Nicla Vassallo, Simone de Beauvoir, colei che non amava le donne

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OzBlogOz lipperatura loredana lipperini

Loredana Lipperini Ogni promessa è debito: ecco l’articolo di Nicla Vassallo apparso sull’ultimo numero de L’Indice. Titolo, “Colei che non amava le donne”.

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Ho esitato a scrivere per rendere omaggio (o oltraggio) a Simone de Beauvoir nel centenario della nascita. In molti, forse troppi, lo avevano già fatto, specie oltralpe, impiegando ogni possibile risorsa mediatica, mentre la corposa uscita gennaio-marzo di Les Temps Modernes era intitolata “La transmission Beauvoir”. A convincermi a scrivere è stata la1757134012.jpg lettura di uno stringatissimo saggio sulla rivista stessa, in cui Élisabeth Badinter dichiara: «La philosophie à l’œuvre dans Le deuxième sexe a fait prendre conscience aux femmes de leur inestimabile droit de dire NON». Non so se si possa parlare davvero di filosofia, ma leggendo Le deuxième sexe ho senz’altro detto NO alla maggioranza dei suoi contenuti e dei suoi goffi tentativi di argomentare a favore di tesi non del tutto chiare. NO, anche perchè la penso proprio come la grande Stevie Smith: «Miss de Beauvoir has written an enormous book about women and it is soon clear that she does not like them, nor does she like being a woman».
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Ho però esitato a scrivere anche per altre ragioni. Se da una parte la mia lettura degli scritti di de Beauvoir risaliva ai tempi lontani in cui ero una ragazzina, e non mi aveva entusiasmato, nonostante durante l’adolescenza ci si lasci facilmente incantare da un carisma intellettualoide tutto parigino, dall’altra, una volta superata l’adolescenza, la figura “Simone de Beauvoir”, proprio perché di fascino francese, l’ho trovata sempre più sgradevole. L’immagine, magari anche pregiudiziale, che mi si è conficcata in mente è quella di lei seduta al Café de Flore, a bere, a fumare Gitanes senza filtro (o erano Gauloises?), a scrivere, a chiacchierare con Jean-Paul Sartre, con quell’insopportabile posa del “noi siamo i filosofi”. Di Sarte, poi, non ho mai apprezzato nulla, e meno che mai quella che è considerata la sua opera maggiore, L’être et le néant. La coppia più “cerebrale”, libera e libertina dell’ultimo secolo francese mi è sempre parsa infida, capace di quella joie de vivre che si concretizza nel sedurre (senza la minima responsabilità etica) le giovani studentesse, priva di un’effettiva originalità intellettuale, impegnata a scandalizzare per il mediocre gusto dello scandalo, contrabbandato però come un gesto eroico di lucida autenticità.

La sua urgenza abulica di scrivere, il suo volersi imporsi agli occhi del mondo come la pensatrice della ristretta cerchia dei maîtres à penser, il suo essere non la donna bella e al contempo intelligente, ma la donna che deve mostrarsi bella e deve mostrarsi intelligente, talmente pretenziosa da volere parlare a nome di ogni donna, così come di svelare gli orizzonti di ogni singolo aspetto della femminilità, il suo negare importanza alla “razza” e alla classe di appartenenza, le sue generalizzazioni avventate, a partire dalla propria esperienza di donna bianca, privilegiata e dell’ottima bourgeoisie francese, mi hanno sempre reso piuttosto antipatica de Beauvoir. Nei confronti delle persone antipatiche, provo in genere una certa freddezza, o una qualche forma di pigrizia; quindi, non mi interessa se de Beauvoir fosse frigida e/o ninfomane, quali fossero in realtà i suoi orientamenti sessuali, se ha scritto Le deuxième sexe per uno sconfinato rancore nei confronti di Nelson Algren (la cui unica colpa era quella di essere uno splendido amante), se ha iniziato a dichiararsi (troppo tardi – negli anni settanta, mi pare) femminista per mera convenienza. Riuscire però a stendere le circa mille pagine di Le deuxième sexe in poco più di due anni non è un’impresa da tutti e a risentirne sono senz’altro le argomentazioni ben poco rigorose, i contenuti che rivelano tra le righe tratti di eccelsa misoginia, l’ostilità esagerata per la maternità, l’errata equazione tra rifiuto della maternità e indipendenza, le tante confusioni e contraddizioni, la mancanza di oggettività complessiva del volume. Pubblicato nel 1949 in due parti, Le deuxième sexe è da poco uscito in una bella nuova riedizione italiana de Il Saggiatore, nella pregevole traduzione di Roberto Cantini e Mario Andreose, con una prefazione di Julia Kristeva e una postfazione di Liliana Rampello. Un libro da leggere ancor oggi, senz’altro, anche per comprendere i tanti luoghi comuni sulle donne e delle donne del circolo “de Beauvoir”, della bourgeoisie dell’epoca: occorre leggerlo da un punto di vista sia storico-sociologico per chiederci quanti di quei luoghi comuni appartengono ancora ad alcuni o a molti di noi, sia filosofico per continuare a dire NO ai suoi contenuti e alle sue argomentazioni.

