Giuliano Battiston, Confronto fra diverse tolleranze

giuliano3.jpgDa IL MANIFESTO 22dicembre
giuliana.jpg
INTERVISTA | di Giuliano Battiston
CONFRONTO TRA DIVERSE TOLLERANZE
Dialogo CON JAHANBEGLOO

«Non credo che ci sia una contraddizione tra la difesa della diversità e il
tentativo di trovare un terreno comune e universale dall’altra», dice il filosofo
iraniano. «Non si tratta, per esempio, di relativizzare i diritti umani ma di
discutere anche le idee generali che li sostengono»
Immaginiamo di essere delle rane, ferme sul fondo di un pozzo, che non
sanno dell’esistenza dell’oceano. Potremmo anche credere che quel pozzo
sia un oceano e che quello sia il nostro orizzonte ultimo, ma la differenza tra il
pozzo e l’oceano rimarrebbe comunque immensa. È con questo esempio che
il filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo giustifica la sua insistenza nel
promuovere una cultura del dialogo, che superi gli arroccamenti identitari e giuliano2.jpg
sappia conciliare il radicamento culturale con un sentimento di appartenenza
collettiva all’umanità e di responsabilità verso gli altri. Sa bene, Jahanbegloo,
che le dichiarazioni di universalismo suonano sospette, perché sono state
spesso usate come pretesti per mascherare politiche annessioniste, finendo
con il radicalizzare il particolarismo identitario. Ma continua a credere che
l’unico modo per opporsi all’attuale «scontro delle intolleranze» passi per il
riconoscimento dell’«unicità» dell’uomo. E che questo passi a sua volta per il
«riconoscimento reciproco delle differenze». Il sentiero non è facile, ammette
Jahanbegloo, ma è l’unico che vale la pena seguire se vogliamo uscire dal
pozzo. Abbiamo incontrato il filosofo iraniano a Roma, dove, invitato dalla
rivista «Reset», ha presentato il suo Leggere Gandhi a Teheran (Marsilio, pp.
11, euro 10).

Lei ha sostenuto che «la filosofia non è soltanto avere un forte senso della
realtà (nei termini in cui Hegel scriveva che ‘la filosofia è il proprio tempo
appreso con il pensiero’), ma anche sapere come resistere ad essa».
Significa che possiamo usare la filosofia anche per contrastare le politiche
repressive e il dogmatismo religioso?
Almeno a partire da Socrate la filosofia è sempre stata una forma di
resistenza a tutti generi di dogmatismo e ha avuto il compito di resistere ai
pregiudizi, al fanatismo e all’intolleranza. Questo non significa che i filosofi
non possano essere intolleranti, e alcuni di loro lo sono senz’altro; ma la
filosofia come esercizio critico del pensiero, come strumento per non
attestarsi sulle verità stabilite e per ripensare sempre di nuovo le verità è per
sua natura antidogmatica. Ed è innanzitutto un’avventura dialogica. Una delle
eredità più rilevanti della tradizione filosofica è quella di aver contribuito a
stabilire il dialogo, che laddove si è verificato ha prodotto risultati eccezionali,
come nel caso di Cordoba, da cui è emerso il Rinascimento europeo.
Anziché temere i musulmani, come si fa in Europa, o demonizzare i cristiani e
l’Occidente, come accade in Medio Oriente, oggi dovremmo ristabilire questo
dialogo e dare vita a una nuova Cordoba. Ci sono ottime ragioni per farlo,
ragioni che eccedono la semplice opportunità politica.

