Tonino Bucci, I cento anni di Levy Strauss

da LIBERAZIONE 22 novembre 2008
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Tonino Bucci
Il 28 novembre Claude Lévi-Strauss compie cento anni

Il 28 novembre Claude Lévi-Strauss compie cento anni. La patina del tempo
si è posata sui suoi libri, diventati via via veri e propri classici. Tristi tropici , Le
strutture elementari della parentela , Il pensiero selvaggio , solo per ricordare
qualche titolo, hanno fatto epoca. Lévi-Strauss ha annunciato un nuovo modo
di fare antropologia, l’ha resa a pieno titolo una scienza, l’ha adeguata al
proprio antisoggettivismo. Soprattutto ha aperto la strada al metodo dello
strutturalismo – ripreso dalla linguistica saussuriana – diventando l’iniziatore di
una tendenza che avrebbe sedotto tutta la cultura francese. Grande
scienziato, narratore suggestivo, certo. L’hanno celebrato, osannato, citato in
tutte le salse. Nessuno potrà mai contestarne la grandezza intellettuale. Però levi1.jpg
è lecito anche chiedersi dove corra la sottile linea di confine tra i meriti teorici
di Lévi-Strauss, il soffio favorevole delle mode di cui ha goduto e la capacità
di cogliere un momento culturalmente propizio. Giriamo la domanda a uno
dei più noti antropologi italiani, Luigi Maria Lombardi Satriani, docente di
Etnologia all’università La Sapienza di Roma. Il suo prossimo libro sui classici
dell’antropologia uscirà a breve col titolo Per una storia degli sguardi da
vicino e da lontano .
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Se Lévi-Strauss ha avuto fortuna per le sue opere ed è diventato ormai un
classico, la stessa cosa non può dirsi per il suo metodo. Lo strutturalismo oggi
è dato per morto e sepolto. O no?
L’applicazione dello strutturalismo all’antropologia è da riferirsi senz’altro a
Lévi-Strauss. Ma non si può definirlo il suo metodo perché lo strutturalismo lo
riprende dal Corso di linguistica generale di De Saussure. E’ un metodo che
nasce in ambito semiologico e linguistico. Il merito di Lévi-Strauss è di averlo
adattato alla riflessione antropologica, all’analisi dei miti e delle strutture
elementari della parentela.

Però è grazie a questa operazione che l’antropologia è diventata scienza,
no?
Sì. Ma tra le doti di Lévi-Strauss c’è soprattutto quella di una scrittura
suggestiva e accattivante. Tristi tropici è un’opera di grande narrativa. Alcune
pagine di Mitologica sono costruite secondo una consapevole partitura
musicale. Nelle sue parole c’è una grande carica evocativa, ad esempio
quando parla della precarietà dell’uomo e della sua esistenza rispetto alla
vita del pianeta. Usa in maniera persuasiva la dimensione evocativa della
letteratura. E’ stato un grande antropologo anche perché fu, per l’appunto, un
grande narratore.

Ebbe anche un forte impatto politico, non dimentichiamolo. Fu uno dei primi a
mettere in dubbio la presunta naturalità dei rapporti familiari così come li
conosciamo nella nostra società. Vero?
Certo. Un grande impatto. Ma suscitò anche diffidenze. Per esempio quando
l’Unesco gli diede incarico di tenere un discorso ufficiale sulla razza, suscitò
grosse perplessità. Secondo me non era un discorso razzista. Ma questo
dimostra come il potere politico guardi con estremo sospetto alle analisi
scientifiche quando non sembrano coincidere con i propri convincimenti o ciò
che in quel momento appare politicamente da sostenere.

Lévi-Strauss ha problematizzato la presunta neutralità dell’antropologo.
Quando parliamo degli altri e del loro modo di vivere siamo sempre situati,
cioè siamo coinvolti in prima persona in quel che diciamo. Perciò se
l’antropologia vuol essere scienza deve sottrarre all’arbitrio il ruolo di chi
parla in luogo dell’altro. E’ così?
E’ la lezione più attuale. Come mi sembrano attuali tutte quelle pagine in cui
Lévi-Strauss si riferisce alla condizione dell’etnologo come simbolo di
espiazione dell’occidente. Non a caso questo motivo venne fortemente
ripreso in Italia da Ernesto De Martino in Terra del rimorso . Nelle prime
pagine richiama esplicitamente le suggestioni Lévistraussiane di Tristi tropici
e rielabora la concezione dell’etnografia come assunzione dello scandalo
permanente del culturalmente alieno. In Italia è stata una svolta fondamentale
per gli studi demoantropologici.

Come mai in Italia ha avuto tanta fortuna? C’era forse una predisposizione
nella nostra cultura?
Alcuni studiosi italiani sono stati anche diffidenti nei confronti di Lévi-Strauss.
Lo stesso De Martino nutriva forti riserve verso lo strutturalismo come metodo.
C’è da dire che Lévi-Strauss, senza nulla togliere alla sua grandezza
intellettuale, vive in un momento fortunato, al crocevia di un certo pensiero
filosofico, di un certo pensiero antropologico, di certi studi semiologici. Questa
miscela culturale ha risposto ai bisogni di un’intera generazione. Ha avuto
successo in Francia e a livello internazionale. Per quel che riguarda l’Italia
molte volte tutto ciò che arriva dalla Francia ha un’eco notevole anche per
quella sorta di provincialismo da cui siamo affetti. Appare più intelligente, più
à la page essere d’accordo con l’ultimo autore francese tradotto. C’è una
moda francofila. In Italia abbiamo anche grandi autori che vengono conosciuti
poco e male o tardivamente. Facciamo un minimo di tara alle mode culturali.

C’è ancora un Lévi-Strauss poco conosciuto accanto alle opere più note?
Non direi. Le sue opere continuano a essere tradotte e pubblicate. Non sono
solo Mitologica o Le strutture elementari della parentela a essere conosciute.
Si studiano anche le sue riflessioni sulle maschere. Essendo io impegnato
ancora nell’insegnamento universitario posso assicurare che Lévi-Strauss
esercita ancora suggestione sui giovani.

Ma si adatta ancora questo autore antisoggettivista per definizione allo spirito
del nostro tempo? Suscita ancora qualche consenso l’idea che il linguaggio e
la cultura siano un complesso di strutture sulle quali noi individui, esseri
umani e parlanti, non abbiamo alcun potere d’intervenire?
E’ vero, l’antisoggettivismo è caduto in disuso. E’ vero anche che, di volta in
volta, nel dibattito antropologico – come in altre discipline – si succedono fasi
alternanti: una volta c’è la tendenza a cercare le leggi e le costanti oggettive;
un’altra volta, prevale la rivendicazione del soggettivismo e il tentativo di
decostruire la realtà. Poi torna di nuovo un’istanza oggettivistica e così via di
seguito. Basta guadagnare uno sguardo prospettico e fare un passo indietro.
Guardiamo il panorama piuttosto che i dibattiti anno per anno. Allora ci
accorgiamo che tutto si va a comporre, l’una e l’altra istanza assieme. E’
errato pensare sempre in termini di aut-aut. E’ molto più feconda la
prospettiva dell’et-et. Non in nome di un eclettismo acritico ma perché ognuno
di noi si costruisce la propria antropologia mutuando dei tratti dall’uno e
dall’altro studioso.

Questa tensione tra la ricerca dell’oggettività e la rivendicazione del
soggettivismo di chi parla è tutt’altro che risolta nell’antropologia odierna. Non
è così?
E’ totalmente irrisolta. Però come non avevano ragione i pensatori
dall’impostazione ottocentesca che cercavano di costruire il sistema, le leggi
costanti, le leggi dello sviluppo umano e della cultura, così non sono
pienamente condivisibili le affermazioni di autori come Clifford Geerz, che a
furia di destrutturare e decostruire si ritrovano col niente. Certo che qualsiasi
discorso suppone un soggetto, ma bisogna guadagnare almeno
provvisoriamente una qualche forma di oggettività e di ancoraggio al reale.
Quando dico equilibrio critico penso a una sintesi tra tensione oggettivante e
desiderio di soggettività. Non si può dire solo “io”. Andrebbe decostruito pure
questo “geerzismo” imperante in Italia. Molte volte esasperiamo la tendenza a
considerare alcuni studi tanto più oggettivi quanto più distanti sono da noi e
riteniamo lo sguardo da vicino troppo miope. Altre volte pensiamo si possa
parlare solo di ciò che è prossimo a noi. In realtà è necessario sia l’uno che
l’altro, lo sguardo verso di noi e lo sguardo verso gli altri. Solo dalla
intersecazione degli sguardi che può venire una conoscenza critica.

Questo vale anche nei riguardi della stessa opera di Lévi-Strauss?
Dobbiamo essere riconoscenti alla sua lezione perché sarebbe patetico e
ridicolo liquidarlo. Ma neppure dobbiamo assumerlo come oggetto di culto.
Uno studioso si onora studiandolo non tributandogli una sorta di generica
commemorazione o esaltazione.

Anche perché le celebrazioni scompaiono il giorno dopo senza lasciare
tracce…
E’ quel che è accaduto in Francia con Barthes e Foucault. Prima idoli e poi
gettati nella polvere. Questo ha poco a che fare con l’atteggiamento critico,
l’unico a mio parere doveroso se si vuol rendere omaggio agli studiosi che ci
hanno preceduti.
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Tonino Bucci, I cento anni di Levy Straussultima modifica: 2008-11-21T17:46:00+01:00da mangano1
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