio, ma mir per questi contadini significava il mondo contadino). Però», seguita Poggio, «come il bolscevismo era stato forgiato da Lenin in una lotta senza quartiere contro il populismo, così la dittatura bolscevica, di Lenin e di Stalin – e Trozckij non fu certo da meno – assunse come nemico principale il mondo contadino russo, decretandone, con ogni mezzo, compreso lo sterminio, la completa distruzione. Il fatto che le forze di sinistra e progressiste, nella loro totalità, non abbiano capito nulla (o non abbiano voluto capire, dico io) delle dimensioni e del significato della tragedia che si consumava in Unione Sovietica, schierandosi anzi apertamente a sostegno dell’industrializzazione forzata e considerando la collettivizzazione, con il suo corredo di milioni di morti, un tributo necessario alla marcia del socialismo, ci dice quanto profondamente fosse stata introiettata l’ideologia del progresso, incentrata sullo sviluppo delle forze produttive, a loro volta alimentate dal gigantismo industriale e dalla completa trasformazione della campagna grazie alla meccanizzazione e alla chimica, alla biologia e alla genetica».
E ancora, scrive Pier Paolo Poggio, per «il più contadino e il più importante tra i leader rivoluzionari (il corsivo è mio) lo sterminio di massa è perfettamente legittimo, perché ispirato a un’alta finalità. «È vero, abbiamo ucciso settecentomila persone, ma senza la loro morte il popolo non avrebbe alzato la testa. Il popolo chiedeva la loro uccisione per liberare le forze produttive e lo scopo è stato raggiunto» (Mao, 1967).
Bon, a questo punto sono abbondantemente desertificato. Morta lì. Epperò, ribadisco, verso la fine del XIX secolo, affatto inascoltato, Nietzsche scriveva: «Il deserto cresce, guai a chi protegge deserti dentro di sé» il che è propriamente quanto è avvenuto e sta avvenendo. L’unica speranza che vedo, rivoluzionaria, è fare tutto quanto ci riesce di fare per contribuire all’affermazione di una coscienza fondata sulla «decrescita» e penso anche che questo non possa avvenire senza un pensiero fortemente armato, in senso proprio armato, poiché i tempi sono maledettamente stretti, perché dobbiamo desertificarci noi per primi e crescere con i giovani una nuova soggettività antagonista con un obbiettivo null’affatto utopistico: salvare il pianeta per salvare se stessi poiché, mi cito, nessuno salverà sé solo.
È arrivata la pioggia. Sono tornato nella selva. L’ulivo. Ho una proposta dico. Dilla, risponde lui e sappi che tutto il mondo vegetale è un unico corpo comunicante: abbiamo acque e venti e spore per comunicare, un mondo micro e uno macro: dì pure. Ho spiegato che cos’è un mir. Ci sembra una buona idea ha detto: si può provare. Abbiamo fatto un mir: io gli ulivi, i cavoli neri e bronzini, le verze, i pomodori canestrini e i san marzano e i pachini, insalate varie, salvie e rosmarini e timi e pepolini e finocchietti selvatici e fichi e cipollotti e limoni e aranci e nespoli e noci e noccioli e limoni e susini e ciliegi e peschi e meli e albicocchi e cachi e melograni e borragini e muschi e licheni e felci e cipressi e lecci e carpini e liane ed edere e tutti loro mi hanno garantito la comunicazione in diretta con il vivente della selva, flora e fauna, tutt’attorno e con l’universo mondo e a tutti loro ho detto quanto sopra e una stupenda felce a nome di tutti mi ha risposto «vedete di darvi una mossa antropocentrici del put poiché mentre il vostro futuro come specie animale si va riducendo ogni giorno tutti i giorni, il nostro futuro ha tempi molto molto più lunghi: non che ci dispiaccia perdervi definitivamente per come vi siete malamente scombinati, epperò nella nostra memoria universale più che millenaria conserviamo ricordi rari e cari di felice convivenza sui quali ragionare il mondo a venire».