Ma affinché si possa ristabilire questo dialogo ci deve essere innanzitutto ciò
che lei definisce «tolleranza dialogica». Ci vuole spiegare meglio cosa
intende con questa espressione?
Per molti la tolleranza equivale a confinare le comunità «altre» in ghetti
mentali o fisici, che impediscano il contatto. Io penso invece a una forma di
tolleranza che esclude l’indifferenza o la passività, e che si dà solo quando si
accetta in modo reciproco che ci sia una forma di interazione, un confronto; il
dialogo può avere inizio solo laddove si riconosce che l’«altro» è pari a noi e
ha le capacità per risponderci e insegnarci qualcosa. Per questo credo che
per ottenere un effettivo pluralismo culturale non si debba insistere soltanto
sulla molteplicità dei valori e delle culture, ma anche sulla necessità di
istituire un confronto dialogico ed empatico tra questi valori e culture, in modo
da riconoscere un terreno comune, dei valori condivisi. Gli esseri umani
cominciano a rispettarsi reciprocamente quando capiscono che ogni cultura è
portatrice di un’eredità comune. La mutualità del riconoscimento, la
solidarietà e la reciprocità ci permettono non solo di dare vita a una
globalizzazione produttiva, che deve essere basata sull’apertura e sulla
tolleranza dialogica, ma anche di evitare, attraverso un esercizio critico
riflessivo, l’auto-chiusura nei ghetti mentali, i più pericolosi.

In «Leggere Gandhi a Teheran» lei scrive che al cuore dell’esperienza di
Cordoba c’è «l’aspirazione all’universale e il rispetto della diversità». Ma
come conciliare le due dimensioni evitando l’universalismo «egemonico» e la
tendenza ad assimilare l’altro, il relativismo morale e l’essenzialismo culturale
che reifica le identità? È sufficiente affidarsi a quello che nel dibattito con
Richard Rorty ha definito «universalismo soft»?
Non credo che ci sia necessariamente una contraddizione tra la difesa della
diversità da una parte e il tentativo di trovare un terreno comune e universale
dall’altra. L’universalismo «soft» infatti è una forma di universalismo che,
tenendo conto della rilevanza delle particolarità e delle diversità, non si
impone attraverso messaggi unidirezionali e monodimensionali. Proprio in
quanto «soft» e non «hard», questo universalismo può essere la base sulla
quale costruire un confronto, un terreno comune tra culture diverse che non
ceda al relativismo. Prendiamo il caso dei diritti umani: non si tratta di
relativizzarli, ma di rendere suscettibili di discussione anche le idee universali
che li sostengono. Come se il minimum morale, necessario per ogni
conversazione civile e per evitare la barbarie, potesse realizzarsi pienamente
soltanto su una strada che non sia a senso unico, laddove sia consentito
confrontare le diverse interpretazioni di questo minimum. La diversità delle
culture e il dialogo interculturale contribuiscono a realizzare l’universalismo,
non lo ostacolano.

Lei distingue tra il modello indiano di secolarismo – un modello simmetrico
che promuove il dialogo e comportamenti non settari verso le religioni – e
quello francese della laicité, monolitico ed esclusivista piuttosto che pluralista
e inclusivo. Ci spiega meglio qual è la differenza?
I casi anche recenti della storia francese dimostrano l’attaccamento a un
vecchio modo di giudicare le questioni del pluralismo e della cittadinanza.
Molto diverso da quello adottato in India, dove, sulla base di una secolare
tradizione di convivenza tra lingue, culture e religioni diverse, la diversità
viene accettata con molta più facilità e naturalezza, e lo status quo politico e
culturale, soprattutto dopo l’indipendenza, si fonda sull’equivalenza delle
religioni e delle fedi e sull’uguale rispetto verso di esse. La costituzione
indiana infatti non privilegia, in nome della razionalità, della Rivoluzione
francese o della laicité, un unico modello al quale subordinare gli altri. Ed è
per questo che l’India, pur con molte zone d’ombra, rappresenta un esempio
di coesistenza pacifica, come dimostra oggi la coabitazione tra un presidente
musulmano e un primo ministro sikh, e in passato il fatto che tra gli indiani
che combattevano al fianco di Gandhi per l’indipendenza e la
modernizzazione del paese ci fossero anche molti musulmani, come Khan
Abul Gamal Ghaffar Khan: si trattava di creare una nuova diversità indiana,
non una nuova India destinata solo a indù, cristiani o sikh.