Nei confronti di de Beauvoir, sono convinta di non essere debitrice di (quasi) nulla, né come donna, né come filosofa, e ritengo che ciò valga anche per molti/e altri/e: è allora ancora nel torto Élisabeth Badinter quando, parecchi anni orsono, ha dichiarato senza esitare «Femmes, vous lui devez tout!» e recentemente «Elle a été la philosophe de la liberté des femmes». Le idee di Bernard-Henri Lévy (si veda “La donna che uccise Madame Bovary”, Il Corriere della sera, 13/05/08) mi risultano poi enfatiche e al contempo strampalate: è vero, niente affatto un cliché come pretende invece BHL, il fatto che «l’insurrezione femminista [fosse] inesorabile, necessaria, che si sarebbe prodotta comunque e di cui la Beauvoir si sarebbe limitata a recuperare la fiaccola»; oltre al resto, mi lascia assai perplessa che grazie a lei «tutte le donne sono, ovunque nel mondo, anche sotto il burka o in stato di schiavitù, un po’ più donne, un po’ più libere, un po’ più sovrane di quanto sarebbero state senza di lei e senza il suo libro». Cosa significa, per esempio, “essere un po’ più donne”?; un po’ più come Carla Bruni Sarkozy, un po’ più come un’africana falcidiata dall’Aids, un po’ più come una prostituta bambina destinata al turismo sessuale?; che consapevolezza ha BHL dei tanti modi in cui nel mondo le donne sono rese libere o schiave?; ha mai dato anche solo un’occhiata al volume Are Women Human? And Other International Dialogues di Catharine MacKinnon (Harvard University Press)? Ma si sa, la superficialità dei nouveaux philosophes è incontenibile.

Non pensate che ce l’abbia con Parigi. E’ pur sempre a Parigi che c’è il ritratto sessualmente più intrigante dell’intera storia dell’arte, la Gioconda, e quello più perspicuo, L’Origine du monde. E’ pur sempre Parigi che vede George Sand vestirsi da uomo, consente a Coco Chanel di lanciare lo stile androgino, ospita al contempo l’edonismo di Colette e l’ascetismo mistico di Simone Weil. Quanto diverse sono le due Simone – Weil e de Beauvoir – quanto apprezzo la prima, e non la seconda, sia negli scritti, sia nella coerenza di vita, e cosa non darei per assistere a un loro incontro/scontro nel cortile della Sorbonne, per assumere le difese di Simone Weil e rimproverare a Simone de Beauvoir l’alterigia, l’indifferenza, la competitività nei confronti delle donne, nonché l’ordinario desiderio di essere solo un altro, ennesimo, uomo tra gli uomini. E non apprezzo affatto che “la Grande Sartreuse”, considerata davvero a torto l’icona dei movimenti di liberazione femministi, si trovasse talmente a suo agio sotto il regime di Vichy, da essere disposta a concedersi (senz’altro con aristocratica nonchalance) piacevoli vacanze in montagna. Dov’era e cosa faceva in quegli stessi anni Simone Weil? Come ha rilevato Susan Sontag, Simone Weil «ci commuove, ci dà nutrimento», nonostante i suoi eccessi mistici e il suo problematico supplizio. Simone de Beauvoir, invece, ci nutre ben poco e non ci commuove quasi per nulla.

Magari Le deuxième sexe, sebbene sia l’opera beauvoiriana per eccellenza, di successo, quella più ricca e venduta (ma in quanti l’hanno letta integralmente, nonostante in molti la ritengano una specie di bibbia?) è un testo che non ha più nulla da dirci, perlomeno sotto il profilo filosofico, sempre che abbia avuto da dirci qualcosa in passato, e/o che non fosse meramente «a modern-day sex manual», come lo giudicava Blanche Knopf. Certo, Betty Friedan ha riconosciuto a de Beauvoir il merito di averle fatto comprendere la condizione delle donne, ma se non ci si chiede quali siano queste donne, e se nel chiedercelo ci si trova costretti a rispondere che le donne in questione non sono altro (a voler essere generosi) che tante ambivalenti de Beauvoir, il merito può trasformarsi rapidamente in un demerito. E se nel volume c’è qualcosa di filosofico, esso si trova talmente ingarbugliato con molte altre considerazioni non sempre appropriate (di tipo antropologico, biologico, letterario, politico, psicoanalitico, sociologico, storico, e via dicendo) da restituirci l’idea di una dea-scrittrice assurdamente onnisciente, o di una vampira-scrittrice che amalgama alla rinfusa quanto riesce a trovare alla Bibliothèque Nationale. C’è di sicuro un po’ di Agostino, Aristotele, Diderot, Engels, Hegel, Kierkegaard, Marx, Merleau-Ponty, Montaigne, Montesquieu, Nietzsche, Platone, Rousseau, Sartre; c’è di sicuro un po’ di accidente, Altro, Assoluto, determinismo, dualismo, essenza, esistenzialismo, fenomenologia, immanenza, materialismo storico, nulla, mitsein, Soggetto, sostanza, trascendenza, Uno, mentre c’è pochissimo Descartes, Locke, Pascal, Spinoza, Voltaire. Ma tutto ciò è lungi dal restituirci una filosofia beauvoiriana compiuta, invece che posticcia, specie quando de Beauvoir privilegia i motti, piuttosto che le argomentazioni, delle diverse filosofie a cui si ispira, e in ogni caso evita spesso le filosofie che argomentano per concedersi più facilmente a quelle che abbagliano per retorica ed effetti speciali.

C’è chi viene in soccorso di de Beauvoir, sostenendo che, nonostante tutto, ha piegato in modo originale la filosofia – sebbene una cattiva, fragile filosofia – alle tematiche del sesso e della sessualità. Sinceramente, non vedo come si possa venire in soccorso della cattiva, fragile filosofia di chiunque, solo perché il soggetto che tratta è (più o meno) nuovo. Nuovo? E il Simposio di Platone? Se comunque applicassi una cattiva e fragile filosofia al portapenne della mia scrivania per circa mille pagine, acquisirei davvero qualche seria credibilità nell’olimpo filosofico francese? Quando, invece, mi viene detto che la sostanziale innovazione di de Beauvoir si situa nell’insistenza sull’eguaglianza delle donne, replico che di innovazione non si tratta affatto – basta leggersi (tra le altre) le belle pagine di John Stuart Mill e Harriet Taylor (si veda, in traduzione italiana, il loro Sull’equaglianza e l’emancipazione femminile, edito da Einaudi). Qualora si insista poi sul fatto che la reale rivoluzione di de Beauvoir consiste in una disamina acuta di come le donne sperimentano il proprio corpo e il proprio esistere in quanto donne, ribatto che c’è sempre un lato soggettivo del proprio sperimentare e del proprio esistere, che c’è un effetto che fa a me essere donna che non è l’effetto che fa a te essere donna, perché c’è un modo di conoscere che è “interno”, o “in prima persona” (si veda, per esempio, Thomas Nagel, “What Is It Like to Be a Bat?”, Philosophical Review, 83, pp. 435-450). Ancora si può sostenere che l’effettiva originalità di de Beauvoir si condensi tutta nel “Libro secondo. L’esperienza vissuta” di Le deuxième sexe, il libro controverso, polemico, uscito a cinque mesi dal primo, nel novembre del 1949, che ha scandalizzato, e oggi non ci scandalizza più perché i “costumi” sono mutati. Scandalizza invece e ancora la sottoscritta. Basta citare un capitolo, quello intitolato “La lesbica”, per capire quanto l’articolo determinativo, ricorrente anche in altri capitoli (“La fanciulla”, “L’iniziazione sessuale”, “La donna sposata”, “La madre”, “La vita di società”, “La donna narcisista”, “La donna innamorata”, “La donna mistica”, “La donna indipendente”) ci restituisca, volente o nolente, tutta una lunga serie di luoghi comuni (ed eterosessisti) sul lesbismo, spesso incoerenti tra loro, stereotipi forse legati alla cultura del tempo, ma anche a una qualche appiccicosa ignoranza o censura di de Beauvoir stessa. “La lesbienne” ci offende per il tentativo (peraltro rinnegato e comunque mal riuscito) di rintracciare un’unica lesbica, un modo singolare di poter/dover essere lesbica, che troppo spesso ha a che fare con un’assoluta sovranità erotica o un’altrettanto assoluta indifferenza, più che con una vera e propria scelta di esistere, di amare, di cui l’erotismo viene a fare parte integrante. Anche quattro sole citazioni sono illuminanti in proposito: «L’omosessualità può essere per la donna tanto un modo di respingere quanto di assumere la propria condizione» (p. 389); «Come la donna frigida desidera il piacere pur rifiutandolo, la lesbica spesso vorrebbe essere una donna normale e completa, pur non volendolo» (p. 393); La donna lesbica è «pari a un castrato… imperfetta come donna, impotente come uomo» (p. 394); «Assenza o insuccesso di relazioni eterosessuali… voterà [le lesbiche] all’inversione» (p. 399).

Sì, mia cara Simone, ti tradisci davvero, quando continui a parlare di lesbismo come di un’inversione (rispetto a che?), e non riesci neanche a immaginare, figuriamoci ad anticipare, la complessità delle filosofie lesbiche, che analizzano temi come l’amicizia, l’amore, l’autobiografia, il “continuum”, l’etica, il desiderio, il diritto, i femminismi, la letteratura, il nomadismo, l’oppressione, la politica, i razzismi, la salute, la sessualità, il separatismo, la violenza, la storia, e molti altri, tra cui la maternità lesbica che a te avrebbe fatto orrore per il solo fatto di essere “maternità”.

Mi si rimprovererà a questo punto di non aver ancor menzionato il famoso slogan con cui il secondo libro si apre: «Donna non si nasce, lo si diventa». In realtà, non volevo nominarlo: è solo uno slogan sovrastimato. Vi si parla di “donna” e non “di donne”: il concetto di donna, soprattutto quando lo si traduce in “La donna” (al pari di “La lesbica”, e via dicendo) conferisce credito alla convinzione che l’essenza della donna non sia una finzione al servizio del maschilismo e dell’eterosessismo. Eppure lo slogan riassume la “vera” de Beauvoir, incapace di capire che parlare di “donna”, e non di “donne”, conduce a legittimare determinate pratiche e a delegittimarne altre – per esempio, ad assegnare alla donna e, pertanto, alle donne ruoli culturali, intellettuali, professionali, sociali, distinti e inferiori rispetto ai ruoli assegnati all’uomo e, pertanto, agli uomini. Per di più, lo slogan non anticipa la distinzione tra sesso e genere, non solo perché de Beauvoir stessa non utilizza i termini (la lingua francese, del resto, non ne agevola l’impiego) e tratta esplicitamente solo di “secondo sesso”, non di “secondo genere”, ma anche perché i termini che adopera (“femmina” e “donna”) possono rimandare a concetti legati sia alla natura, sia alla cultura – sempre che la distinzione tra natura e cultura abbia senso, che ci siano solo due sessi (cosa assai dubbia) e solo due generi (cosa altrettanto dubbia). Meglio, decisamente meglio, addentrarsi nelle meravigliose complessità della differenza tra sesso e genere leggendo “la più lunga lettera d’amore della storia”, ovvero Orlando di Virginia Woolf, e lo stesso vale per capire qualcosa del concetto di donna: «“Che cosa, dunque? Chi, dunque?” diceva Orlando. “Trentasei, in macchina; una donna. Sì, ma un milione di altre cose ancora. Snob, io? La Giarrettiera, nel vestibolo? I leopardi? I miei antenati? Orgogliosa di essi? Sì! Golosa, lussuriosa, viziosa? Io? (Qui entrò un nuovo io.) Me ne importa un fico, se lo sono. Sincera? Credo di sì. Generosa? Oh, ma questo non conta. (Qui entrò un nuovo io.) Starsene a letto al mattino, a sentire tubare i piccioni fra le lenzuola di tela d’Irlanda; piatti d’argento; vini; cameriere; domestici. Viziata? Forse. Troppe cose per nulla.”…» (Orlando, Mondadori 1996, p. 286). Le differenze tra Virginia Woolf e Simone de Beauvoir sono molteplici, a partire da una oltremodo evidente: la prima, a differenza della seconda, è una scrittrice e pensatrice di eccelsa levatura. E Virginia Woolf pensava che la superiorità intellettuale e creativa non fosse né maschile, né femminile, bensì semplicemente androgina, al contrario di de Beauvoir che ha sempre cercato di imporsi come la pensatrice (o il pensatore?) in un mondo declinato tutto al maschile.

Nicla Vassallo, Simone de Beauvoir, colei che non amava le donneultima modifica: 2008-10-24T23:10:00+02:00da mangano1
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Un pensiero su “Nicla Vassallo, Simone de Beauvoir, colei che non amava le donne

  1. 14 commenti a “NICLA VASSALLO SU SIMONE DE BEAUVOIR”

    L’abbrivio de il secondo volume de Il secondo sesso (articolo determinativo già nel titolo dunque perché accanirsi sui determinativi nei capitoli…) Donne non si nasce ma si diventa, lancia una impostazione infinitamente differente da Egli poiché non v’era dubbio sul suo sesso che è l’attacco di Orlando.
    già dalla prima riga sono su posizioni così dissonanti che citarli nello stesso paragrafo vuol dire voler avere vita facile nel contraddittorio. senza considerare la profonda ironia del secondo (pronomi personali per cancellare se stessi) e la clamorosa tendenza alla sistematicità del primo (articoli determinativi come categorie no?)
    per smontare De Beuvoir ci vogliono la Woolf (pensatrice e perché non pensatore visto che l’androgino in italiano ha un genere di default che è maschile?), Susan Sontag, e, Stevie Smith e questo porta De Beauvoir a essere comunque una filosofa non fragile.
    è sistematico, se per smantellare una macchina occorre più di un cacciavite, la macchina non ha solo viti, è un organismo più complesso.
    io credo che De Beuvoir, in mezzo a certe contraddizioni, che in questo pezzo, molto modulato, molto sonoro, molto faziosamente e ben argomentato della Vassallo somigliano a vezzi estetici, bizzarrie di stile, modulazioni di linguaggio, sia un pensatore e un narratore (non contemporaneamente come Woolf) affidabile. Vera, come direbbero i matematici, perché falsificabile.
    c’è un passaggio, credo nel quaderno IV di Simone Weil, dove dice che il fondamento della mitologia è che l’universo è metafora delle verità divine. mi stupisce molto che la mitologia di certi intellettuali francesi rievocato in questo articolo edi Vassallo e che coninvolge e include De Beauvoir non porti all verità molto umana che in mezzo a contraddizioni e cambi di rotta De Beauvoir abbia rappresentato la verità (divina perché universale) di provare a essere un filosofo sistematico donna in mezzo a un mondo di uomini.
    [a latere]
    “Se comunque applicassi una cattiva e fragile filosofia al portapenne della mia scrivania per circa mille pagine, acquisirei davvero qualche seria credibilità nell’olimpo filosofico francese?”.
    credo che del carteggio tra Dora Carrington e Lytton Stratchey, la pittrice scriva Sono il tuo pulisci penna usami.
    è divertente che portapenne e cuscinetti salva inchiostro accompagnino certi Olimpo.
    chi
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 10:21 am da chi

    E Nicla Vassallo dovrebbe essere un filosofo della conoscenza? Quanta rabbia nella scrittura di quest’uomo. Troppa per non essere stato toccato nel profondo dello spirito e della carne da Simone de Beauvoir.
    Elisabetta
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 11:55 am da elisabetta bucciarelli

    p.s. non ho scritto “uomo” a caso…
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 12:04 pm da elisabetta bucciarelli

    Quando, mi pare l’anno scorso, lasciai su questo blog un breve commento in cui dicevo che Simone de Beauvoir, alla luce (anche) di quanto si è saputo e pubblicato su lei dopo la sua morte, sebbene avesse avuto tanti meriti non era però secondo me da considerarsi quel fulgido esempio e modello di paladina delle donne che l’iconologia di anni ne aveva fatto e che non doveva esser considerata una sorta di “santino”, ricordo di essere stata liquidata con grande sufficienza. Purtroppo vado a menoria, non saprei come ritrovare il post e il link.
    Adesso mi pare, leggendo questo lungo articolo della Vassallo, che si esageri nella direzione opposta: la De Beavoir non valeva niente, la De Beauvoir era una poveretta, era patetica e se non viene detto pure (per lo meno a chiare lettere) che era anche un’ignorante ed un’imbecille… cara grazia.
    Perchè c’è sempre questa tendenza a mitizzare, a considerare sempre o tutto bianco o tutto nero, a non prendere mai in cosiderazione la possibilità che nello stesso individuo (uomo o donna che sia) possano coesistere contraddizioni? Perchè non si fa quasi mai uno sforzo di contestualizzazione?
    E’ facile, oggi, dire che SdB non ha contato nulla, che non ha detto niente di nuovo e di originale, che tutti hanno detto e prima di lei le (poche, secondo l’autrice dell’articolo) cose buone che si possono trovare nei sui scritti.
    Però se all’epoca i suoi scritti hanno avuto un effetto tanto dirompente su più di una generazione di “donne comuni” (orrenda espressione, ma in questo momento non me ne viene in mente una diversa) questo avrà pur significato qualcosa, io credo. A meno di considerare in blocco tutte le donne e le ragazze che negli anni, leggendo gli scritti della De Beauvoir, ed in particolare Il Secondo Sesso hanno acquistato consapevolezza del fatto che esisteva una “questione femminile” (altra orrenda espressione, ma rende l’idea) delle emerite imbecilli pure loro.
    Che poi non sempre (forse quasi mai) nella sua vita reale la De Beauvoir fosse coerente con le idee che professava, beh, non vorrei si tornasse all’eterna e per me sterile questione della coerenza o meno tra la persona e la sua opera.
    L’articolo è scritto in modo modo abile ed articolato ed io non posseggo certo gli strumenti dialettici e filosofici per smontarlo “tecnicamente” però credetemi e chiedo scusa per questo, più avanzavo con la lettura più mi si rafforzava la sgradevolissima sensazione che quest’attacco così virulento (perchè di questo si tratta) fosse viziato da un ideologico pregiudizio di fondo che non depone granche molto a favore della validità della tesi esposta.
    Grazie per l’ospitalità e scusate la lunghezza.
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 12:21 pm da Gabriella Alù

    […] Lipperini cita un articolo al vetriolo di Nicla Vassallo su Simone de Beauvoire. Da leggere. Un’occhiata meritano anche […]
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 3:55 pm da Il giardino di Azalais » Segnalazioni

    Sono d’accordo con Gabriella Alù, un libro come “Il secondo sesso” dovrebbe essere preso in considerazione anche e soprattutto in virtù del gigantesco moto ondoso che ha contribuito a creare. Mi piacerebbe sapere se ha avuto o sta avendo un simile “effetto dirompente” anche sulle diverse generazioni di “uomini comuni”. Ho paura di sapere già la risposta, sigh.
    ps- un articolo che, senza troppo filofofeggiare, contestualizza “Il secondo sesso” e ne traccia luci e ombre, è quello di Maria Letizia Grossi, “Un libro monumento: Il secondo sesso”, pubblicato su Leggere Donna, n. 135, luglio-agosto 2008, pp. 22-23. Cito un paio di passaggi significativi:
    “Introducendo il concetto di parzialità, fu tra le prime a smascherare un maschile che pretende di parlare in nome di tutta l’umanità (…). Se la prima parte è corrosiva e sconvolgente, la seconda, forse per la prima volta, utilizza un metodo narrativo per ‘pensare’.”
    “Colpisce l’ampiezza culturale e la capacità di muoversi fra molte discipline diverse, la lucidità della filosofa e la veemenza della testimonianza della reale condizione delle donne, e soprattutto la critica al biologismo.”
    “Ma è anche un libro che risente del clima filosofico in cui è nato, l’esistenzialismo, e di una visione emancipazionistica. (…) A lei premeva sostenere la sostanziale ‘uguaglianza’, in quanto esseri umani, di uomini e donne, in tema di libertà, di diritti, di dignità, di responsabilità. (…) Il tema della ‘differenza’ era meno urgente in quella situazione socio-culturale”.
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 5:39 pm da roz

    Già.
    Però l’articolo della Vassallo (il cui contenuto non condivido manco per una virgola e per sbaglio — repetita spero juvant) non era robetta ed era cmq meritevole di assensi o dissensi argomentati.
    Invece è stato commentato, — almeno fino al momento in cui sto scrivendo — solo da tre persone.
    Anche questo, qualcosa vorrà dire.
    Gli è che la DB Simone è ormai defunta, e non fa concorrenza a nessuno degli scrittorucoli che in genere si affannano ad intervenire in questo tipo di blog per testimoniare la loro “esistenza in vita”.
    Che importa a tutta questa gente se Simone si oppure Simone no?
    A loro (scrittori seri) interessano altre cose.
    M piace questo thread :-))
    Lo seguirò con piacere.
    Credo però che si estinguerà presto, e non è difficile intuire il perchè.
    P.S. Simone De Beauvoir, per quello che ho letto di lei e su di lei (e ne ho letto tanto) ci si sarebbe fiondata, su un post come questo.
    E ne avrebbe fatto polpette.
    Postato Giovedì, 16 Ottobre 2008 alle 11:34 pm da Gabriella Alù

    un post solo per dire che un incontro fra Simone De Beauvoir e Simone Weil alla Sorbona c’è stato, lo racconta Simone Pétrement, amica e biografa di Weil, ne La Vie di Simone Weil (ed Fayard, tra.it. Adelphi) e anche Simone De Beauvoir, se non ricordo male in Memorie di una ragazza per bene, ed è andato piu’ o meno così: le due studentesse si incontrano nel cortile dell’ateneo, Simone De B. chiede a Simone W. di cosa si stia occupando, lei risponde che sta cercando di capire come possa realizzarsi una rivoluzione che dia da mangiare a tutti e chiede a sua volta di cosa si stia occupando Simone De B., questa risponde che sta cercando di capire che senso ha l’esistenza, Simone Weil commenta all’incirca così: si capisce che non hai mai avuto fame. Credo che l’aneddoto parli da se’ e dia la misura del diverso spessore umano che sta dietro all’approccio filosofico dell’una e dell’altra
    Postato Venerdì, 17 Ottobre 2008 alle 8:52 am da monia

    Concordo con i commenti dell’Alù sul tono della Vassalli, il cui articolo è certo ‘rabbioso’ ma permette anche – a chi come me non ne sa molto, seppur interessata – di porsi tra due estremi e ragionare, porsi in maniera critica su tematiche, ahinoi, ancora più che presenti.
    Sarei davvero grata se qualcuno riprendesse e continuasse il discorso intorno alle consonanze (se mai ce ne fossero)/ differenze tra le due Simone.
    Grazie.
    Postato Venerdì, 17 Ottobre 2008 alle 10:55 am da alessia

    La solita disattenta… intendevo Vassallo
    Postato Venerdì, 17 Ottobre 2008 alle 11:01 am da alessia

    Allora. Lungi da me voler polemizzare con chicchessia (troppo faticoso).
    Se Madame Lipperini dovesse ritenere che sto esagerando non ha che da dirmelo, chè mi ritiro immediatamente
    ….Però che vi devo dire? La piega che sta prendendo questo thread e cioè Simone De Beauvoir vs. Simone Weill non mi piace nè poco nè punto.
    E’ così difficile ammettere che la De Beauvoir e la Weill, sebbene fossero personalità diverse, con obiettivi diversi, sono state due belle teste entrambe? E che entrambe hanno fatto molto — sulla breve e sulla lunga distanza e in modo molto, moooolto diverso — molto, per le donne?
    No, perchè vedete.
    Se dovesse succedere — come ahimè fin troppo spesso succede —- che per parlare di una donna la facciamo azzannare da un’altra donna non c’è problema.
    (Ora che ci penso, pure io sto cercando di azzannare la Nicla Vassallo utilizzando scritti di altre donne … vabbè… poniamoci un problema alla volta — smile)
    Hannah Arendt, ad esempio, scrisse alla sua amica Mary McCarthy cose tremende di Simone De Beauvoir. (Cfr. l’epistolario Hannah Arendt-Mary McCarthy, Sellerio)
    E allora?
    Vogliamo cadere nella trappola del fare il tifo per Simone o per Hannah o per Mary o per Simone?
    O non sarebbe meglio, invece, rallegrarci del banalissimo fatto che queste quattro donne hanno, ciascuno a loro modo, e per quel che potevano, sapevano e volevano (già: “volevano”, il che non mi pare banale), dato un gran contributo al “pensiero delle donne”?.
    P.S: Continuo a notare, mooooooooooooooolto divertita, la totale assenza di uomini in questo thread.
    Postato Domenica, 19 Ottobre 2008 alle 4:28 pm da Gabriella Alù

    Io sono nel silenzio assenzio. Nel senso che seguo ma ammutolo per l’ignoranza totale in materia.
    Perché ammetto di non aver mai letto né Simone né Garfunkele (anche se in casa mia c’erano vita morte e miracoli della prima).
    Sono comunque rimasto realmente affascinato dalle loro biografie, e concordo con Gabriella sul fatto che non mi paiono persone da far scontrare nella hit parade, o peggio da far giocare al gioco di “chi butto giù dalla torre”.
    Ho scritto queste tre righe di cazzate per giustifcare ulteriormente il bisogno del mio silenzio in questo thread.
    Postato Lunedì, 20 Ottobre 2008 alle 7:39 am da Ekerot

    Scusate il ritorno.
    Girellavo in rete subito dopo aver postato. Meditando.
    E mi sono chiesto: quanti libri scritti da donne ho letto in vita mia?
    Io non sono un vorace lettore, ma 3-4 libri al mese li digerisco sempre.
    Ebbene a memoria d’uomo, ricordo solo questi testi (spero di averne dimenticato qualcuno). [Vanno aggiunti molti dei romanzi gialli di Agatha Christie].
    “Frammenti” di Saffo.
    “Memorie di Adriano”, “L’opera al nero”, “Racconti orientali” della Yourcenar.
    “Gita al faro” di Virginia Woolf.
    “Metafisica dei tubi” di Amélie Nothomb.
    “L’uomo autografo” di Zadie Smith.
    “L’abbazia di Northanger” di Jane Austin.
    “Frankenstein” di Mary Shelly.
    “L’età dell’innocenza” e “Estate” di Edith Wharton.
    “La piccola Fadette” di George Sand.
    Facciamo finta che abbia letto 600 libri in vita mia (escludendo i gialli).
    Ben 1,5100 è la percentuale delle scrittrici…E non credo per mia precisa volontà.
    Mumble…
    Postato Lunedì, 20 Ottobre 2008 alle 8:13 am da Ekerot

    Ho intrapreso la lettura integrale della autobiografia di Simone de Beauvoir e mi trovo esattamente all’inizio del quarto capitolo de La forza dell’età, che riferisce degli avvenimenti a partire dall’ottobre del 1934. Mi colpisce la meticolosità delle sue memorie, la sincerità di quanto riportato evidenzia come, almeno all’epoca in cui sono state redatte, prevalesse l’intenzione di esporre ogni passaggio della sua anima ad uno scandagliamento severo, lucido. Eppure tanta buona volontà si infrange contro un limite di cui Simone non mi sembra autenticamente cosciente, ovvero, che nella sua ricerca letteraria e filosofica, improntata ad un progressivo smantellamento dei pregiudizi nei quali era stata educata, lei si muova non in maniera aperta, ma pesantemente inficiata dalle tesi che intendeva dimostrare. La ricerca filosofica invece riconosce metodi, ma non già i suoi obiettivi. Questo atteggiamento volontaristico e preordinato innesca una forma di determinismo nei suoi ragionamenti, che le impediscono slanci di autentico rischio umano e la conducono ad esiti estremamente conformisti. Questa mi sembra pure la ragione per cui lei si sia adattata alla scelta comoda degli estetismi borghesi, spacciati per magre consolazioni di spiriti eletti. Ritengo che non ci sia effettivamente qualità filosofica proprio perchè manca nelle sue riflessioni una portata autenticamente etica e questo non perchè fosse priva di sentimenti umani, basti leggere l’episodio di Louise Perron, ma perchè la filosofia piega chi la pratica all’esigenza degli uomini come fine e ritengo che lei non abbia avuto altri fini che se stessa: la sua opera, riuscire a eprimere “il mondo intero”, era tutto ciò che chiedeva. La letteratura, sentita come dovere assoluto, aveva finito per imporsi su tutto il suo orizzonte e asservire tutti alla sua realizzazione, diventando cioè fine a se stessa. A questo proposito andrebbero lette con attenzione le sue riflessioni riguardo all’ottusità con cui si ostinava a ritenere che, malgrado la temperie politica europea, non le riusciva possibile credere che il mondo potesse opporsi ai suoi progetti. E’ una sua ammissione che, ancora durante i suoi primi anni di insegnamento, lei tenesse ben distante dalla sua concezione di libertà quella di responsabilità. Eppure se ritorno agli anni del suo baccellierato la rivedo entusiasta di evadere dall’individualismo della sua famiglia per aprirsi al mondo, grazie ad un piccolo esperimento di integrazione sociale nei quartieri poveri di Parigi, cui poi rinunciò. A più riprese ritorna su un limite che riconosce come una costante nella sua vita: la necessità di riferirsi a qualcuno per trarne la coscienza di esistere davvero. Credo che il suo legame con Sartre abbia acuito i suoi tratti egotistici e l’abbia progressivamente svuotata di ogni afflato spirituale. La lettura delle sue memorie non commuove neanche me, mi rattrista semmai , però conferma inevitabilmente come il pensiero si costruisce davvero sulla vita di chi lo porta avanti e che l’antisistema esistenzialista à la Sartre è davvero costato la morte e il nulla a quanti se ne sono lasciati corrodere.
    A Eroket, nel caso in cui volesse aumentare la percentuale di femminilità delle sue letture consiglio:
    Antonia Pozzi, Alda Merini, Karen Blixen, Etty Hillesum e Shelley Jackson.

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