DAL corriere della sera 27 ottobre 2008
ARMANDO TORNO, Camus politico: anarchico senza rivoluzione
ALBERT CAMUS
Mi rivolto dunque siamo
ELÈUTHERA
PP. 120, € 12
Albert Camus (1913-1960), premio Nobel per la letteratura 1957, con il passare del tempo diventa sempre più un pensatore da meditare, un autore che seppe anticipare l’incomprensibile società fondata sulle immagini che caratterizzano il mondo postmoderno. «Vivere — ha scritto ne Il mito di Sisifo — è far vivere l’assurdo. Farlo vivere è soprattutto guardarlo. Al contrario di Euridice, l’assurdo muore soltanto quando se ne distoglie lo sguardo».
Ora la casa editrice Elèuthera, che propone (nonostante l’aria che tira) titoli intelligenti e controcorrente, pubblica a cura di Vittorio Giacopini la raccolta degli scritti politici di Camus. Il titolo è Mi rivolto dunque siamo. Dai «no» che bisogna inventare e che — per non ritrovarsi perennemente proni e supini — occorre proferire pagandone il prezzo, al sogno di una Rivoluzione salvifica via via sino ai progetti irrealizzabili per una ribellione immaginifica, questi testi libertari, fatti da articoli e discorsi, sono un elisir per l’anima in un «mondo tramortito dal conformismo». Camus fu comunista e poi se ne andò altrove; non credeva nelle ideologie, era allergico alle religioni e non smetteva di ripetersi che «la nostra società si fonda sulla menzogna ». Eccolo più anarchico di quanto potessimo pensare in questi scritti: in essi nota che non riuscendo più ad appartenere all’epoca delle rivoluzioni, occorre imparare «a vivere almeno il tempo della rivolta».
ALTRI ELEMENTI PER DISCUTERE
da club-portofranco
Nesssun dubbio sul fatto che il fatto politico più rilevante del momento politico in Italia sia l’insorgere di un “nuovo movimento” nel mondo della scuola : questo nostante ( o proprio per questo? ) si stia entrando nel vivo di una crisi che molti osservatori qualificano come “mai vista” dal dopoguerra .
Prima di avviare un dibattito ( riteniamo cosa utile far circolare un
interessantissimo dossier “Tuttoscuola” contenente dati e commenti
relativamente alla cosiddetta “riforma” Gelmini ed un articolo dal sito
lavoce.info sul tema delle Classi separate chieste dalla Lega Nord .
Mai come in questo caso ci parrebbe opportuno esortare tutti a conoscere
prima di aprire bocca ….
TUTTI I DATI PER UN CONFRONTO CORRETTO
“LA VERITA’ SUI NUMERI DELLA
SCUOLA”
Dossier di Tuttoscuola
Il 22 ottobre il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro della
pubblica
istruzione Mariastella Gelmini hanno presentato un dossier intitolato “Tutte le
bugie
della sinistra”, con lo specifico intento di “rispondere con dati e cifre al mare di
falsità
della sinistra”. Poche ore dopo il Partito democratico ha replicato con un
controdossier,
punto su punto, intitolato “Tutte le bugie del premier sulla scuola”. Ciò che
colpisce è
che entrambi i dossier contengono imprecisioni, forzature e anche veri e
propri errori. Il
“dossier verità” di Tuttoscuola evidenzia incongruenze e approssimazioni e
riporta tutti
i dati per un confronto corretto.
D’altro canto il dibattito in corso sulla scuola, fortemente condizionato dalle
esigenze di
semplificazione della comunicazione mediatica, fa sempre più un uso
disinvolto dei
dati, spesso piegati a sostenere i ragionamenti della parte politica che li
espone, e la cui
precisione è subordinata all’efficacia dell’argomentazione. Capita così di
sentire
scambiare miliardi con milioni (di euro), e di ascoltare discorsi sul “passaggio
da tre
maestri a uno” come se l’introduzione del cosiddetto maestro unico (altr
a
semplificazione) comportasse il risparmio di due maestri per classe, e non di
mezzo
maestro, come in realtà avverrà (il modulo funziona con 3 maestri su 2 classi,
cioè in
termini di carichi orari con 1,5 maestri per classe).
Si è anche letto su autorevoli giornali che l’avvento del maestro unico al posto
del
modulo 3×2 costituisce un “colpo al tempo pieno”, ma in realtà ad essere
colpito è
appunto il modulo, che funziona con uno o due rientri pomeridiani, e non il
“tempo
pieno”, che funziona tutti i pomeriggi e prevede normalmente l’impiego di due
maestri
(e non tre) su un orario complessivo di 40 ore.
Quanto al dimensionamento delle scuole, si fa confusione tra revoca
dell’autonomia e
della personalità giuridica alle istituzioni scolastiche sottodimensionate (sotto
i 500
alunni, salvo deroghe) e soppressione delle scuole in quanto luoghi fisici
adibiti alla
funzione educativa (punti di erogazione del servizio). Nel primo caso, che è
quello cui si
fa riferimento abitualmente, gli allievi restano dove sono, solo nel secondo,
che riguarda
le microscuole di pochi alunni (perfino 4), questi ultimi dovrebbero spostarsi
in altre
sedi, sempre che non si tratti di scuole di montagna o situate in piccole
isole.
Questi sono solo alcuni esempi di uso approssimativo dei dati, di mancata
verifica o di
poco corretta interpretazione delle informazioni. Altri ne presentiamo in q
uesto documento, in particolare mettendo a confronto le “verità” raccontate
nei rispettivi
dossier dal governo e dal principale partito dell’opposizione, con l’obietti
vo di
contribuire alla definizione di un più preciso e rigoroso quadro di riferimento
per i
protagonisti del confronto in atto e per i lettori.
Probabilmente le imprecisioni e le forzature discendono almeno in parte dal
fatto che
l’attuale confronto non avviene, come pure è accaduto più volte in passato, su
valori
fondamentali e su grandi scenari culturali, ma su questioni di carattere
economico e
organizzativo, sulla spesa corrente e sui posti di lavoro. Più sulla dimen
sione
quantitativa che su quella qualitativa del nostro sistema di istruzione. Ma
anche riguardo
alla quantità di spesa, nessuno in questi mesi di acceso dibattito ha ric
ordato che
l’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale è scesa dal
10,3% del
1990 all’8,8% del 2007, denotando come la scuola e la formazione abbiano
perso
inesorabilmente posizioni nella scala di priorità del paese (con governi di
centrodestra e
di centrosinistra). E non è un fatto di risparmi, ma di scelte e appunto di
priorità:
l’incidenza percentuale potrebbe aumentare anche diminuendo la spesa
complessiva.
Noi ci auguriamo che, fatta chiarezza sui termini reali dei problemi, e pur
riconoscendo
la rilevanza dei fattori macroeconomici in questa fase della vita del nostro
Paese, il
dibattito possa riprendere quota e svolgersi ad un livello qualitativamente
paragonabile
a quello raggiunto in Italia in altre occasioni. Basti qui ricordarne alcune: il
grande
confronto sulla scuola svoltosi in sede di Assemblea costituente, cui part
eciparono
personaggi come Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Concetto Marchesi, Trist
ano
Codignola; il dibattito svoltosi agli inizi degli anni sessanta dello scorso
secolo che
portò nel 1962 alla creazione della scuola media unica; la temperie culturale
e sociale
nella quale maturarono, sull’onda della contestazione sessantottina e della
“Lettera a
una professoressa” di don Lorenzo Milani (1967), i “decreti delegati” del
ministro
Franco Maria Malfatti e l’idea guida della partecipazione (1974); il fervor
e che
accompagnò, nel corso degli anni novanta, la crescita di un’altra idea guida,
quella
dell’autonomia delle scuole. Alcuni di questi protagonisti forse si
rivolterebbero nella
tomba di fronte al livello troppo basso a cui è sceso il dibattito sulla scuola.
Ecco: al nostro Paese serve un recupero di qualità del confronto politico e
sociale in un
momento di così profonda crisi del ruolo e della legittimazione sociale del
sistema
educativo nazionale, non guerre sui dati o sui grembiuli. In altri Paesi sta
avvenendo: in
Francia, in Germania, in Spagna, nel Regno Unito, negli USA il dibattito sulla
scuola si
sta sviluppando con grande intensità, ed è accompagnato da profonde
innovazioni, a
carattere sia ordinamentale che sperimentale. E anche da adeguati
investimenti, che
sono probabilmente il frutto di una raggiunta e condivisa consapevolezz
a
dell’importanza della posta in gioco. Da noi questa consapevolezza ancora
non si vede,
malgrado le sollecitazioni del presidente Napolitano. Si vedono i tagli e le
proteste.
A quando il dibattito sulle proposte?
portofrancoclub ti segnala la seguente notizia dal sito http://www.lavoce.info:
CLASSI PONTE? UN’INVENZIONE ITALIANA
(http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000710.html)
Scuola e Università / Immigrazione
CLASSI PONTE? UN’INVENZIONE ITALIANA
di Maurizio Ambrosini 28.10.2008
Nei paesi avanzati non ci sono precedenti per la scelta di classi separate per
i bambini immigrati. Ci sono invece molte esperienze di didattica speciale,
volta al rafforzamento delle competenze linguistiche. Nel nostro paese la
percezione di un’emergenza educativa è drammatizzata dallo
smantellamento delle risorse per fronteggiarla. Il fatto stesso che alcune
scuole abbiano investito di più nella didattica interculturale non di rado
diventa un pretesto per convogliare solo verso queste gli alunni immigrati.
Problemi di merito e metodo della proposta.
I minori di origine immigrata oggi presenti in Italia sono più di 760mila, dei
quali però 450mila sono nati nel nostro paese, e in varie altre nazioni
godrebbero dalla nascita della cittadinanza. Tra i minori stranieri scolarizzati,
le proporzioni si invertono: circa i due terzi sono nati all’estero, anche se nel
tempo le cose cambieranno per la naturale evoluzione demografica della
popolazione immigrata. Il fenomeno in ogni caso è in rapida crescita e
presenta marcate concentrazioni territoriali. Le regioni con le maggiori
concentrazioni di istituzioni scolastiche che superano il 20 per cento di alunni
“stranieri” sono Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Nel Sud solo in Sicilia
si individuano alcune scuole in condizioni analoghe. La Lombardia è la
regione d’Italia con il più alto numero di istituti che hanno almeno il 20 per
cento di iscritti di cittadinanza non italiana, sono più di duecento. Nell’anno
scolastico 2007-08, le scuole della regione con una percentuale di alunni
non italiani pari o superiore al 25 per cento sono state il 9,3 per cento del
totale. (1)
SOLUZIONI IN ITALIA E ALL’ESTERO
A questa rapida e visibile trasformazione delle basi demografiche e sociali
della popolazione scolastica, vuole fornire una risposta la mozione sulle
cosiddette classi-ponte per i bambini immigrati, proposta dalla Lega Nord,
condivisa dal governo e approvata dalla Camera dei deputati. Un progetto
che , a quanto sembra, incontra un vasto consenso nell’opinione pubblica
nazionale. Benché non ancora chiarissima nelle sue modalità applicative, la
mozione è un atto di indirizzo politico, non una proposta di legge dettagliata,
l’idea è di costituire classi distinte per gli alunni che non dimostrino, a un
apposito test d’ingresso, una sufficiente conoscenza della lingua italiana. Lì
rimarranno finché non riescano, a una successiva verifica, a superare la
prova.
Molti commentatori hanno osservato che la mozione individua un problema
reale, sentito tra le famiglie italiane che hanno figli nella scuola primaria. Si
stanno formando, si dice, classi in cui la numerosità dei bambini immigrati e
la loro inadeguata conoscenza della nostra lingua frena l’apprendimento di
tutti, provocando la fuga degli italiani. O se non possono andarsene, un
evidente rancore.
I sostenitori del provvedimento, tuttavia, non si sono rifatti a nessuna
esperienza straniera. Non si conoscono infatti, in epoca recente, precedenti
nei paesi avanzati in cui si sia scelta la strada di classi separate per i bambini
immigrati, anche se si danno molte esperienze di didattica speciale, volta al
rafforzamento delle competenze linguistiche. Per esempio, in Australia o nel
Regno Unito, i bambini sono inseriti nelle classi normali, ma inizialmente
ricevono una formazione intensiva in lingua inglese, in gruppi separati e con
insegnanti specializzati, mentre stanno in aula e lavorano con i compagni per
materie come l’educazione fisica, l’educazione artistica, le attività manuali.
Dopo qualche settimana, cominciano a diminuire le ore “speciali” e
aumentano quelle “normali”, fino a giungere a una completa integrazione. Si
tratta quindi di una soluzione diversa da quella delle classi “ponte” della
mozione approvata dalla Camera, che istituisce contesti di apprendimento
differenziati per gli alunni immigrati privi di adeguate competenze
linguistiche.
L’approccio francese tiene conto della concentrazione urbana dei bambini
immigrati, così come di altre componenti sociali svantaggiate, aumentando il
personale educativo e le risorse a disposizione delle scuole dei cosiddetti
“quartieri sensibili”. All’investimento educativo si aggiunge un’attenzione più
complessiva alla riqualificazione e allo sviluppo dei quartieri difficili, con la
destinazione di risorse per l’animazione economica, sociale e culturale dei
territori, in cui le scuole svolgono una funzione importante.
Gli unici esempi noti di classi separate sono quelli istituiti in passato da alcuni
länder tedeschi: in quei casi però l’insegnamento si teneva nella lingua del
paese d’origine dei genitori, principalmente turchi, e aveva l’obiettivo di
favorire il ritorno in patria. Un obiettivo che si è rivelato illusorio, producendo
disadattamento e mancata integrazione, con i costi sociali conseguenti.
PROBLEMI DI MERITO E METODO
Nel caso italiano, non siamo all’anno zero. In molte scuole, anche se su basi
locali e volontaristiche, sono stati sviluppati laboratori di italiano come lingua
seconda, sono stati introdotti facilitatori e mediatori, sono stati distaccati
insegnanti con funzioni di sostegno dell’apprendimento. Il problema è
semmai che già sotto la gestione di Letizia Moratti, il ministero aveva tagliato
le risorse per queste attività. Il lieve incremento successivo è rimasto ben
lontano dal compensare l’aumento della popolazione scolastica di origine
immigrata. (2) La percezione di un’emergenza educativa è drammatizzata
dallo smantellamento delle risorse per fronteggiarla.
Le vistose concentrazioni in certe scuole e classi, inoltre, non sono un dato
per così dire “naturale”. Spesso derivano da scelte organizzative che
addensano in alcuni plessi e classi gli alunni di origine straniera. Il fatto
stesso che alcune scuole abbiano investito maggiormente nella didattica
interculturale non di rado diventa un pretesto per convogliare verso di esse
gli alunni immigrati, “sgravando” le altre. Il volontarismo e l’attivazione locale
hanno come contraltare il disimpegno e la resistenza passiva di altre
istituzioni scolastiche. Un impegno per l’integrazione scolastica dovrebbe
cominciare con il superamento di queste segregazioni di fatto, non giustificate
da ragioni di concentrazione urbana.
Vengono poi alcuni problemi di merito. Il primo, già espresso da Giovanna
Zincone su La Stampa, riguarda i destinatari della proposta del test di
ingresso: tutti gli alunni di nazionalità straniera, oppure solo quelli nati
all’estero? E in questo secondo caso, tutti, compresi quelli giunti nei
primissimi anni di vita, o solo a partire da una certa età? Che dire poi dei
bambini adottati all’estero? E dei figli di emigranti italiani di ritorno? E dei figli
di stranieri provenienti da paesi sviluppati? E dei figli di coppie miste? La
proposta appare essenzialmente una dichiarazione di intenti che vuole
marcare un confine, senza preoccuparsi di introdurre specificazioni.
Un altro problema riguarda le modalità di uscita dalle classi-ponte: che ne
sarà degli alunni che non riusciranno a raggiungere il livello di competenza
linguistica richiesto? Resteranno nelle classi-ponte? Fino a quando? Non si
rischia di reintrodurre surrettiziamente le classi differenziali abolite ormai da
tanti anni, perché ghettizzanti?
C’è infine una questione relativa ai luoghi e alle modalità dell’apprendimento
linguistico. La lingua si impara in classe, ma anche negli intervalli, in cortile e
in mensa, giocando, chiacchierando, passando del tempo insieme. E poi
invitando ed essendo invitati a casa dei compagni nel tempo libero.
L’apprendimento in contesti informali non è meno importante di quello
formale. E in più produce integrazione reciproca. Si può sostenere che le
classi ponte non vietano di entrare in rapporto con i bambini italiani, ma resta
certo che non producono un ambiente favorevole agli scambi quotidiani e
all’instaurazione di rapporti di amicizia.
Non è forse un caso che nessun esperto noto di scuola e di pedagogia
interculturale si sia espresso a favore del provvedimento. D’altronde,
immaginare che la forza politica che ha presentato la mozione, con il suo
curriculum, abbia davvero a cuore l’integrazione dei minori immigrati, appare
vagamente surreale. Ma se pensiamo che gli obiettivi siano altri, anzitutto di
raccolta del consenso, allora si comprendono meglio le ragioni della
proposta e del suo successo.
(1)I dati sono Usr Lombardia-Miur. Si veda M. Santerini, School mix e
distribuzione degli alunni immigrati nelle scuole italiane, in pubblicazione su
“Mondi migranti”.
(2) Un conteggio non recentissimo effettuato in Lombardia dava un rapporto
di un insegnante all’incirca ogni 400 alunni di origine immigrata. Oggi la
situazione è molto probabilmente peggiore, in termini di rapporto insegnanti
dedicati/alunni immigrati.
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