Recentemente lei si è dedicato all’esplorazione dei modi in cui è possibile
«diventare globali» e costituire, attraverso il «mutuo riconoscimento delle
differenze», una cittadinanza che oltrepassi quella legata allo stato-nazione.
In che modo questo «mutuo riconoscimento delle differenze» si lega al
concetto gandhiano di non-violenza?
Negli ultimi tempi ho introdotto anche il concetto di solidarietà delle
differenze, perché credo che mutualità e solidarietà possano funzionare
soltanto se pensate insieme. Entrambi questi concetti sono intimamente legati
alla nozione di non-violenza così com’è stata pensata da Gandhi o Martin
Luther King. Nel processo di riconoscimento dell’altro in quanto tale ci si
immerge infatti in un confronto dialogico che richiede il superamento di
qualunque forma di violenza (sociale, politica, culturale), o in altri termini
l’oltrepassamento della dialettica hegeliana del servo/padrone, che implica
comunque una violenza formale. Nella dialettica a cui io mi riferisco è invece
il processo stesso a creare nuove forme di non-violenza, perché l’esercizio
del dialogo annulla o depotenzia la violenza e sollecita il confronto reciproco
e il riconoscimento di una responsabilità comune, indicando la necessità di
completarci a vicenda, culturalmente, ma direi anche spiritualmente.

In altri termini sembra di capire che dovremmo adottare il punto di vista di
Gandhi, che desiderava una casa con porte e finestre aperte, metafora della
necessità di aprirsi all’«altro» senza timori. Cosa può insegnarci, oggi, il
modello etico-politico di Gandhi, a cui ha dedicato diversi libri?
Gandhi avrebbe molto da insegnare anche all’Europa odierna, perché i
desideri che lei ricordava la riguardano. Anche l’Europa, infatti, dovrebbe
aprire le proprie porte all’alterità e all’immigrazione, senza temere di perdere
la propria identità, perché è solo attraverso la coesistenza interculturale che
potrà crearsi una nuova idea di Europa, e insieme ad essa una nuova cultura.
Come quella di cui è espressione Barack Obama, un presidente nero e
insieme bianco, votato da ebrei e ispanoamericani, che hanno riconosciuto in
lui proprio il simbolo di questa coesistenza. Mi auguro che molto presto
anche in Europa potremo avere come presidente o primo ministro una
persona di provenienza araba o indiana, e spero che, finalmente, questa non
sarà considerata un’aberrazione, bensì una buona opportunità.

Un’ultima domanda di carattere più personale: con l’accusa di tramare contro
il governo iraniano, nel 2006 lei è stato incarcerato per centoventicinque
giorni nella sezione 209 – destinata ai prigionieri politici – della prigione di
Evin a Teheran. Cosa risponde a quanti l’hanno definita «un cavaliere della
Nato culturale»?
Innanzitutto si suppone che la Nato sia un’organizzazione militare e politica,
non culturale. In secondo luogo è lontanissima da me l’idea di poter essere
un cavaliere, se non nel senso di Don Chisciotte. Al di là di questo, credo che
quell’esperienza mi abbia insegnato l’importanza di rifiutare la logica che
vuole che alla violenza si risponda con la violenza. Ho imparato che non si
deve assecondare il sentimento della rivalsa. Mandela in questo rappresenta
un esempio illuminante: pur avendo trascorso ventisette anni in prigione,
quando ne è uscito non ha cercato la vendetta personale o collettiva, ma ha
spinto il paese verso la coesistenza. Sebbene il suo progetto di verità e
riconciliazione non sia completamente riuscito, rimane importantissimo,
perché vi erano inclusi anche coloro che dovevano giustificare le violenze
compiute, come in una terapia di gruppo. Quel che è stato fatto in Sudafrica a
livello nazionale potrebbe essere esteso a livello globale con il dialogo
interculturale.

Giuliano Battiston, Confronto fra diverse tolleranzeultima modifica: 2008-12-23T19:49:00+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo