Paolo Jedlowski, La sociologia della vita quotidiana oggi

Paolo Jedlowski

LA SOCIOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA OGGI

[nota: la relazione corrisponde a una stesura provvisoria dell’intervento dal titolo “Che cos’è la vita quotidiana?” preparato per il convegno dell’A.I.S. del 21-22 novembre a Milano. Nella versione qui riportata, sarà pubblicata nel volume I fogli nella valigia. Sociologia e cultura, il Mulino, 2003]
1420465522.jpg
La vita quotidiana è la vita di ogni giorno. E’ la vita che c’è. A meno che non crediamo in qualche forma di vita soprannaturale, non ne abbiamo un’altra. Ed ha una struttura prevalentemente ripetitiva. Ogni giorno ci alziamo dal letto, facciamo colazione, andiamo al lavoro mettendo un piede davanti all’altro come sempre, e come sempre salutiamo, gesticoliamo, svolgiamo i nostri compiti, utilizziamo gli oggetti che ci circondano, e così via.
Certo, vi sono per tutti istanti eccezionali, momenti di svolta, crisi o periodi di passione che, rispetto alla vita quotidiana, si stagliano diversamente. Confrontata con questi, la quotidianità sembra immobile: rassicurante per certi versi o noiosa per altri, ma quasi eterna nel suo costante ripetersi.
La forma della nostra vita quotidiana, tuttavia, non è eterna per nulla. La storia vi passa attraverso: le routine che oggi diamo per scontate non sono le stesse in cui si impegnavano abitualmente i nostri genitori o i nostri nonni, o men che meno altri più lontani nel tempo, perché sono diversi gli ambienti, gli oggetti, le tecnologie, le opportunità e persino i significati che alla vita di ogni giorno vengono attribuiti.
La quotidianità è storica e cambia, anche se il mutamento giorno per giorno può essere impercettibile. Muta per ciascuno, nel corso del cammino biografico, e muta per tutti: la sua forma è differente in momenti diversi della storia e in diverse culture.
E cambia anche la sociologia della vita quotidiana. Si tratta di un ambito della sociologia relativamente recente: della vita quotidiana i sociologi hanno cominciato a parlare in modo diffuso, e considerandola un tema in qualche modo circoscrivibile e autonomo, non prima degli anni sessanta del secolo ora concluso. Ma, da che si cominciato a parlarne ad oggi, diverse cose sono mutate.
Le pagine che seguono sono dedicate a una ricognizione di cosa sia attualmente questa sociologia: di che cosa si occupi, che concetti utilizzi, che interesse rivesta.
Non si tratta di una ricognizione esaustiva: come e più che negli altri saggi compresi in questo volume, la sensibilità di chi scrive determina la selezione degli argomenti. D’altro canto, sono costretto ad avvertire che quanto dirò ha alle spalle un lavoro di ricostruzione della storia della sociologia della vita quotidiana in Italia appena concluso [1]: per quanto riguarda il recente passato, qui mi limiterò dunque solo a pochi cenni, concentrandomi piuttosto su alcuni degli sviluppi che, dal mio punto di vista, appaiono oggi più rilevanti.

Ieri e oggi

Vorrei iniziare con due citazioni letterarie. La prima è tratta da un romanzo poco noto, ma notissima – almeno ai sociologi – è l’opera in cui la citazione è già stata utilizzata: si tratta infatti di La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman, del 1956. Nel primo capitolo, Goffman ricorre a questa citazione per descrivere il comportamento di un uomo al mare, in vacanza. La scena è lunga; ne ripeto solo qualche frase:

… Per prima cosa Preedy doveva mostrare chiaramente a quei potenziali compagni di vacanza che essi non lo interessavano minimamente. Guardava attraverso, intorno, sopra a loro, con lo sguardo perso nel vuoto; la spiaggia avrebbe potuto essere deserta. Se per caso una palla veniva lanciata nella sua direzione, sembrava stupito; poi faceva vagare sul suo volto un sorriso divertito (che gentile quel Preedy!), si guardava attorno sorpreso di accorgersi che c’era gente sulla spiaggia, rilanciava la palla sorridendo a se stesso e non alla gente, e riprendeva quindi con indifferenza il suo disinvolto studio dello spazio. Era ora di fare un po’ di messa in scena […]. Con complicati maneggi dava modo a chiunque ne avesse voglia di leggere il titolo del suo libro – una traduzione spagnola di Omero, perciò un classico – ma non troppo – e anche di tono cosmopolita; poi riuniva l’accappatoio e la borsa in un’ordinata costruzione (che giudizioso e metodico quel Preedy!), si alzava lentamente per stirare meglio la sua enorme corporatura (che gattone quel Preedy!), e infine gettava via i sandali (dopo tutto anche spensierato quel Preedy!) [2].

Un testo come questo serviva a Goffman per concentrare l’attenzione sulla ricchezza e sulla complessità delle interazioni ordinarie. L’uomo alla spiaggia – Preedy – si occupa accuratamente dell’impressione che i suoi gesti susciteranno negli altri, con un’indifferenza studiata che mira a costruire un’immagine di sé, e conta sul fatto che i suoi maneggi saranno compresi dagli altri secondo codici comuni, anticipandone gli effetti. Si tratta di comportamenti banali, ma la comunicazione che è in gioco è nondimeno il frutto di strategie e di competenze complesse.
La sociologia della vita quotidiana che questa citazione contribuiva a introdurre riguardava queste strategie e queste competenze, che ciascuno di noi mette in gioco quotidianamente e quasi senza badarci. Si trattava di imparare – per usare un’espressione di Claude Javeau [3] – a “prendere il futile sul serio”, a riconoscere che di banale nel quotidiano non c’è proprio nulla, a studiare i meccanismi microscopici che, per quanto taciti o impercettibili, rendono conto della costruzione della socialità e del suo ordine.
La seconda citazione è tratta da un romanzo del 1984, Rumore bianco di Don De Lillo:
Il mattino andai in banca. Raggiunsi la cassa automatica per controllare il mio saldo. Inserii la carta, composi il codice segreto, digitai la mia richiesta. La cifra che comparve sullo schermo corrispondeva abbastanza al conto che avevo fatto io, arrivandovi stentatamente dopo una lunga serie di analisi su documenti e di tormentate operazioni aritmetiche. Sentii diverse ondate di sollievo e gratitudine. Il sistema elettronico aveva dato il suo assenso alla mia vita. Ne avvertii il sostegno e l’approvazione. Il cervellone, la struttura centrale, piazzata dentro un locale sbarrato, in una città lontana. Che gradevole interazione. Sentivo che qualcosa di profondo valore personale, ma non denaro, tutt’altro, era stato autenticato e confermato. Due guardie armate stavano accompagnando fuori dalla banca una persona disturbata. Il sistema elettronico era invisibile, cosa che lo rendeva ancora più incredibile, ancora più inquietante da averci a che fare. Ma eravamo in consonanza, almeno per ora. Le reti, i circuiti, i flussi, le armonie [4].

