Francesca Bonazzoli, Magritte:il falso specchio

(da LAVOCEDI FIORE ) a cura di Federico La Sala, giovedì 27 novembre 2008.
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ARTE E FILOSOFIA. PER LA CRITICA DEL PLATONISMO E DEL CATTO-HEGELISMO DI MASSA …. AL DI LA’ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE. Una riflessione di Francesca Bonazzoli e altre note e informazioni – a cura di Federico La Sala
«Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario.

[…] «Magritte, il mistero della natura», da oggi al 29 marzo a Palazzo Reale
(piazza Duomo 12), a Milano: 110 dipinti a olio, gouaches e sculture (a
destra, «Le tombeau des lutteurs», 1960).
Orari: martedì-domenica 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30, giovedì 9.30-22.30.
Biglietti: intero 9 e, ridotto 7 e.
Catalogo della Giunti Arte (288 pag), 38 e
francesca1.jpgLa vita
René Magritte nacque a Lessines (Belgio) nel 1898. Dopo gli studi all’Accademia di Bruxelles, s’interessò alle ricerche d’avanguardia
(Futurismo, Cubismo). Si convertì al Surrealismo dopo aver scoperto la pittura di Giorgio De Chirico. Era il 1925 quando aderì al gruppo surrealista di Bruxelles, l’anno dopo entrò in contatto con André Breton, leader del movimento. Morì nel 1967 […]

[…] La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti futuristi per passare alle prime esperienze surrealiste, influenzate dalla scoperta della metafisica di De Chirico («È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita: i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta», disse davanti a una riproduzione di Le chant d’amour di De Chirico) e alle immagini dolorose del periodo tra le due guerre, per arrivare infine ai celebri dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta […]
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Il falso specchio
L’opera che condanna la verità dell’immagine
Le nuvole dell’illusione
Così un grande occhio mette in crisi il mondo

di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 22.11.2008)

«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?» «Certo», risponde
Damide. «E perché si fa?». «Per l’imitazione, per ottenere una figura
somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi
altra cosa sotto il sole». «Allora la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che
cos’altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi
con i colori », ribatte Damide. «Già, ma che dire delle cose che vediamo in
cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di
quei lupi e cavalli? Sono anch’esse opere di imitazione? Dio è forse un
pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?», chiede ancora il
filosofo pitagorico Apollonio di Tiana al suo discepolo con il quale, all’epoca
di Cristo, arrivò fino in India.

E poiché, procedendo nel dialogo, i due concordano che le nubi si formano
per caso e che siamo noi a attribuire loro una forma somigliante a quelle che
già conosciamo, Apollonio conclude che due sono le possibili imitazioni:
«Una è quella che porta a utilizzare le mani e la mente per realizzare
imitazioni, l’altra è quella che realizza la somiglianza unicamente con la
mente».

Quasi mille anni di storia dell’arte dopo, nel primo ventennio del XX secolo il
pensiero estetico torna da capo su questo tema e, dopo aver compiuto l’intero
giro della mimesi passando attraverso l’illusione e i cieli sfondati barocchi di
Correggio, Padre Pozzo o Tiepolo, Magritte dipinge un quadro che riporta la
speculazione filosofica al punto dove l’aveva lasciata Apollonio di Tiana.

Quel quadro si intitola «Il falso specchio» ed è un enorme occhio che ci
guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo
attraversato da nubi. L’immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai
ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare
come un inspiegabile sole nero.

Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie
specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta
ciò che l’occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul
mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?

La stessa riflessione verrà sviluppata da Magritte in molti altri quadri e
soprattutto ne «I due misteri», dove dipinge un’enorme pipa e, sotto, un
cavalletto con un altro quadro che riproduce a sua volta una pipa, ma con la
scritta: «Ceci n’est pas une pipe».

Ancora una volta Magritte spiazza colui che guarda: ci sono due pipe oppure
due disegni di pipe? O una pipa e il suo dipinto o due dipinti di una pipa vera,
oppure due disegni che non sono e non rappresentano né l’uno né l’altra e a
che cosa dunque si riferisce la frase scritta sul quadro nel quadro?

Insomma, Magritte vuole spostare il valore della pittura dalla sua funzione
mimetica, che l’arte occidentale gli ha riconosciuto fin dai tempi dei Greci, a
quella concettuale. La qualità dell’opera d’arte, dice, non sta nell’abilità
esecutiva (egli stesso parlava di peinture vache, di bassa qualità), bensì nella
capacità di innescare una riflessione sul mondo e la realtà. È lo stesso
spostamento dal manufatto alla sua dimensione mentale che aveva già
sperimentato Duchamp e che porterà all’arte concettuale, ma Magritte lo attua
attraverso gli strumenti del Surrealismo, ovvero l’accostamento incongruo di
oggetti, indipendente dalle leggi della logica, come in sogno, per sancire
l’irrealtà dell’apparenza.

Così la riflessione, e la visione, trasferiscono il loro centro dall’esterno
all’interno, come suggerito anche nella celebre scena di «Un chien andalou »
in quello stesso anno girato da Buñuel (e sceneggiato da Dalì) dove una
nube affilata che attraversa la luna si trasforma nella lama di un rasoio che
taglia l’occhio di una donna come a negare la possibilità della visione e
dell’interpretazione della realtà attraverso la vista.

Alla pittura viene quindi negato ogni valore naturalistico: come aveva intuito
Apollonio di Tiana, nella visione c’è sempre una componente soggettiva, la
tendenza a proiettare nelle forme immagini di cose che già abbiamo nella
testa.

Con Magritte arriviamo dunque al punto di rottura più radicale della storia
della mimesi, messa già in crisi dal trompe l’oeil fin dall’epoca rinascimentale
e barocca anche se tale esercizio virtuosistico rimaneva ancora nell’ambito
dell’imitazione (del cielo, del soffitto sfondato, delle architetture, delle nubi) e
non metteva veramente in discussione la verità dell’immagine che restava
sempre uno strumento di conoscenza della realtà.

Ecco perché nel XX secolo Magritte si accanisce proprio contro la pittura:
perché negare le immagini è un modo di negare finalmente l’oggettività del
mondo. E dopo le guerre virtuali che abbiamo visto in tv seduti sul divano,
sappiamo quanto questo sia vero.
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Enigma Magritte

di Francesca Montorfano (Corriere della Sera, 22.11.2008)
esiste», amava dire. E in questo paradosso, nella
consapevolezza che il mistero è il significato più vero di tutto il reale e la
natura è il luogo in cui esso si manifesta, si rivela tutta la profondità del
pensiero e l’attualità del grande maestro belga del Surrealismo.

A delinearne più compiutamente la poetica, andando oltre quelle immagini
ormai troppo famose, diventate icone del nostro tempo, a scoprire un inedito
e ancor più sorprendente Magritte, è un nuovo livello di lettura delle sue
opere, che si propone di indagare la sua particolare visione della natura. E
proprio la natura, con il mistero che racchiude in sé e che solo l’artista può
svelare guardando oltre l’apparenza delle cose, è il filo conduttore della
grande rassegna che si apre oggi a Palazzo Reale e che si presenta come
un evento assolutamente straordinario, perché vede riunite in Italia più di
cento opere di Magritte, quadri famosi provenienti da importanti musei e
lavori appartenenti a collezioni private e mai esposti prima d’ora.

«Sono pochi gli artisti del Novecento che hanno posto la natura al centro
della loro ricerca, preferendo l’esaltazione delle conquiste della scienza e
della tecnica, ma Magritte è stato uno di questi », ha dichiarato Claudia
Beltramo Ceppi, curatrice della rassegna insieme a Michel Draguet, direttore
generale dei Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique. «La natura è
sempre presente nel suo percorso artistico, protagonista o cornice di ogni
immagine, esplorata in una miriade di declinazioni e sfaccettature dove la
logica comune dei luoghi e delle cose è sovvertita, gli oggetti e le figure
spostati in contesti paradossali, la realtà reinterpretata attraverso l’occhio
lucido e spregiudicato di un intelletto moderno».

Il complesso rapporto che lega Magritte alla natura è raccontato in
un’esposizione tematica e cronologica insieme, dove a condurre lo spettatore
è lo sguardo stesso dell’artista, a parlare non sono cartelli o locandine, ma le
sue immagini e le sue riflessioni. «Con questa mostra abbiamo voluto
costruire una storia che abbia un inizio e una fine – continua Claudia
Beltramo Ceppi -, che sia spettacolo e approfondimento insieme, che possa
suscitare emozioni e trasportare in un luogo dove anche l’enigma, anche i
limiti dell’uomo si dissolvano nel mondo del sogno ».

La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti
futuristi per passare alle prime esperienze surrealiste, influenzate dalla
scoperta della metafisica di De Chirico («È stato uno dei momenti più
emozionanti della mia vita: i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima
volta», disse davanti a una riproduzione di Le chant d’amour di De Chirico) e
alle immagini dolorose del periodo tra le due guerre, per arrivare infine ai
celebri dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta.

E se nella mela di Souvenir de voyage del 1961 la natura appare
mascherata, quasi a voler celare la sua vera essenza, nella rosa immensa e
palpitante de Le tombeau des lutteurs del 1960 sembra invece esplodere in
tutta la sua potenza. Così, ne La découverte del 1927 il corpo della donna si
trasforma rivelando tratti animaleschi, ne Le retour del 1940 la colomba
diventa nuvola (o è la nuvola che si fa uccello?), nello stupefacente notturno
sotto un chiaro cielo diurno de L’empire des lumières del 1954 incanta con la
forza della poesia.

Ma il percorso va ancora avanti, a scoprire foto e spezzoni di film, manoscritti
(come il carteggio autografo con Camille Goemans, tra gli esponenti del
gruppo surrealista di Bruxelles) e grandi pannelli, come quelli usciti per la
prima volta dal Palais des Beaux Arts di Charleroi, che sembrano riassumere
tutta la magia dell’universo pittorico di Magritte. «Io voglio con la pittura
ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario. Un mondo
dove la natura possa offrire al corpo e allo spirito quella libertà di cui hanno
bisogno.
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Il pittore vallone ha rappresentato il carattere del suo Paese rebus
Riservato e imprevedibile Era l’alfiere della «belgitudine»
Viveva nella noia ma aveva sempre pronta la battuta beffarda

di Isabelle Gerard (Corriere della Sera, 22.11.2008)

Nato nel 1898 a Lessines, in Vallonia, René Magritte è diventato oggi
ambasciatore del Belgio nel mondo intero. È il più noto rappresentante del
Surrealismo belga ed è uno dei pittori più illustri del Paese. Le sue immagini,
sebbene surreali, parlano a tutti grazie al realismo della loro esecuzione. Del
resto, è partendo dal reale, con tutto quello che esso comporta di più banale,
che Magritte imposta i misteri, i non-sensi e le sorprese che riempiono le sue
opere. Una tradizione che dura da parecchi secoli in Belgio, dove artisti come
Bosch, Breughel, Ensor e, ai giorni nostri, Panamarenko, hanno sfruttato la
realtà per immaginare universi fantastici che flirtano spesso con il sogno e
l’inconscio.

In Belgio, questo sentimento del fantastico riguarda anche la corrente
simbolista della fine del XIX secolo (Khnopff, Rops) e i fumetti del XX secolo
(François Schuiten). Sembra che da molto tempo artisti in genere e artisti
plastici abbiano questo bisogno di creare universi onirici colmi di fantasia e di
mistero.

Quanto a Magritte, egli viveva semplicemente, in un piccolo spazio, decorato
con cura dalla moglie Georgette. Le sue giornate trascorrevano nella noia,
poiché gli unici contatti erano quelli che manteneva con i membri del gruppo
surrealista belga (Scutenaire, Nougé, Mariën). Questa vita lontanissima dagli
universi dei suoi quadri era una propria scelta.

Il fatto di rinchiudersi in se stesso, Magritte lo condivide con altri artisti belgi
che, come lui, non hanno seguito la strada già tracciata che si apriva davanti
a loro, preferendo gli abbandoni e talvolta gli insuccessi a vantaggio della
loro arte. Citiamo Simenon, Jacques Brel o ancora Hugo Claus, i quali, come
Magritte, vissero nell’isolamento.

Una discrezione che, stranamente, caratterizza numerosi artisti e personalità
belgi. In un Paese così piccolo, dove tanto più i geni avrebbero motivo di
esporsi, loro tendono piuttosto a non farsi notare. Raggiunto il successo,
continuano a vivere ritirati, dedicandosi solo alla creazione. È proprio questa
forse la loro forza, e la ragione per cui «piccoli belgi» come Magritte, Hergé,
Simenon o Brel sono riusciti a diventare artisti mondialmente noti.

È incontestabile che ci sia molto del «belga» in René Magritte, il cui accento
vallone fu oggetto di tanti scherni quando l’artista si trovava a Parigi
(1927-30). Nella vita quotidiana, Magritte viveva come il belga medio,
giocando a scacchi nei bar del centro e portando a passeggio il cane Loulou
per le stradine del suo quartiere.

Ma è soprattutto con l’umorismo, caustico e volgare come non mai, che
Magritte affermava (forse suo malgrado) la propria belgitudine. Così, alla
domanda «Come sta?» gli piaceva rispondere «Come vuole lei». Magritte,
che amava terminare le lettere con un affettuoso «buona inculata», creò nel
1948 a Parigi il periodo «Vache», una sorta di parodia del fauvismo, per farsi
beffe di quei parigini che avevano impiegato tanto tempo prima di prendere
sul serio il suo lavoro.

Eppure, Magritte non ha sfruttato deliberatamente la belgitudine nei suoi
quadri. Questi brulicano di elementi chiave che comunque hanno solo di rado
una connotazione belga (per quanto, l’ombrello non è un elemento
caratteristico degli abitanti di questo piatto Paese?). Al massimo, nelle sue
immagini troviamo paesaggi che ricordano quelli del Mar del Nord, case dal
profilo tipico di quelle di Bruxelles, cieli spesso grigi o nuvolosi, o ancora un
leone la cui sagoma evoca la marca dei supermercati belgi Delhaize. È forse
questa atmosfera cupa che dà un carattere «belga » all’opera di Magritte,
senza che egli abbia mai voluto tingerla di belgitudine. Infatti l’artista, come di
molte altre cose, se ne infischiava altamente d’essere belga, vallone,
fiammingo o brussellese.

Tuttavia l’opera di René Magritte oggi è diventata un’immagine del Belgio,
che esso vuole diffondere nel mondo intero. È servita da simbolo a una delle
grandi compagnie aeree (l’uccello della Sabena); i grandi musei gli dedicano
una quantità di mostre e nel giugno del 2009 a Bruxelles sarà inaugurato in
pompa magna un nuovo Museo Magritte destinato ad attirare un pubblico
internazionale. È tutto un programma, per colui che dipingeva nella sala da
pranzo sparlando della famiglia reale…

Isabelle Gerard è storica dell’arte, conservatrice del Museo Magritte a
Bruxelles e saggista
(traduzione Daniela Maggioni)

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Francesca Bonazzoli, Magritte:il falso specchioultima modifica: 2008-11-27T17:32:00+01:00da mangano1
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Un pensiero su “Francesca Bonazzoli, Magritte:il falso specchio

  1. Gentile dottssa Francesca Bonazzoli

    Sono una ricercatrice dell’Università di Milano, vorrei chiederle se mi puo’inviare la sua e-mail.
    cordiali saluti
    Maddalena Catalano

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