Roberto Brunelli, I sogni perduti di Springsteen

da L’UNITA’, 21 gennaio 2009
Roberto Brunelli
Diavoli, fuorilegge e macerie: i sogni perduti di Springsteen
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Un disco a doppia, forse a molteplice lettura: ecco il nuovo Springsteen. Doveva essere il disco della speranza, è il grido disperato vestito di pop di un’America alla ricerca di una redenzione impossibile.
La speranza, la ferita. Il colpo d’occhio è Bruce Springsteen con i capelli lunghi ed un’espressione indecifrabile. La sonorità è densa. Dolorosa. Ma come? Non canta di «giorni fortunati» (My Lucky Day), non disegna il ritratto di chi «lavora su un sogno» (Working on a Dream), non è lì a spiegarci quel che «può fare l’amore» (What Love Can Do)? Eccolo, alla fine, il nuovo disco del «Boss», quello – si era detto – della rinascita, della ricostruzione delle macerie americane dopo la lunga e terribile epoca Bush. Ed ancora una volta è un disco a doppia, forse a molteplice, lettura: come già Magic, che era un viaggio agli inferi del sogno americano sorretto da cori beachboysiani e chitarre cristalline come una cascata dell’Alaska, il capitolo numero ventiquattro della carriera di uno dei giganti della storia musicale degli Stati Uniti d’America, è sì il racconto della speranza, ma appare una speranza disperata, dalla sonorità pastello e dai colori lisergici.

BALLATE ELETTRICHE
Working on a Dream, che è stato registrato a grande velocità con la E Street Band durante le pause delll’ultima tournée, è un disco enigmatico, melanconico. Potrebbe non piacere fino in fondo a quelli che prediligono lo Springsteen roccioso, energetico e contagioso dei grandi classici come Born to Run o The River . È lo Springsteen più ombroso a parlarci, quello che decide di controllare tutta l’energia di cui dispone, come un vulcano pronto all’eruzione. Per esempio in Life Itself, forse il pezzo-chiave del disco: una grande ballata elettrica – chiusa addirittura da un assolo di chitarra «al contrario», come ai bei tempi della psichedelia della stagione ‘66/’67 – un fiume profondo che racconta il sapore perduto della vita dopo il passaggio della distruzione, l’oscurità ed il vento che muove gli arbustri di olmi neri. Surprise, surprise canta l’ineffabile Springsteen in quella che sembra la canzone più allegra di Working on a Dream: un curioso inno alla gioia innervato di folate beatlesiane, che pure cova in sé un’anima surreale, come un sogno che desidera materializzarsi ma che forse non arriverà mai.
E come un sogno ormai lontano suona lo straziante addio a Danny Federici, armonicista e tastierista della E Street Band, scomparso qualche mese fa. «Attaccati al trapezio con i miei polsi in attesa dei tuoi, due diavoli spericolati lassù sul muro della morte», canta l’amico Bruce in The Last Carnival, mentre un abbraccio di voci si allontana sempre di più.

Certo, c’è anche la grande mitologia delle praterie, con Outlaw Pete. Una immensa cavalcata nella disperazione di un fuorilegge che apre il disco e che forse spiega tutto quel che segue: One night he awoke from a vision of his own death, «una notte si svegliò dalla visione della propria morte». Una storia di sangue che non sarà mai lavato, che non potrà essere vendicato se non al costo di altro sangue. Pura narrazione americana: «Pete lanciò il coltello e fece un buco nel cuore di Dan. Dan sorrise mentre giaceva nel proprio sangue e moriva al sole. Sussurrò nell’orecchio di Pete: “Non possiamo disfare quel che abbiamo fatto”. Sei Pete il fuorilegge, mi puoi sentire?». (Bizzarramente nella canzone affiora la melodia portante di I Was Made for Loving You, dei Kiss: astrusa coincidenza o fatale incoveniente, dipende dai punti di vista…).

IL MARCHIO DI CAINO
Difficile non sentire echi dai bombardamenti stelle e strisce in Iraq: Bruce rimane spietato di fronte al disastro americano di questi anni. «Qui sopportiamo il marchio di Caino», canta in What Love Can Do. Eppure è pop, il nuovo Springsteen: uno strano pop fatto di molti strati, uno strano pop che ha conosciuto le profonde ferite del blues. Un blues nero com’è nera la pelle di Barack Obama, un blues duro come Good Eye, dove la voce di Springsteen sembra uscita dalle caverne («avevo l’occhio buono rivolto all’oscurità e l’occhio cieco rivolto al sole»), un blues implacabile e pieno di un’antica sapienza musicale, che colloca buona parte di questo Working on a Dream in uno spazio della musica sospeso nel tempo.
È un sogno in costruzione, quello di Bruce. Se volete spendere qualche lira in più prendetevi la versione del cd con dvd annesso: non solo ci sono splendidi filmati realizzati durante le registrazioni, ma c’è il video (la «bonus track») di A Night With the Jersey Devil. Puro Voodoo sanguinario, è Springsteen che emerge da limacciose acque nere: il diavolo in persona, che urla la nostra redenzione impossibile.
rbrunelli@unita.it

21 gennaio 2009

Roberto Brunelli, I sogni perduti di Springsteenultima modifica: 2009-01-21T19:13:00+01:00da mangano1
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