In questo testo, l’interazione è fra un uomo e una macchina. O meglio, fra un uomo e un macchinario che è l’interfaccia fra lui e un apparato tecnologico a lui inaccessibile. Nel resto del romanzo, i luoghi più frequentati sono i supermercati e la casa in cui campeggia il televisore; su tutto, aleggia lo spettro di un inquinamento invisibile (il “rumore bianco” del titolo).
La distanza fra le due citazioni è un buon indicatore della distanza che separa la sociologia della vita quotidiana degli anni sessanta da quella di oggi. Come il testo di De Lillo, la sociologia della vita quotidiana di oggi ha a che fare con soggetti in contatto con oggetti e apparati che in buona parte sfuggono alla loro presa. Non ha più da lottare per far accettare l’importanza del proprio oggetto di studio; ha soprattutto da investigare un mondo fatto di oggetti che sappiamo usare ma di cui non controlliamo il funzionamento, di apparati che sostengono il nostro agire ma che minacciano anche conseguenze tanto catastrofiche quanto difficili da identificare, e con i sentimenti e i comportamenti che a tutto questo si associano.
Non che oggetti e apparati tecnici ramificati e sofisticati non esistessero ai tempi di Goffman; né che oggi non vi siano interazioni faccia a faccia e neppure, naturalmente, che i sociologi abbiano rinunciato a studiarle. E’ il peso relativo a essere cambiato. Le interazioni stesse sono in misura crescente interazioni mediate. Anche i meccanismi sociali di inclusione ed esclusione attraversano questi apparati e ne vengono riprodotti con nuove determinazioni.
Per altri versi, fra la sociologia della vita quotidiana di ieri e di oggi vi è continuità. Ad accomunarle vi è la stessa passione a descrivere quelle che ai più possono apparire piccolezze, minuzie: l’espressione di Benjamin e Adorno secondo cui “il diavolo sta nel dettaglio” potrebbe essere il motto di tutti coloro che se ne occupano. O, in altri termini, ad accomunarle è l’obiettivo di descrivere la quotidianità e insieme di non limitarsi a descriverla per come essa appare agli occhi di chi vi è coinvolto, ma di porre in luce e indagare ciò che a questi occhi per lo più sfugge: il “retroterra”, per così dire, di tutto ciò che occupa l’attenzione mentre si è impegnati a vivere praticamente ogni giorno.
La vita quotidiana

La sociologia della vita quotidiana ha dunque oramai una sua storia.
Ma che cos’è esattamente la vita quotidiana? Prima che di un oggetto, si tratta di un’espressione linguistica. Stante la sua etimologia (che rimanda all’avverbio latino cotidie: “ogni giorno”), ha a che fare col tempo: intende la vita per ciò che in essa ricorre.
La storia di questa espressione nel linguaggio comune meriterebbe uno studio a se stante. Nonostante che l’aggettivo “quotidiano” sia antico, l’espressione “vita quotidiana” è recente: appartiene a quell’insieme di innovazioni lessicali che hanno accompagnato il sorgere delle società industriali europee tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento [5]. I suoi primi significati avevano connotazioni negative: la quotidianità era il tempo senza storia, il tempo del lavoro obbligato e sempre uguale dell’operaio di fabbrica, il tempo dei lavori domestici a cui le donne sarebbero confinate “per natura”. E soprattutto il tempo della “normalità”: tempo feriale del bravo borghese, che tutte le avanguardie artistiche, dai romantici fino ai surrealisti, si sono incaricate di criticare irrompendovi, scardinandone l’ordine, denunciandone le ipocrisie.
Il Novecento ha trasformato lentamente questo insieme di connotazioni. Con l’Ulisse di Joyce la giornata qualunque di un uomo qualunque assume la dimensione del mito. Con i romanzi di Kafka si tramuta in un labirinto inquietante; nei quadri di Magritte, in enigma e luogo di indecifrabili echi; con la pop art, la vita quotidiana diventa arte in se stessa. E per la maggioranza delle persone – o per quella che man mano diventerà la maggioranza nel corso del secolo – la vita quotidiana si fa il luogo della realizzazione dei desideri. Almeno alcuni dei desideri: quelli che il consumo permette di soddisfare, il benessere, le comodità che alleviano le fatiche dei corpi; quelli relativi alla sicurezza, alla salute, al lavoro e alla previdenza che gli stati del welfare – fino a che è loro possibile – intendono garantire; o quelli in cui si esprime la fantasia di altre vite, che la pubblicità associata agli oggetti di consumo e i prodotti delle industrie mediali consentono di immaginare. La vita quotidiana diventa il piano su cui si misura la “qualità della vita”: oggetto di rivendicazioni, aspirazioni, critiche e strategie individuali e collettive.
Nelle scienze sociali, nonostante alcune anticipazioni, la vita quotidiana diventa un termine corrente soltanto a partire dagli anni sessanta. La sua definizione dipende dagli obiettivi intellettuali e dai quadri teorici entro cui viene impiegata. Nel marxismo critico di autori come Henri Lefevre e Agnes Heller, ad esempio, è il luogo della “riproduzione dei rapporti di produzione” dove, più o meno contraddittoriamente, si sviluppano anche i bisogni che spingono alla trasformazione dell’ordine sociale esistente; nella “nuova storia” di Fernand Braudel, la vita quotidiana si inserisce nel quadro di un programma di studi sulla vita materiale e sulle mentalità, caratterizzate dalla “lunga durata”; in autori come Foucault, è il luogo in cui ogni potere sociale si ramifica e detta il suo ordine al linguaggio e ai corpi stessi di chi vi è assoggettato [6].
In sociologia, il termine entra in circolazione soprattutto grazie alla corrente fenomenologica e alle sue varie diramazioni. Come scrivono Peter e Brigitte Berger, la vita quotidiana è

il tessuto di abitudini familiari all’interno delle quali noi agiamo e alle quali noi pensiamo per la maggior parte del nostro tempo. Questo settore dell’esperienza è per noi il più reale: è il nostro habitat usuale e ordinario [7].

Così concettualizzata la vita quotidiana è una sfera, o piuttosto una dimensione dell’esistenza, che si affaccia ogni qualvolta la vita assuma caratteristiche ripetitive che la avvolgano in un’aura di familiarità. In questo senso, anche la corsia di un ospedale, che difficilmente può essere “quotidiana” per un malato, è il luogo di azioni e relazioni quotidiane per chi vi lavora; vi è una “quotidianità” della guerra per il soldato, ve n’è una per lo scienziato nel suo laboratorio e una per l’artista che pure produce opere la cui fruizione potrà apparire ad altri stagliarsi come eccezionale.
Da qui in avanti e in modo definitivo, la vita quotidiana non è più banale. Da un lato, è il perno materiale e affettivo intorno a cui ruota la vita di ogni individuo, ciò che rende conto della sua “sicurezza ontologica” [8]. Dall’altro, è il luogo in cui si riproduce l’ordine simbolico che regola ogni interazione: è il punto di partenza da cui è possibile investigare come la realtà sia una costruzione sociale, cioè come essa sia il risultato di ripetuti processi di interpretazione e di azioni rispetto a cui ciascun individuo – per la sua parte – ha una dose di responsabilità [9].
La sociologia italiana, per quanto l’influenza della fenomenologia vi sia stata tutt’altro che inavvertita, ha preferito tuttavia non ancorarsi alla sua definizione della vita quotidiana. Almeno all’inizio, del resto, ha preferito evitare determinazioni univoche. Come scrivevano Franca Bimbi e Vittorio Capecchi nell’introduzione al volume che raccoglieva gli atti costituitivi della sezione dell’Associazione Italiana di Sociologia intitolata alla vita quotidiana,

lo studio della vita quotidiana è quello studio che si incentra sul soggetto, su ciò che gli sta immediatamente intorno (i famigliari, i vicini di casa, gli amici, i colleghi) e su tutte quelle pratiche, rappresentazioni, simbolizzazioni, per mezzo delle quali il soggetto si organizza e contratta incessantemente il suo rapporto con la società, con la cultura, con gli eventi [10].

Una definizione, come si vede, abbastanza larga da permettere strategie di ricerca e riferimenti teorici diversificati. Nel complesso, l’importanza di questa nozione veniva colta soprattutto nella sua promessa di consentire una concettualizzazione del soggetto (dell'”attore sociale”, come dicono i sociologi) più duttile, articolata e varia di quelle delle teorie correnti [11].
Ma l’attenzione per la vita quotidiana nella sociologia italiana non nasceva soltanto dall’interno delle aule universitarie o di una riflessione comunque esclusivamente scientifica: si imponeva piuttosto a partire dalla sua tematizzazione esplicita da parte dei movimenti giovanili e dei movimenti delle donne degli anni settanta ed ottanta. E, più in generale, a partire dal fatto che era la società intera a occuparsene: se il quotidiano diventava visibile teoreticamente era perché i suoi abitanti gli rivolgevano (come vi rivolgono ancora) sempre più spesso pensieri e attenzioni, entro una logica che cerca il senso della vita sempre meno “altrove” e sempre più in ciò che quotidianamente è possibile raggiungere ed ottenere.
La vita quotidiana è apparsa ai sociologi italiani molto più una “prospettiva” o un “punto di vista” capace di orientare la ricerca in modi innovativi che non un oggetto in se stessa o un concetto determinato. E l’innovazione c’è stata: i sociologi che si sono occupati della vita quotidiana hanno rivoluzionato la sociologia della famiglia e quella dei servizi, hanno contribuito alla sociologia economica, a quella dell’ambiente e a quella dei movimenti politici; hanno imposto alla comunità accademica l’attenzione per “variabili” come il genere, l’età o l’appartenenza generazionale; hanno esplorato temi trasversali come il tempo e la memoria sociale; hanno elaborato metodi di ricerca quantitativi e (soprattutto) qualitativi originali e complessi. La storia di questa sociologia, per quanto breve, è affascinante. Ma non è quello di cui intendo occuparmi nelle prossime pagine. Al punto attuale di questa storia, credo sia legittimo chiedersi che cosa sia, infine, l’oggetto che chiamiamo “vita quotidiana”.

Per una definizione

A mio avviso, la vita quotidiana è l’insieme degli ambienti, delle pratiche, delle relazioni e degli universi di senso al cui interno uomini e donne trascorrono in maniera ordinaria la maggior parte del proprio tempo, secondo le fasi del loro percorso biografico e secondo i ruoli in cui sono coinvolti, in una data società e in un periodo storico determinato.
Si tratta di una definizione abbastanza larga, mi pare, da essere condivisibile da molti. Ma non è neutra. La menzione della diversità delle fasi del percorso biografico e del carattere situato della quotidianità in una società e nella storia riflette attenzioni maturate dalla sociologia in questi anni, così come ne dipende la cura di nominare “uomini e donne”, rinunciando all’ipostatizzazione di un soggetto asessuato.
Rispetto alla definizione di Berger e Berger ricordata più sopra, quella ora proposta conserva l’ampiezza (che consente fra l’altro di includere nella vita quotidiana il lavoro, che altre definizioni escludono [12]); ma, pur mantenendo il riferimento all'”ordinarietà” di ciò che chiamiamo quotidiano, riduce l’enfasi sul suo carattere abitudinario. Tale carattere corrisponde all’atteggiamento che dà il mondo per scontato, e questo atteggiamento è effettivamente consustanziale alla quotidianità, ma non la esaurisce: se non lo si riconosce, diviene difficile cogliere come essa muti anche in ragione della creatività degli attori, della loro capacità di produrre innovazioni magari microscopiche, ma significative.
L’attenzione a questa creatività è stata uno dei motivi più ricorrenti delle indagini e delle proposte intellettuali dei sociologi italiani. Si veda ad esempio questa definizione di Laura Balbo:

Dire quotidiano significa che assumiamo il punto di vista di un individuo nella sua vita reale e concreta. Ciascuno è collocato rispetto alle cose che fa, in casa e sul lavoro, nelle attività professionali e nel tempo libero. Quotidiano non è però l’ambito del “familiare”, nel senso della routine, di ciò che si dà per scontato, dell’irrilevante. E’ piuttosto la dimensione spazio-temporale di ciascun attore sociale che concepisce, articola e realizza strategie, sommando momenti inventivi ai momenti adattivi [13].

Queste frasi erano poste in apertura di un annuario sulla società italiana teso a mostrare l’ambivalenza delle tecnologie contemporanee e le loro potenzialità nella direzione di una società friendly (una società “amichevole”: a misura d’uomo e di donna): lungi dall’evocare tali potenzialità come mera utopia, l’annuario sottolineava come esse siano esplorate di fatto (anche se spesso non valorizzate collettivamente) dalla creatività e dall’intelligenza pratica dei loro utenti. L’identificazione assoluta del quotidiano con l’ambito del “familiare”, del “dato per scontato”, di ciò che è ovvio e viene dunque meramente ripetuto in modo irriflesso, viene scartata perché, rispetto alla ricchezza di queste esplorazioni, è riduttiva [14]. Qualunque attività quotidiana (fare la spesa, andare in tram, salutare un conoscente) comporta tanto gesti ripetuti in modo disattento quanto certi momenti di attenzione, l’esercizio di abilità, l’applicazione di accorgimenti dettati dall’esperienza: insomma, un miscuglio articolato di abitudini, adattamenti alle circostanze e invenzioni.
A questo riguardo vanno avanzate tuttavia due osservazioni. La prima è che nozioni come “abitudine”, “routine” o “familiarità” non possono essere accantonate: esse costituiscono categorie specifiche necessarie allo studio della vita quotidiana. Il punto è definire correttamente il loro ruolo, che non va esteso alla caratterizzazione dell’intera vita quotidiana, bensì limitato alla definizione di quello che potremmo chiamare l’atteggiamento quotidiano (o “pensiero quotidiano”).
Come ho sottolineato in diversi dei saggi precedenti, quest’ultimo è l’oggetto specifico della sociologia fenomenologica [15]. Tale atteggiamento coincide con la tendenza ad assumere la realtà – o quanto meno gli aspetti della realtà pragmaticamente rilevanti per le condotte quotidiane – come non problematica, cioè a “mettere fra parentesi” il dubbio che le cose possano essere pensate o fatte altrimenti da come si è imparato a pensarle ed a farle. Sul piano pratico, questo atteggiamento corrisponde alla formazione di abitudini e routine; sul piano cognitivo, corrisponde al senso comune. Tale atteggiamento ha aspetti sia pragmatici, sia psicologici. Il sentimento di familiarità con il mondo – o quanto meno con una sua sezione – che esso genera è connesso con motivi pratici (dire che “questo mi è familiare” significa che so di cosa si tratta, che so come comportarmi a riguardo senza doverci troppo pensare) ma ha a sua volta una valenza psicologica (poiché so di cosa si tratta, sono rassicurato; vi è un ordine nel mondo e io mi ci sento a mio agio). Tutto ciò corrisponde a un processo di addomesticamento della realtà che si riproduce incessantemente e necessariamente, anche nei contesti di vita più variegati, turbolenti o esposti a novità, e che può essere tenacemente difeso quando è minacciato.
Ciò non toglie che, vivendo giorno per giorno, ciascuno di noi acquisti ed elabori un’esperienza personale che non si riduce ad abitudini e senso comune, ma si riverbera su questi e li interseca portando ad affrontare domande che l'”atteggiamento quotidiano” tenderebbe a evitare, mettendo a confronto ciò che “si dice” e “si fa” con il proprio vissuto, generando scostamenti e innovazioni.
Tenendo conto di entrambi questi aspetti , bisogna dire così che la vita quotidiana contiene in sé tanto l’atteggiamento quotidiano quanto il suo contrario: la dialettica che la caratterizza sta fra l’abitudine e la sua ricorrente rottura, fra senso comune e esperienza [16].
In secondo luogo, è opportuno rammentare che gran parte di ciò che ogni soggetto sa e fa quotidianamente è inconscio. Non nel senso che a questo termine attribuisce la psicoanalisi (il cui utilizzo ci spingerebbe troppo lontano), ma nel senso che si tratta di saperi e di operazioni che sfuggono alla riflessione. La fenomenologia qui ci è di nuovo d’aiuto distinguendo coscienza pratica e coscienza discorsiva (o riflessiva) [17]. La prima è l’insieme di ciò che noi sappiamo fare senza riflettere su come mai lo sappiamo, su quali regole seguiamo, etc.: ha a che fare con il nostro essere situati nel mondo praticamente e sensibilmente, con i corpi prima che col pensiero. La seconda è quella che sviluppiamo mediante l’uso del nostro linguaggio conversando, scrivendo, narrando qualche cosa ad un altro o parlando a noi stessi. La prima può essere illuminata dalla seconda, ma non può esservi trasferita senza residui, non può cioè essere portata integralmente al livello del discorso e della riflessione: non solo perché le possibilità semantiche di ogni lingua sono ridotte rispetto all’infinità potenziale di senso che la vita possiede [18], ma perché l’uomo che si interrogasse su tutto (come mettere un piede davanti all’altro, cosa fare e perché in ogni singola situazione in cui si imbatte) sarebbe votato all’immobilità o morirebbe. In questo senso, dal punto di vista della coscienza discorsiva e riflessiva, la coscienza pratica è “inconscia”, cioè lavora al di sotto di ciò di cui siamo esplicitamente consapevoli. Sappiamo e sappiamo fare di più di quanto non sappiamo di sapere.
Tener conto di ciò contribuisce a chiarire il significato della sociologia della vita quotidiana: essa è un’impresa votata al compito – necessariamente interminabile, ma utile di volta in volta su temi determinati – di portare alla luce della riflessione ciò che gli esseri umani compiono in modo largamente irriflesso nel loro agire giorno per giorno [19].
Quanto agli altri termini utilizzati nella definizione proposta più sopra (“ambienti”, “pratiche”, “relazioni” e “universi di senso”), nel concreto della vita quotidiana sono pressoché indissolubili; distinguerli corrisponde tuttavia all’uso che delle parole facciamo usualmente e può essere utile analiticamente.
Con il termine ambiente, innanzitutto, mi riferisco sia all’ambiente fisico al cui interno ci muoviamo comunemente (nei suoi aspetti naturali e in quelli artificiali, peraltro pressoché indistinguibili), sia agli apparati tecnici dei quali ci serviamo e gli oggetti che manipoliamo abitualmente. Apparentemente gli ambienti sono esterni al soggetto; ma, nel loro insieme, essi ci educano e penetrano così la nostra soggettività: il mondo materiale che ci circonda addestra i nostri sensi e la nostra sensibilità; la vita che quotidianamente viviamo ne è influenzata al punto da non poter essere compresa senza farvi riferimento; d’altra parte, gli ambienti sono come sono perché ciascuno di noi contribuisce a riprodurli giorno dopo giorno.
Le pratiche, a loro volta, sono insiemi di azioni la cui successione è almeno parzialmente fissata dall’abitudine o dalla tradizione [20]. Il termine conserva nel lessico sociologico una certa vaghezza, ma in una definizione della vita quotidiana lo trovo comunque preferibile ad altri termini, come ad esempio quello di “azione”: ciò che nella vita quotidiana incontriamo più di frequente non sono singole azioni, ma serie di azioni, condotte. Le pratiche quotidiane tendono spesso ad assumere la forma di routine, cioè di corsi d’azione standardizzati, i cui fini e le cui modalità vengono dati per scontati. E in parte tendono ad essere ritualizzate (un termine che sottolinea la valenza simbolica, “sacralizzata” e carica emotivamente che la loro ripetizione può assumere [21]). Esse rappresentano il modo in cui operiamo all’interno dei nostri ambienti, e naturalmente a questi sono collegate (ad ambienti diversi corrispondono pratiche altrettanto diverse, e il loro mutamento è per lo più solidale). Anche le pratiche che svolgiamo abitualmente, in un certo senso, ci educano: il nostro essere ne viene a poco a poco determinato, diventiamo esperti in certi campi d’azione e non in altri [22].
Gran parte delle pratiche quotidiane si realizza all’interno di relazioni e interazioni con altri. Lo studio delle relazioni sociali è forse il patrimonio più consolidato della sociologia: qui come altrove, la sociologia della vita quotidiana non pretende d’altronde di inventare i suoi termini e le proprie categorie, ma le mutua e le mette alla prova, scoprendone eventualmente nuove declinazioni. Il cuore della vita quotidiana appare costituito dalle interazioni faccia a faccia, e soprattutto da quelle che si manifestano nelle relazioni più intime. La qualità di queste relazioni è del resto, per ciascuno, ciò su cui si misura in concreto la parte maggiore del proprio benessere o la propria felicità. Ma sono quotidiane anche le relazioni che intratteniamo sul lavoro e le interazioni con gli sconosciuti che incontriamo per strada. D’altro canto, vi sono relazioni intime in cui non si interagisce sempre faccia a faccia (ma per telefono, ad esempio).
Gli orizzonti di senso, infine, sono intrecciati a tutti gli elementi fin qui nominati. Il senso della vita quotidiana è innanzitutto senso comune, vale a dire un insieme di credenze, competenze, modalità di condotta e definizioni tipizzate delle situazioni che ciascun membro di una società condivide con gli altri dandole per scontate. La prestazione fondamentale del senso comune è di avvolgere i contenuti di una cultura in un’aura di “naturalezza”; poiché questi contenuti non sono tuttavia naturali, bensì socialmente e storicamente variabili, il compito della sociologia nei suoi confronti è quello di una ricorrente “denaturalizzazione”.
All’interno della questione degli orizzonti di senso menzionerei per altro in modo esplicito la considerazione degli atteggiamenti nei confronti del tempo. Non solo perché questo studio ha caratterizzato intensamente la sociologia contemporanea, ma perché gli atteggiamenti nei confronti del passato e del futuro sono una parte essenziale del modo in cui ciascuno si orienta nella propria vita quotidiana. Di una certa perdita del senso storico e di certe debolezze della memoria sociale nelle società contemporanee si è molto parlato recentemente (anche se gli atteggiamenti concreti sono molto più complessi e contraddittori di quanto usualmente si pensi [23]). Ma gli atteggiamenti nei confronti del futuro sono altrettanto importanti. Le ricerche degli ultimi decenni hanno sottolineato l’emergere di una concentrazione diffusa dei soggetti sul proprio presente [24], ma la sfera delle attese e della preoccupazione non è mai scomparsa dall’orizzonte. Se fino a poco tempo fa tuttavia attese e preoccupazioni si misuravano su prospettive di vita e di lavoro relativamente prevedibili, e all’interno di un quadro storico coincidente con la “grande narrazione” del progresso, attualmente il futuro appare per i più sotto la specie dell’incertezza: incertezza riguardante la biografia di ciascuno, e riguardante anche le sorti collettive, in un pianeta che ci appare sempre più minacciato da logiche di sviluppo imprevedibili (o, quando prevedibili, decisamente inquietanti). L’incertezza genera ansia e risentimento: si tratta di tonalità affettive più che di orizzonti di senso, ma il “senso” della vita non è mai disgiunto da un aspetto emotivo, e del resto questi affetti possono avere conseguenze comportamentali estremamente concrete [25].
Gli orizzonti di senso sono parte di ciò che chiamiamo “cultura”. E la cultura è oggetto della sociologia della vita quotidiana soprattutto per ciò che di essa è dato per scontato e incorporato negli atteggiamenti e nei comportamenti di ogni giorno. Ma, d’altra parte, anche qui gli attori non vanno considerati passivi o immobili: tutte le oggettivazioni culturali (dalle credenze religiose ai film che vediamo al cinema, dai grandi romanzi fino alle canzonette) vengono appropriate, elaborate e utilizzate in modo selettivo e parzialmente creativo. L’immaginario si nutre di queste oggettivazioni: quotidiano anch’esso, può compensare certi tratti della vita quotidiana “reale” oppure entrare in tensione con questi, generando aspirazioni o comportamenti imprevisti [26].
Una ricca tradizione teorica si è confrontata con tutto ciò tematizzando da un lato l’eccedenza di cultura (di stimoli, immagini, informazioni) che contraddistingue i soggetti attuali, e dall’altro la frammentazione dell’esperienza e del senso stesso di sé che è generata dalla moltiplicazione delle cerchie sociali e delle sfere di significato al cui interno si vive [27]. Si tratta di diagnosi importanti, che costituiscono una parte cospicua del patrimonio della sociologia. Ma la vita quotidiana non è solo il luogo di eccedenze e di frammentazioni: è anche il luogo dove ciascuno, nei limiti delle sue possibilità, procede alla loro ricomposizione. Una certa schizofrenia è indubbiamente un tratto psicologico caratteristico della quotidianità contemporanea: ma pochi vanno in pezzi davvero, e molti ne avvertono il disagio e cercano di contenerlo. Nel concreto del proprio quotidiano, ciascuno lavora a ricomporre i frammenti delle proprie conoscenze e di sé, a elaborare il senso della propria esperienza.

La sociologia della vita quotidiana e i suoi concetti

La definizione proposta è così generale da poter essere applicata, in linea di principio, a qualunque società [28]. Per come ho provato a definirla, studiare la vita quotidiana è un po’ come studiare le “forme di vita”, nell’accezione che al termine attribuiva Wittgenstein [29]: l’insieme dei modi in cui determinati gruppi di esseri umani agiscono e comunicano fra loro quotidianamente rapportandosi al proprio ambiente. Si tratta di una sociologia della cultura in senso lato: non nel senso di una sociologia che si occupi prevalentemente della produzione e della circolazione di materiali simbolici, ma nel senso di una sociologia della civilization, della cultura in quanto permea le forme di vita ordinarie [30]. Al di là delle sue origini in Goffman, Schutz o Lefebvre, la sociologia della vita quotidiana, ripensata alla luce della definizione proposta, ricostruisce la sua tradizione collegandosi a tutti i classici della sociologia, e in modo particolare a Georg Simmel [31].
Attraverso lo sguardo di Simmel, la vita quotidiana appare soprattutto come la dimensione dell’esistenza in cui gli elementi oggettivi e soggettivi della vita sociale si fondono nel dar forma all’esperienza degli individui. In altri termini, appare il luogo in cui si fa più evidente che mai il modo in cui, sottilmente, gli assetti del mondo che ci circonda penetrano in ciascuno di noi, e in cui le forme della nostra sensibilità o dei nostri atteggiamenti nei confronti della vita, altrettanto sottilmente, penetrano nelle cose stesse.
E’ proprio al livello dello studio di tale interpenetrazione, a mio avviso, che la sociologia contemporanea della vita quotidiana sta elaborando oggi i suoi concetti più propri. Per certi versi, naturalmente, il patrimonio concettuale della sociologia della vita quotidiana corrisponde all’intero patrimonio della sociologia; per altri, rimanda all’opera di autori originali come Goffman o Alfred Schutz; ma, per altri versi ancora, lo sguardo sulla quotidianità produce anche altri concetti. Si tratta di concetti che riguardano processi storici di medio/lungo periodo, capaci di descrivere le trasformazioni dell’esperienza quotidiana degli individui mostrando come vi si intreccino fattori diversi.
I primi di questi concetti si ritrovano in Simmel, per l’appunto, soprattutto nelle sue opere che riguardano la modernità. Prendiamo ad esempio il concetto di intellettualizzazione. Si tratta di una anticipazione e di una torsione particolare del concetto weberiano di “razionalizzazione”: in questa veste, ha attraversato in lungo e in largo tutta la sociologia del Novecento. Ma nei testi di Simmel riguarda esplicitamente la vita quotidiana. Esso è infatti lo strumento centrale di un programma di ricerca che dovrà

scoprire l’equazione fra i contenuti individuali e sovraindividuali della vita cui le formazioni sociali specificamente moderne danno luogo: in altre parole, dovrà indagare i movimenti con cui la personalità si adegua alle forze ad essa esterna [32].

Il concetto di “intellettualizzazione” intende il carattere sempre più orientato all’astrazione ed al calcolo che la personalità moderna tende ad assumere: un carattere tipicamente più abile a valutare quantità piuttosto che qualità, affine alla logica dei macchinari che la tecnica mette a disposizione, teso all’efficienza, in cui le connotazioni emotive dell’agire tendono a sfumare in una generale indifferenza o una “mera neutralità oggettiva” [33]. Tale carattere corrisponde da un lato alle pressioni e alle esigenze della vita metropolitana (con la molteplicità degli stimoli che essa comporta) e dall’altro alla diffusione capillare di un’economia basata sullo scambio di merci e denaro (con la “monetarizzazione” di ogni rapporto che questi producono); e del resto contribuisce allo sviluppo di entrambe, fornendo l’atteggiamento soggettivo più idoneo al loro dispiegamento.
Si tratta di un concetto che da un lato esprime l’azione reciproca di più fattori (dove nessuno è causa esaustiva dell’altro, ma tutti si influenzano retroagendo l’uno sull’altro), e dall’altro mostra l’interpenetrazione o la fusione di processi oggettivi e soggettivi nella formazione della personalità e dell’esperienza del mondo proprie di ciascun individuo.
D’altra parte, è anche un concetto carico di ambivalenze: se da un lato l’intellettualizzazione corrisponde infatti ad un raffreddamento e una spersonalizzazione delle relazioni sociali, dall’altro è il metodo di difesa più adeguato per far fronte all’eccesso di sollecitazioni che il mondo moderno fornisce; se da un lato restringe lo spessore dell’agire alle sue sole componenti strumentali, dall’altro ne allarga la portata permettendo a ciascuno di interagire con una molteplicità di altri anonimi.
Come è tipico del pensiero di Simmel, l’individuazione di questo processo non è disgiunta del resto dall’ipotesi che altri processi emergano a controbilanciarlo, a compensarne gli effetti. Per Simmel il contraltare dell’intellettualizzazione stava nello sviluppo di relazioni intime, dall’amicizia all’amore, che la modernità carica di determinazioni sconosciute ad altre epoche. Nel corso del secolo, si è fatto altrettanto evidente un altro tipo di compensazione. Se l’intellettualizzazione è in fondo un modo di agire senza emozione, la sua controparte è l’emozionarsi senza agire: ciò che i prodotti dell’industria culturale, dal cinema popolare fino ai programmi televisivi di oggi, consentono a ciascuno.
Un concetto come quello di intellettualizzazione è estremamente interessante per la sociologia della vita quotidiana. Per un verso, è capace di descrivere qualcosa che ciascun individuo può riconoscere al livello della propria esperienza di ogni giorno (la capacità di rapportarsi ad altri considerando solo le loro funzioni; la disposizione a calcolare mentalmente costi e benefici di ogni scambio; l’impossibilità di lasciarsi coinvolgere emotivamente da tutte le operazioni e gli incontri che costellano la vita quotidiana), senza limitarsi tuttavia alla registrazione di un elemento idiosincratico, contingente o limitato alla durata di una tendenza momentanea, bensì collocandolo entro il riconoscimento di un processo di lunga durata, che coinvolge una pluralità di fattori operanti da tempo e che presumibilmente non scomparirà all’indomani. Per l’altro verso, non è neppure un concetto universale, non si adatta a qualunque contesto, bensì è relativo a un’epoca e a una società determinata. Di quest’epoca e di questa società non pretende infine di cogliere tutto, e nemmeno ciò che ne è sicuramente “essenziale”: qualcosa tuttavia di caratteristico e proprio, capace di illuminare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, rendendo gli uomini edotti della situazione entro cui sono immersi, del “retroterra” o dello “sfondo” sul quale si staglia ciò a cui riservano più consapevolmente la propria attenzione.
Ora, la sociologia contemporanea offre a mio avviso diversi concetti che a quello simmeliano dell’intellettualizzazione possono essere apparentati, condividendone le caratteristiche. Tali concetti non sono necessariamente compresi in volumi che recano nel titolo l’espressione “vita quotidiana”, e tuttavia la riguardano. Al fatto che una parte importante della sociologia contemporanea sia in effetti una sociologia della vita quotidiana – e ai possibili motivi di ciò – dedicherò qualche osservazione alla fine del saggio; per ora, vorrei ricordare alcuni di questi concetti. Ciascuno di essi è ben noto ai sociologi; li rammenterò in forma estremamente sintetica; in ogni caso, il loro impatto è potenziato dal considerarli congiuntamente [34].

Individualizzazione, incertezza e apparati

Il primo è il concetto di individualizzazione proposto da Ulrich Beck nel suo La società del rischio [35]. Il processo di individualizzazione consiste in una crescente responsabilizzazione di ciascun individuo nel disegnare il proprio percorso biografico. La crescita dell’individualismo è un tratto costante della modernità ma, se ancora Weber poteva dire che quest’ultima consisteva nel passaggio “da un mondo del destino a un mondo della scelta”, gli sviluppi ulteriori sono tali da far parlare di un “obbligo di scegliere”. Tali sviluppi, nella prospettiva di Beck, corrispondono alla fase della “tarda modernità”: una modernità che “modernizza se stessa”, una “modernità riflessiva”, ovvero una società pienamente post-tradizionale in cui ogni aspetto della vita sociale e delle stesse esistenze individuali è esposto al vaglio e alla responsabilità della deliberazione consapevole [36].
Come il concetto di intellettualizzazione, anche questo concetto non rinvia a dinamiche interne esclusivamente alla sfera della cultura o a una storia della soggettività avulsa da determinazioni oggettive: il processo di individualizzazione corrisponde da un lato alla accresciuta pervasività del mercato – che libera l’individuo tanto dai vincoli quanto dai sostegni tradizionali – e dall’altro allo sviluppo di istituzioni (nei campi del lavoro, dei rapporti fra i sessi, dell’educazione) che consentono, regolano e in fin dei conti richiedono biografie ritoccabili in permanenza. E anche il processo di individualizzazione comprende aspetti ambivalenti. Da un lato esso significa infatti

che la biografia delle persone è staccata da determinazioni prefissate e viene messa nelle loro mani, aperta e dipendente dalle loro decisioni [37];

ma dall’altro lato che

l’individuo viene sì sottratto ai vincoli tradizionali e alle relazioni di supporto, ma scambia tutto questo con le costrizioni del mercato del lavoro e dell’esistenza da consumatore, con le standardizzazioni e i controlli che essi comportano [38].

E riguarda esplicitamente la comprensione della vita quotidiana: quello che intende è infatti che a ciascun individuo è richiesto

un dinamico modello di azione per la vita quotidiana, che abbia il suo centro nell’Io e che gli attribuisca e gli apra opportunità di azione, in tal modo consentendo di lavorare sensatamente sulle possibilità emergenti di decisione e di progettazione in merito alla propria vita [39].

Infine, comporta l’esistenza di controtendenze. La ritirata del welfare ad esempio, che si è avviata nei paesi industrializzati da due decenni e che presumibilmente continuerà ancora nel tempo, pone seri limiti alla piena soddisfazione di un’etica votata alla realizzazione del sé come quella implicita nel processo di individualizzazione: laddove mancano istituzioni di supporto, la responsabilità di familiari disoccupati, inabili o anziani, ad esempio, pesa su chi è più fortunato in modo tale da opporsi radicalmente a molte delle scelte che per l’individuo, astrattamente, sarebbero praticabili.
Per alcuni versi, anche l’emergere di varie forme di comunitarismo tradizionalista (movimenti su base etnica e regionalista, con gli etnocentrismi e i razzismi connessi, in primo luogo) può apparire una forma di compensazione del processo di individualizzazione. Le radici di questi movimenti hanno però più a che fare con l’espressione di tonalità affettive che sono generate dalla crescita dell’incertezza. Già Franco Rositi, in un saggio dei primi anni ottanta, aveva segnalato come la dilatazione delle possibilità generi la sensazione che tutto nella vita sia contingente, sia cioè passibile di essere riformulato e trasformato, ma anche come, specie per le persone dotate di meno risorse e per le quali queste trasformazioni sono difficili da gestire in concreto, tale sensazione possa produrre sentimenti di frustrazione, o addirittura una vera inquietudine per l'”indeterminazione” dell’esistenza che può sfociare a sua volta nella “nostalgia di un reale necessario e costrittivo” [40].
Questa nostalgia è esattamente ciò che i movimenti ricordati esprimono e organizzano politicamente. Ma la crescita dell’incertezza è in realtà pervasiva, ed è effettivamente un altro dei concetti – o delle formule – cruciali per la descrizione della vita quotidiana attuale [41]. All’incertezza necessariamente legata al processo di individualizzazione si assommano oggi le incertezze legate all’organizzazione del lavoro nella fase postfordista e pienamente “globalizzata” dell’economia capitalista [42] e, su di una scala ancora tutta da scoprire nella sua ampiezza, quelle legate al futuro dello sviluppo economico nel suo complesso, alle conseguenze delle tecnologie, e al destino stesso della specie umana su questo pianeta.
Usando ancora le parole di Beck, il punto qui è che “con la crescita della razionalità rivolta allo scopo cresce anche l’incalcolabilità delle sue conseguenze [43]. Tali conseguenze, benché incalcolabili, attraversano in tutto il suo spessore la vita quotidiana. Nel romanzo di Don De Lillo che ho citato in apertura, le conseguenze di un episodio di inquinamento dovuto al maldestro trasporto di alcune sostanze chimiche invadono la quotidianità dei personaggi con allarmi e incidenti; ma molto al di là delle loro manifestazioni immediate, esse appaiono come incalcolabili e invisibili e tuttavia operanti nel tessuto della quotidianità sotto forma di paura, inquietudine, ricerca di più o meno paradossali modalità di difesa, ipoteca sul futuro, irruzione della morte nei pensieri ordinari.
Ma la vita quotidiana stenta a convivere con l’incertezza. L’atteggiamento quotidiano, la tendenza cioè a pensare il presente sotto la specie dell’eternità, a rimuoverne ogni tratto che sia problematico, si rigenera incessantemente e ha i suoi meccanismi di difesa e di espulsione del dubbio. Risentimento e aggressività verso il prossimo ne fanno parte, come ne fa parte, tuttavia, anche la proiezione incessante di fiducia verso persone, oggetti e apparati che non controlliamo.
Per poter vivere quotidianamente, per preservare almeno una parte della “sicurezza ontologica” che ci è necessaria, non possiamo fare a meno di credere di poter affidarci a qualcuno e a qualcosa. Il brano di De Lillo a cui mi sono riferito più sopra metteva in scena il rapporto di un uomo con un apparato tecnologico quotidiano e arcano insieme, il bancomat: al di là dell’esempio, il rapporto fiduciario con apparati del genere è un elemento costitutivo della vita quotidiana moderna.
Già Weber, un secolo fa, aveva notato che il cittadino moderno è costretto, per vivere quotidianamente, a fare affidamento su oggetti e apparati tecnici il cui funzionamento gli è oscuro:

Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea – a meno che non sia un fisico specializzato – di come la vettura riesca a mettersi in moto […]. Il selvaggio aveva una conoscenza dei propri utensili incomparabilmente migliore [44].

Da allora, la situazione si è enormemente evoluta. La vita quotidiana attuale si svolge entro ambienti fatti non solo di oggetti tecnici, ma di apparati e sistemi socio-tecnici estremamente complessi: questi affiorano in “interfaccia” con i quali operiamo quotidianamente (lo sportello del bancomat, per l’appunto, ma anche l’interruttore con il quale accendiamo la luce in una stanza, la cornetta del nostro telefono o, oggi, la tastiera e lo schermo del nostro computer), e tuttavia, in se stessi, restano celati alla vista e in larga misura sottratti alla nostra stessa esperienza. La grande tecnologia si inserisce oggi nell’ambiente così bene che non la si vede nemmeno: è data per scontata – è cioè quotidianizzata, assunta come non problematica e familiare [45]. Fin tanto che, naturalmente, il suo funzionamento non si inceppa, o la fantasia di cosa avverrebbe se si inceppasse non affiora alla mente.
Nei confronti di questi apparati si sviluppa un atteggiamento che non sarebbe sbagliato denominare feticismo. Vi è in ciò una componente di irrazionalità, ma solo fino a un certo punto. Come scrive Latour, oggetti e sistemi tecnici sono degli “attanti” ai quali abbiamo delegato parti considerevoli delle nostre azioni, artefatti cioè che in parte sostituiscono e potenziano, e in parte prefigurano e regolano il nostro agire personale: “l’azione è stata distribuita, e non c’è pericolo di cadere nel feticismo nel riconoscerlo” [46].
Nei confronti di questi artefatti la creatività e la responsabilità degli attori, tanto sottolineate dalla sociologia della vita quotidiana negli anni passati, non sono assenti: si manifestano negli usi e nel consumo, in parte negli scopi a cui gli artefatti sono piegati, a volte persino nella determinazione del destino di qualche innovazione specifica; ma la logica di sviluppo della tecnica e la frammentazione dei saperi specialistici ad essa necessari sono tali che oggetti e apparati sfuggono per lo più alla presa di chi li adopera quotidianamente. Ne dipendiamo: ad essi è delegata la nostra sopravvivenza. Se per assurdo uno di noi fosse sbalzato in un mondo di tre secoli fa, privo degli oggetti e degli apparati che oggi lo circondano, non sarebbe quasi in grado di accudire se stesso.

Compressione spazio-temporale, mediatizzazione dell’esperienza e privatizzazione mobile

Molti altri concetti potrebbero essere ricordati. Accennerò ancora solo a qualcuno. Quello di compressione spazio-temporale, ad esempio. Anche qui si tratta di un concetto che si riferisce a processi di lunga durata le cui manifestazioni e le cui conseguenze sono percepite ogni giorno [47].
Che il tempo e lo spazio “si comprimano” significa che i mezzi di trasporto e di comunicazione che si sono evoluti nel corso della modernità sono sempre più veloci, in modo tale da avvicinare luoghi, eventi e persone precedentemente lontani. Le conseguenze culturali di questo processo sono amplissime e, del resto, abbondantemente studiate [48]. Ma, oltre ai modi di percepire e di concepire la nostra realtà, questo processo investe i modi di organizzare quotidianamente la vita. Permette di dislocare attività produttive e lavoratori connettendoli nei modi più vari, di costituire inedite reti di relazioni che trascendono lo spazio fisico della compresenza, di agire a distanza, di ampliare la quota di attività e di esperienze a disposizione di ognuno, di disegnare sul territorio nuove mappe di spostamenti quotidiani.
Anche questo processo è generato da una molteplicità di fattori, senza che si possa dire quale (tra fattori economici, tecnologici, culturali e istituzionali) ne sia il primo motore. E non è privo di ambivalenze: i mezzi di trasporto moderni connettono certi luoghi, ma ne escludono altri; i mezzi di comunicazione, a loro volta, sono legati a infrastrutture disegualmente distribuite e, quanto al loro uso, richiedono spesso competenze e risorse che non tutti posseggono o che generano difficoltà di apprendimento. Lo spazio e il tempo sono effettivamente compressi per molti, ma per altri si dilatano a dismisura. Né mancano controtendenze, resistenze o compensazioni: vi sono ambiti della vita che è impossibile o assurdo velocizzare; altri in cui il desiderio di lentezza, di pause o di vuoto sono auspicabili e di fatto auspicati [49].
Per certi versi e per chi ne è toccato, la compressione dello spazio e del tempo corrisponde a una certa “decorporeizzazione” dell’esperienza: i limiti del corpo sono trascesi e lo spazio delle nostre azioni si fa immateriale. Qui gli effetti di questo processo si incontrano e si sovrappongono con ciò che è descritto da un altro concetto, quello di mediatizzazione dell’esperienza [50].
Il concetto si riferisce usualmente all’esperienza a cui abbiamo accesso grazie ai mezzi di comunicazione di massa come la televisione. L’esperienza mediata è un’esperienza impalpabile. Essa corrisponde più ad un “assistere” che a un “partecipare”, e la sua diffusione, benché apra spazi alla coscienza, corrisponde alla trasformazione degli attori quotidiani in spettatori del mondo. Simmetricamente, trasforma la realtà in simulacro. Ma, non appena si avvicina lo sguardo, le cose sono assai più complesse. Da un lato, la mediatizzazione dell’esperienza significa innanzitutto che è sempre più difficile, nella vita quotidiana di ognuno, distinguere i materiali legati all’esperienza diretta e quelli che derivano dall’esposizione mediale. Dall’altro, va sottolineato che anche l’esperienza mediale è un’esperienza quotidiana e di routine, carica di competenze che col tempo possono essere date per scontate; essa può piegarsi a significati variabili e differenziarsi ampiamente per genere, età, istruzione e collocazione geografica dello spettatore; corrisponde a processi di ricezione, di interpretazione e di elaborazione compositi, contribuisce alla formazione delle identità e può accompagnarsi o preludere a forme di azione e di interazione estremamente articolate [51].
La discussione di tutto ciò è troppo ampia per essere perseguita qui. Ma è vero che i mezzi di comunicazione sono oggi una parte imprescindibile della vita quotidiana di ciascuno di noi. Come sottolinea Roger Silverstone, una sociologia della vita quotidiana che li rimuovesse sarebbe monca in modo irreparabile [52].
La televisione, e prima di essa la radio, rientrano infine nel raggio d’azione dell’ultimo dei concetti che vorrei menzionare, quello di privatizzazione mobile. L’espressione è stata coniata da Raymond Williams negli anni settanta [53]. Essa intende l’emergere parallelo di due tendenze, apparentemente contraddittorie ma strettamente connesse, che caratterizzano le forme di vita dei paesi industrializzati nel Novecento: la tendenza alla mobilità degli individui e all’interconnessione dei luoghi da un lato, e quella allo sviluppo di unità domestiche sempre più autosufficienti dall’altro. La diffusione dell’automobile, di radio, televisori ed altri elettrodomestici rende conto di un sistema di appropriazione domestica delle nuove tecnologie precedentemente sconosciuto:

Il precedente periodo di tecnologia pubblica, egregiamente rappresentato dalle ferrovie e all’illuminazione urbana, stava per essere sostituito da un genere di tecnologia per il quale non è stato ancora trovato un nome soddisfacente, la tecnologia che serve un modo di vita al contempo mobile e centrato sulla casa: una forma di privatizzazione mobile [54].

Come ha notato Silverstone, la privatizzazione mobile risponde ai bisogni di una popolazione sempre meno metropolitana e sempre più suburbana, e allo stesso tempo favorisce questo tipo di insediamento. D’altra parte è strettamente intrecciato all’importanza che assumono i consumi privati nell’economia [55]. La casa privata nel corso del Novecento è diventata il centro della vita quotidiana in una maniera sconosciuta alla maggior parte delle persone nel secolo precedente; ma i mezzi di trasporto e di comunicazione che le famiglie acquistano privatamente non provocano una chiusura della casa su se stessa: al contrario, ne inseriscono gli abitanti in un mondo più vasto che mai. Con l’automobile si può lavorare o far spese quotidianamente lontano da casa; con il telefono si è immersi in reti di relazioni continue con altri distanti; con radio e televisione la casa si dota di una finestra sul mondo. Ciascuno si sente sempre più autosufficiente; d’altro canto, dipende da servizi e apparati tecnologici che non controlla.
Anche questo concetto, come si vede, descrive l’ambivalenza dei processi osservati. E la sua portata temporale è piuttosto ampia: larga abbastanza da comprendere una fase della modernità. Mezzi di comunicazione più recenti come il computer o il telefono cellulare, del resto, prolungano le medesime tendenze: il soggetto di consumo non è più la famiglia ma il singolo – la “privatizzazione”, in questo senso, si radicalizza – e contemporaneamente il singolo è inserito da questi mezzi in reti di relazione sempre più dense, dipendendo da apparati sempre più complessi e più estranei al suo controllo.

Perché parlare del quotidiano?

Tutti i concetti così sommariamente ricordati riguardano i mutamenti che sta attraversando la vita quotidiana; riguardano gli ambienti, le pratiche, le relazioni e gli universi di senso in cui sono impegnati i suoi attori, nelle varie fasi dei loro corsi di vita e nella molteplicità di ruoli che vi rivestono.
Altri concetti potrebbero essere ricordati; altri potrebbero essere proposti. In ogni caso si tratta di strumenti di descrizione di processi che chiamano in causa una molteplicità di fattori interagenti; processi ambivalenti e in vario modo connessi fra loro, dove elementi oggettivi della vita sociale si combinano con elementi soggettivi in un gioco di spinte e controspinte che disegna il campo attuale dei rapporti fra gli individui e gli insiemi sovraindividuali in cui sono immersi.
Questi concetti sono stati elaborati nei libri di diversi dei sociologi contemporanei più noti e più letti: Giddens, Beck, Bauman, Williams e così via. Le opere di questi autori sono ricche di osservazioni capaci di aderire ai tratti più minuti dell’esperienza di ogni giorno, e sono tese a mostrare come processi economici e tecnologici di ampia portata si esprimano quotidianamente e influenzino l’esperienza e gli stessi tratti psichici degli individui moderni, e come gli individui reagiscano a tali processi influenzandone a propria volta il corso. Per quanto pochi di questi autori dichiarino di star facendo una “sociologia della vita quotidiana”, quasi tutti ne utilizzano esplicitamente la tradizione teorica; in ogni caso, del quotidiano parlano diffusamente.
Perché questo interesse? Personalmente ritengo che ciò sia la testimonianza del fatto che la vita quotidiana è l’ambito più adeguato per descrivere quelle che Giddens chiama le “conseguenze della modernità” [56]. Ed è questo fatto a segnare la specificità della sociologia della vita quotidiana di oggi rispetto a quella di trenta o quaranta anni fa.
Non si tratta più semplicemente del fatto che le logiche dell’industrializzazione e della razionalizzazione fuoriescono dalla sfera economica e permeano di sé tutto il tessuto sociale e le stesse coscienze (ciò che ogni ricerca sulla “modernizzazione” ha documentato da tempo). Né si tratta soltanto del fatto che il quotidiano sia “colonizzato” dalle istituzioni economiche e politiche (come scriveva Habermas negli anni settanta). Né si tratta solo di ciò che oggi è palese, e cioè che la riorganizzazione postfordista e globale dell’economia capitalista impone la cifra della sua “flessibilità” a tutti i lavoratori/consumatori sussumendone ogni capacità e sensibilità, utilizzandone la capacità di convivere con l’incertezza ed ampliando quest’ultima a dismisura.
Si tratta dell’accumulo di tutti questi processi gli uni sugli altri e di altro ancora. Come dice Beck, gli effetti della modernità si rovesciano sulla modernità. Il quotidiano che la modernità ha trasformato ora è trasformato incessantemente dai suoi stessi abitanti, in un orizzonte che ciascuno è chiamato a edificare con materiali soggetti a un’innovazione perpetua; contemporaneamente, gli effetti dello sviluppo scientifico, tecnico ed economico minacciano la riproduzione quotidiana della vita in modi tanto più inquietanti quanto più difficili a decifrarsi.
La modernità del resto è quotidiana per eccellenza: legittima se stessa attraverso la qualità della vita che promette; i suoi progetti hanno tutti a che fare con la realtà mondana, terrestre: non vi è un altro mondo a cui essa si riferisca. E’ su questo piano che chiede di essere compresa e valutata.
Ed è su questo piano che la comprendono e valutano i suoi abitanti. Per questo i sociologi ne parlano: essa è il piano appropriato per descrivere la modernità ed i suoi effetti nelle forme più congruenti con il modo in cui oggi gli individui comprendono meglio se stessi e la realtà in cui sono immersi. Ed è il piano su cui è più naturale sollecitarne eventualmente la critica: mostrare che certi processi economici deteriorano in realtà la qualità della vita o rendono incerto il futuro dei figli, illustrare come certi aspetti dello sviluppo tecnologico producano rischi quotidianamente insostenibili, o ancora evidenziare che ci sono poteri che vanificano l’apparente libertà e autonomia di ciascuno, sono cose che tutti possono comprendere.
Fare sociologia della vita quotidiana significa restituire il quotidiano alla storia: non in modo astratto, bensì nei modi che gli individui possono meglio avvicinare alla propria esperienza. Che il quotidiano muti, lo vedono tutti: con quali costi e con quali benefici, li interessa.

Conclusioni

Il grande scenario con il quale la sociologia – e tutta l’umanità – dovrà confrontarsi nel prossimo futuro è rappresentato presumibilmente dal conflitto per la distribuzione delle risorse su scala planetaria, sullo sfondo della possibilità di catastrofi ecologiche e del problema di gestire conoscenze scientifiche sempre più in grado di manipolare la vita con conseguenze imprevedibili. Alla coscienza contemporanea la storia non sembra offirire un telos positivo verso cui tenderebbe infallibilmente: sembra piuttosto il succedersi di avvenimenti dall’esito incerto. A uomini come Weber, l’unica speranza apparirebbe consistere oggi, probabilmente, nell’apparire di una nuova profezia religiosa capace di riordinare l’atteggiamento umano nei confronti del mondo. Rispetto a questo scenario, occuparsi della vita quotidiana può apparire di poco conto. Ma la vita quotidiana è la vita che c’è. Prendere atto delle sue forme è conoscere una parte importante di noi. Se è quotidianamente che riproduciamo la nostra realtà, è da qui che si può partire anche per modificarla.
La vita quotidiana non è soltanto la forma che assume ogni giorno la soddisfazione dei bisogni materiali dell’esistenza. Corrisponde implicitamente anche a un’estetica e a un’etica: è il modo in cui ogni individuo (in relazione alle opportunità che gli offre la sua società, alle sue risorse, alla storia) articola le proprie risposte alla domanda di senso che la vita gli pone, sviluppando le proprie preferenze e esprimendo la scelta dei fini ai quali si vota. Ai fini ultimi rispetto ai quali è organizzata la nostra esistenza pensiamo di rado; se vi pensiamo, non è infrequente che ci avviluppiamo in argomentazioni involute, che mistificano forse più di quanto non illuminino ciò che effettivamente dà forma al nostro agire. Ma i fini rispetto a cui agiamo non sono nascosti: si esprimono in ciò che facciamo quotidianamente.
La vita quotidiana non esiste più di quanto non esistano cose come “il corso della vita” o la “biografia”: si tratta di costrutti linguistici, e non di oggetti fisici, che servono a rendere conto di aspetti diversi della nostra esistenza, per come siamo in grado di coglierla. Ma gli aspetti che la nozione di vita quotidiana permette di illuminare sono particolarmente importanti: essi consistono in ciò che nella nostra vita ricorre, e ciò che ricorre (ciò che facciamo e rifacciamo, gli ambienti a cui siamo più esposti, i pensieri e i sentimenti che ci abitano più di frequente) costituisce il nostro essere molto più di quanto non lo costituiscano le esperienze eccezionali, i momenti straordinari o, per altri versi, le fantasie cui indulgiamo. Prendere atto della vita quotidiana è così avvicinarci quanto più è possibile alla nostra determinazione concreta.
Comprenderla è comprendere in che modo stiamo al mondo, con quale atteggiamento rispondiamo alla domanda “come vivere?” che la vita non può fare a meno di porci: questa è l’anima della sociologia della vita quotidiana, almeno per quello che intendo.
Questa sociologia tende a descrivere la quotidianità e i modi in cui essa muta. Ma tende anche riconoscere e a far prendere atto a ciascuno delle preferenze che esprime concretamente e dei fini ai quali, per il modo in cui giorno dopo giorno conduce la vita, si vota. Non è molto: in fondo, corrisponde soltanto a un aiuto a non ingannarci troppo su noi stessi. Ma non è neanche poco.

Relazione preparata per il Convegno nazionale dell’Associa

Paolo Jedlowski, La sociologia della vita quotidiana oggiultima modifica: 2008-09-07T17:58:00+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo