Patrizia Gioia ,Una conversione del cuore

UNA CONVERSIONE DEL CUORE
Di Patrizia Gioia
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Teatro al completo, nonostante il freddo e lo sciopero dei mezzi, per la lettura scenica di ieri sera, 1 dicembre 2008, de “La tragedia del grande inquisitore”, un breve testo scritto in forma di racconto da Raimon Panikkar come prosecuzione della Leggenda di Dostoevskij, inserita nei Fratelli Karamazov e rappresentata in prima assoluta al Teatro Filodrammatici, con un omaggio finale ad Hermann Hesse, la lettura dell’ultima pagina de “Il gioco delle perle di vetro”, filo conduttore di tutte le mifestazioni, una contaminazione necessaria tra arti e scienze, tra razionalità e intuizione.
Si sono così conclusi gli appuntamenti milanesi della IV edizione di “Omaggio ad Hermann Hesse”, i prossimi due appuntamenti, giovedì 4 e giovedi 11 dicembre alle ore 21, saranno a Lissone, nella bella cornice della Biblioteca civica, con la proiezione di due documentari della serie “Il filo d’oro”-regia di Werner WeicK,
con la cooperazione della RadioTelevisione della Svizzera Italiana e dedicati ad Hesse e Panikkar, con altri ospiti e letture sceniche di loro testi.
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LA manifestazione, ideata e curata da Patrizia Gioia, che quest’anno, con l’aiuto di Pietro Sergio Mauri è diventato anche Convegno a cupatrizia1.jpgi abbiamo dato nome: DIVENTARE IL PRESENTE.
Un augurio e uno sprone al nostro personale e necessario esercizio quotidiano, paziente, gioioso e rigoroso del fare del “qui e ora” un luogo di “contemplazione”, dove parola e azione sono inseparabili e dove la Cultura è anche e prima di tutto quella dimensione integrale, profonda, invisibile che sfugge ad ogni pensiero e che impregna tutta la vita di una persona, di una comunità, di un popolo in un determinato punto dello spazio e del tempo.

Troppo spesso smettiamo di vivere, rimandando la vita a quel domani che non verrà mai e che anche nell’ultimo giorno continuerà ad essere quel domani che non abbiamo mai osato vivere oggi.
La tentazione umana è sempre la stessa: rinnegare, sottrarsi in nome di una storia futura, di un altrove, un “al di là”, invece di stare nella grandezza della nostra umana tragedia, senza contare nei miracoli, ma con la speranza nell’invisibile.
Avere creato il tempo, quel tempo “dopo la tragedia”, è la maledizione che continua ad escluderci dalla creazione e dall’eternità.
Perché, come dice il sorriso del saggio Panikkar: “l’eternità non è un tempo molto lungo”.
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Il lato oscuro di ognuno di noi che non osiamo guardare ci ha portato alla sterilità della globalizzazione, alla reazione contraria dell’essere quel che siamo: “ persona religata a” e non “individuo separato da”.
Così si finisce per dimenticare che il mondo non è semplicemente una costruzione umana o un prodotto del pensiero e della ragione, ma è un dono misterioso della vita e un’armonia della vita più reale delle nostre pianificazioni e delle nostre istituzioni puramente umane e razionali.
Siamo esseri umani sì finiti, ma che si disperano solo perché si ostinano a non voler vedere che confinano con l’infinito e che senza l’Altro l’uomo non è uomo.

E’ arrivato il momento di iniziarci alla Verità dell’Altro, a iniziare a fare esperienza che la Verità è ciò che si cerca e che ci cerca, che la Verità è relazione, che è sempre relativa “a” e che non è da difendere, ma da svelare e rivelare ogni volta, grazie all’Altro, perché la Verità è essa stessa pluralistica e non si può ridurre all’unità la diversità.
L’esercizio a cui dobbiamo allenarci è quello di iniziare a sostare nella contraddizione, a perdere ogni nostro punto di riferimento: un Io e un Tu che sono irriducibili all’unità.

I due testimoni del nostro Convegno, Hermann Hesse e Raimon Panikkar, ci hanno accompagnato e ci accompagnano col loro pensiero e l’esempio della loro vita, a porre le basi per una “conversione del cuore”, dove l’etica non è qualcosa di esterno, ma un movimento interiore che viene più dal cuore che dalla mente.
Un cuore capace di ascolto.
“O il secolo XXi sarà spirituale o non sarà” è necessità ormai colma di segni e di avvertimenti, ma non per disperarci, ma per godere della crisi in atto come straordinaria opportunità trasformatrice.

Ed è di questa opportunità che parla “La tragedia del grande inquisitore”, una riflessione critica sulla libertà dell’uomo, libertà che continuiamo a reclamare, a cui non siamo affatto abituati e di cui abbiamo una terribile paura.
Perché la libertà è vertigine, destabilizza, ti lascia solo e responsabile di ogni tua parola e di ogni tua azione.

Il testo è anche una profonda riflessione sul potere, non solo religioso, perché davvero il bisogno di potere dell’uomo è più forte del suo stesso desiderio di felicità.
In questa nuova visione ci sono necessarie l’interculturalità e l’interreligiosità “convertite”, dove l’ approccio non è più quello dell’autorità e del potere, ma dell’obbedire insieme ad un’istanza superiore, a un valore più alto che ogni membro riconosce e nessuno controlla, una inter-in-dipendenza costitutiva, non si tratta di conoscere la soluzione, ma di cercarla insieme nella lealtà a uno spirito comune, superiore a tutti gli interessi e interessati.
Il consenso consiste in definitiva nel camminare nella stessa direzione e non nell’avere un’unica veduta razionale.
Il passaggio dalla pluralità al pluralismo – scrive Robert Vachon in consonanza con Panikkar – rientra nelle doglie del parto della creazione e appartiene al dinamismo stesso dell’universo.

Cerchiamo di renderci vulnerabili alla rabbia e al dolore, all’impotenza e alla potenza del Grande Inquisitore, sono tormenti che vivono in ognuno di noi, sono domande a cui siamo ogni volta personalmente chiamati a dare risposta, dobbiamo rischiare la fede e e trovare il coraggio di “rimanere soli con la libera decisione del cuore”.

All’Inquisitore si annuncia improvvisamente una rivelazione fatta di parole e sangue.
La possibilità di non più “uccidere il padre”, di non più opporre al “male” un “bene armato”.
E questa possibilità è parte della nostra libertà, è il nostro libero arbitrio.
Difficile accettare la serie di errori e di omissioni, una catena per cui si vorrebbe uccidere l’Altro, invece di perdonare in lui anche noi stessi per la stessa umana incapacità
Difficile stare dalla parte delle vittime dell’ingiustizia senza diventare carnefici, armati di potere.
Difficile non giudicare. Difficile “abbandonare l’inquisizione”.

E il bacio del prigioniero è scatenante: ribalta, libera, trasforma.
Davvero il perdono è un atto eminentemente religioso e contemporaneamente eminentemente politico, ecco perché dopo quel bacio la leggenda diventa “tragedia”: perché si annuncia all’uomo un’altra via da percorrere.
Il discorso della montagna ancora non l’abbiamo messo in pratica.
Il perdono è un atto di “decreazione”, toglie dal mondo il male fatto, ridà libertà all’uomo, nuova vita alla vita.

Patrizia Gioia
Grazie a Hermann Hesse, Raimon Panikkar, Claudio Magris, Robert Vachon, Arrigo Chieregatti e…a tutti quelli che operano con le mani e il cuore qui e ora. I

Patrizia Gioia ,Una conversione del cuoreultima modifica: 2008-12-03T18:44:00+01:00da mangano1
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