Barbara Spinelli,Riaprire il futuro

da LA STAMPA 26 OTTOBRE 2008
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C’è qualcosa che stona, nello stupore contrariato con cui si reagisce alle
occupazioni di scuole e università. Come se la mente non fosse più capace di
cercare le cause, negli effetti che ci si accampano davanti. Come se la storia
e la realtà si esaurissero interamente nella parte terminale, e alla sorgente
non ci fosse nulla. Come se avessimo disimparato ad agire calcolando le
conseguenze, presenti e passate. L’occupazione di un’università è una
violenza, certo. Si impedisce a chi partecipa in modi diversi alla vita pubblica
di farlo, perché gli spazi comuni non lo sono più. Ci si prende un diritto
togliendolo a altri. Spetta tuttavia a chi pensa e governa capire perché questo
accade. Se non lo fa, non sentirà attorno a sé che lo strepito degli Uccelli di
Hitchcock, e non troverà né i mezzi né le parole dell’azione autorevole.

Ben più intelligibile apparirà la realtà, se non ci si ferma all’ultimo tratto della
storia. La rabbia degli studenti non è senza rapporto con l’autunno delle
finanze e con il crollo, brutale, di certezze ostentate per decenni sulle virtù
autoregolatrici del mercato.

Negli interstizi delle rovine nascono fiori neri che riflettono drammi di ieri e di
oggi: sono una nemesi, una sorta di giustizia che colpisce le ingiustizie dei
progenitori. Ogni nemesi è poco sottile e corre il rischio di farsi usare da 215320562.jpg
difensori di uno status quo che va comunque mutato; ma essa dice anche che
non esiste impunità, né nel pensiero né nella prassi.

Non si può impunemente parlare per anni dell’enorme debito lasciato ai figli,
e stupirsi che uno degli slogan studenteschi sia: «La vostra crisi non la
pagheremo noi». Una classe politica non può impunemente infrangere la
legalità, condonare falsi bilanci o conflitti d’interesse, screditare magistrati, e
poi meravigliarsi che la cultura della legalità ovunque si sfibri. Non bastano i
grembiuli e il 7 in condotta a restaurare la legge lungamente vilipesa. I
manifestanti dell’opposizione, ieri, hanno citato le parole di un grande,
Vittorio Foa: «Sono un po’ scettico sul linguaggio dei valori che sento in giro: 220544519.jpg
vorrei vedere degli esempi perché è dagli esempi che può nascere
qualcosa». La manifestazione è stata un successo imponente: anche questo
non stupisce.

Più fondamentalmente: non si può per decenni ripetere il motto di Margaret
Thatcher – There is no alternative, non c’è alternativa alle sregolatezze del
mercato – e poi fare subitanei dietrofront senza mettere in questione
un’ideologia sfociata in disastro: disastro per tanti, specie per gli studenti che
il precariato sentono di doverlo proiettare in un avvenire più buio. Fino a oggi,
solo l’ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, ha
riconosciuto «errori nati da ideologie liberiste» durate quarant’anni.

Il ministro Gelmini ha ragione quando dice agli studenti: «Non bisogna creare
illusioni che producono poi cocenti disillusioni»; «Non vogliamo vendere
promesse che non possiamo mantenere». Non ci sono soldi nelle casse
statali per i sogni: né quelli degli studenti né quelli venduti in campagna
elettorale, ed è vero che gli studenti vivono in una bolla. Ma cos’è stata la vita
delle generazioni dei padri, se non un succedersi prodigioso di bolle e
dottrine indifferenti ai fatti? Perché questo sguardo feroce sull’ultima bolla,
senza ricordare le rovinose penultime? È qui che salta il nesso tra causa ed
effetto, tra chi ha il futuro alle spalle e chi ce l’ha davanti, ma chiuso.

Non sono i tagli alle spese che colpiscono, nella legge Gelmini. È chiaro che
urge spender meglio, creare università d’eccellenza, premiare il merito: molti
soldi inutili son stati sperperati. Quel che colpisce è il vuoto di pensiero, su
quel che significano per il domani italiano e occidentale l’istruzione come la
ricerca. Quel che scandalizza è il parlare dell’istruzione più come spesa che
come investimento nelle generazioni nuove. Manca un discorso riformatore
che annunci: ho questo futuro da edificare per voi, oltre a tagli alla cieca,
grembiulini e 7 in condotta.

Manca poi l’uso appropriato delle parole. Guardando agli atenei occupati, il
presidente del Consiglio non vede che facinorosi, e con volto torvo (perché
così torvo?) prima comunica l’invio della polizia, poi ritratta. Nel frattempo il
governo parla di terroristi e fa salire le angosce, prepara al peggio, resuscita
l’incubo di Bolzaneto (secondo governo Berlusconi). Il modello non è
Greenspan ma i vocaboli eversivi di Cossiga, un ex capo di Stato, sul
Quotidiano Nazionale: «Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori
pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i
negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città (…)
Dopodiché, forti del consenso popolare, (…) le forze dell’ordine non
dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto
poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a
sangue anche quei docenti che li fomentano» (il corsivo è mio).

La strategia non è nuova: far montare la tensione, creare un’ennesima paura
che gonfia i sondaggi di popolarità. È da anni che governanti senza bussola
usano la paura come dottrina e come prassi. Non si è sentito mai,
ultimamente, un politico che magari rimprovera le occupazioni ma dica: il
futuro comunque è nella scuola, nei professori. Non s’è sentito perché tempi
lunghi e futuro non sono nel suo dizionario. Anche qui, dopo un dominio sì
assoluto del presente, non può che esserci nemesi. Frank Furedi, che studia
da anni la paura, sostiene che questa volta la sua natura cambia. Dopo l’11
settembre ci fu paura, ma essa restò in fondo personale, solitaria. Oggi è
panico da orda in Borsa, ed è «la prima vera paura collettiva, globale». Gli
individui hanno più che mai bisogno di comunità, di non esser soli. Il crollo
finanziario sfregia fondamenti esistenziali come la fiducia, il debito, la
speranza. Il paradosso è che quando crolli non hai molto da perdere, e smetti
la paura. I contestatori italiani sentono questo.

Da due secoli, gli studenti in tumulto sono una premonizione e un cimento
per tutti. Confermano contraddizioni spaesanti: tutto è al tempo stesso più
connesso e più sconnesso di quanto immaginavamo. Che lo vogliano o no,
essi sono la futura classe dirigente, l’avvenire che s’impersona. Hanno la
speranza, dunque non considerano la società come statica, fatale. Dicono no
pregiudizialmente, ma intanto s’allenano a intervenire sulla realtà. Così
nasce l’educazione civica, sostiene Michael Walzer. Così ci si abitua a
«pensare alla cittadinanza come a un incarico politico»: a pensare se stessi
«come futuri partecipanti nell’attività politica, non meramente come spettatori
bene informati» (La Stampa 23-10). Nelle aule occupate è stato visto lo
slogan di Obama: yes we can. Obama ha successo perché spezza i recinti
della paura e ristabilisce il nesso tra cause e effetti, ieri e oggi, padri e figli. Al
famoso Joe, l’idraulico arricchito ostile alle tasse, ha detto: «Tu una volta eri
tra i meno ricchi, bisognoso della solidarietà dei più abbienti. Prova a
pensare al Joe che sei stato».

La novità è qui, nell’invito a vedere nel futuro il nostro ieri. Obama dice alla
società civile: sei una risorsa politica solo se scopri quel che in te è statico,
immemore, non responsabile; quel che non funziona in te, oltre che nei
governi. Gian Enrico Rusconi dice cose simili, su La Stampa del 24 ottobre,
quando rammenta che la società civile, sempre e disordinatamente invocata,
contiene il meglio e più spesso il peggio. Gli studenti italiani sono attratti dai
giovani americani che dopo anni d’apatia si iscrivono in massa a votare. Pare
che quel che piace loro in Obama sia il ragionamento difficile, non la
semplificazione. È una novità su cui vale la pena riflettere.

Barbara Spinelli,Riaprire il futuroultima modifica: 2008-10-26T19:53:00+01:00da mangano1
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