Tonino Bucci, Tempi di bonapartismo

da LIBERAZIONE, 11.2.2009.
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TONINO BUCCI
Tempi di bonapartismo
democrazia senza partiti

Un convegno dell’associazione giuristi democratici sulla crisi della politica. Tra gli interventi quello di Luigi Ferrajoli

I partiti non sono più quelli d’una volta. Sembra una boutade . A prima vista sono ancora lì, ai posti di comando. I partiti continuano a raccogliere il consenso. I partiti sono ancora una formidabile macchina politica – magari assieme alla televisione – che funziona benissimo quando si tratta di formare le opinioni nell’agenda del senso comune. Eppure fatta salva la Lega – tra i partiti rappresentati in parlamento – quale formazione politica italiana oggi è in grado di rivendicare una connessione sentimentale con il proprio popolo? Se si richiama a mente l’articolo 49 della Costituzione – «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» – non si può fare a meno di notare la discrepanza tra l’affermazione sulla carta del principio e la sua applicazione nella realtà. I partiti attuali sono ben lontani dall’essere i veicoli della partecipazione del popolo alla costruzione della politica nazionale. L’unico “popolo” che conoscono è quello blandito dal linguaggio della strada, dal repertorio del populismo, dal vocabolario del razzismo e dell’odio per gli immigrati, il popolo chiamato al voto una volta ogni cinque anni per consacrare il leader, il capo, il depositario esclusivo della volontà popolare. Ai partiti non restano che le sirene del leghismo per far fronte alla disaffezione nei loro confronti.

Insomma, la crisi della democrazia può essere raccontata come la crisi dei partiti, l’incapacità loro di svolgere il compito prescritto dall’articolo 49 della Costituzione. Ma vale anche il contrario perché la crisi della politica non è solo l’effetto di una “democrazia senza partiti”, ma anche lo specchio allargato di “partiti senza democrazia” diventati ormai organismi autoreferenziali. Di questa tesi hanno discusso di recente giuristi, sociologi e politici –

quest’ultimi pochi per la verità – in un convegno organizzato a Roma dall’Associazione giuristi democratici con il titolo “La democrazia nei partiti, L’articolo 49 della Costituzione, 60 anni dopo”.

Il fatto è che sono scomparsi i partiti tradizionali di massa che avevano scritto la Costituzione. Non ci sono più né la Dc, né il Pci, né il Psi, essendo ognuna di queste forze politiche frantumata nella complessa questione delle eredità. Cosa è cambiato? Che quel che oggi chiamiamo partiti sono in realtà «élites che si riproducono da soli per cooptazione», come dice Cesare Antetomaso, il portavoce della sezione romana di Giuristi democratici. «Dobbiamo rassegnarci alla trasformazione dei partiti in organismi autoreferenziali incapaci di ascoltare e mettersi in rapporto di scambio con i movimenti? E’ una pia illusione sperare che i partiti si aprano a una maggiore partecipazione»? C’è un antidoto al leaderismo e al presidenzialismo? E, ancora, si può superare la scissione tra la politica e i conflitti “locali” di questi anni, come dimostrano i casi di No Dal Molin e No Tav?

Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto, l’autore di Principia iuris , la spiega così: se da un lato si depotenziano le regole democratiche e i dispositivi di controllo sul potere previsti dalla Costituzione, dall’altro aumenta il peso di oligarchie e ceti politici ristretti. Il fatto è che questo primato dei governanti sui governati, dell’alto sul basso, del potere sulla società è visto, secondo un’opinione molto accreditata, nel significato opposto a quello che ha: viene fatto passare cioè come la riscossa della democrazia rappresentativa in luogo della stantìa Prima Repubblica – quella dei partiti e del proporzionale. Cos’altro è il berlusconismo se non l’esaltazione della maggioranza, del principio “comanda chi piglia più voti”, dell’identificazione tra volontà degli elettori e capo eletto? Il vecchio Marx coniò il termine “bonapartismo” per indicare la forma di governo corrispondente alla deriva autoritaria e personalistica della politica. Di fronte a conflitti sociali le classi dominanti scelgono il rafforzamento del potere esecutivo e la delega a un capo carismatico in grado di esautorare il parlamento e mobilitare in forma passiva il consenso delle folle.

Questa che sarebbe, ai giorni nostri, la crisi della politica a tutti gli effetti è spacciata, invece, ironia della sorte, per il coronamento della democrazia rappresentativa. Inquadrata sotto luce distorta il berlusconismo è la vittora degli elettori nei confronti dei partiti della Prima repubblica, degli elettori finalmente in possesso della prerogativa, attraverso il voto, di scegliere chi li comanderà senza più intralci e senza l’assillo di regole “anacronistiche” – tanto più poi se ispirate da una Costituzione “filosovietica”. «Questa è una lettura falsa – argomenta Ferrajoli – non è la vittoria della democrazia rappresentativa, è la degenerazione del meccanismo della rappresentanza politica». Ferrajoli ne elenca almeno tre, di motivi, a sostegno della sua tesi. Innanzitutto, la rappresentanza si è verticalizzata. La personalizzazione della politica non solo ha fatto saltare il meccanismo di controllo della base sul vertice all’interno dei partiti, ma ha innescato un processo di delega verso l’alto in tutta la società in una esasperata verticalizzazione della rappresentanza. «Le maggioranze politiche che vanno al governo si autolegittimano come espressione della volontà popolare». Dietro l’enfasi del voto della maggioranza si nasconde il populismo, l’esaltazione del capo, lo sdoganamento dell’avversione anticostituzionalista, l’intolleranza alle leggi e ai limiti del potere. E’, nella sostanza, l’incarnazione «di quella concezione politica antirappresentativa che Kelsen rinfacciava polemicamente a Schmitt. Kelsen contro Schmitt respingeva nella maniera più assoluta che si potesse parlare di volontà unica del popolo perché un’idea del genere avrebbe occultato il conflitto di classe che sempre attraversa la società. Lo diceva Kelsen, non un sovversivo».

Ma ci sono anche altre due cause, la commistione tra politica e affari, tra potere politico e potere economico – commistione di cui il conflitto berlusconiano di interessi è la variante più macroscopica, quand’anche non l’unica – e, al cuore di tutto, la degenerazione dei partiti. «Se i partiti sono di fatto oligarchie che si autoriproducono, se ormai c’è completa identificazione tra partiti e Stato possiamo ancora dire di vivere in una democrazia rappresentativa? L’interesse pubblico è tramontato dall’orizzonte del senso comune e tutti pensano che in fondo si fa politica solo per tutelare interessi privati». Come uscirne? Sono sufficienti le due provocazioni di Ferrajoli? Una è obbligare i partiti a osservare statuti democratici, pena l’esclusione a beneficiare dei finanziamenti pubblici. «Se vogliono affidarsi ai leader carismatici, ai capi facciano pure, ma allora rinuncino ai soldi dei contribuenti. L’altro messaggio è indirizzato invece alla sinistra radicale e ai segretari di partito: «rinunciate ad accumulare cariche pubbliche elettive e incarichi di dirigenza nei partiti. Sarebbe già una risposta alla crisi di sfiducia rinunciare a candidarsi. Fate liste civiche, liste aperte, liste di militanti di base, ma voi dirigenti restatene fuori».

Ma la perdita di contatto dei partiti con la società non dipende anche dalla loro incapacità di uscire dalla cultura patriarcale? Possono partiti monosessuati svolgere la funzione rappresentativa, anzi di più, promuovere la partecipazione diretta di donne e uomini alla politica nazionale secondo quanto prescritto dalla Costituzione? Ovvio che no. «I partiti nascono maschili – sostiene Alisa Del Re, docente di partiti politici e gruppi di pressione all’università di Padova – quando si incominciò a introdurre il suffragio universale maschile ci fu uno scombussolamento del sistema politico. Nulla del genere, invece, è accaduto col voto alle donne. Non è cambiato niente nei partiti da allora e i criteri di formazione delle élite dirigenti sono sempre gli stessi». Ma la (mono)sessuazione della politica non è un semplice problema di rappresentanza. Non è solo il fatto che le donne devono essere rappresentate. «Il problema sono le donne in quanto rappresentanti. Da questo punto di vista gli statuti dei partiti sono zone grigie. Non c’è nessun obbligo a comportarsi secondo quanto c’è lì scritto. Si dice rappresentanza paritaria dei sessi, ma poi la pratica è tutt’altra». La domanda può essere formulata anche in quest’altro modo: bastano le quote rosa a risolvere il problema? Forse sì, forse no, «in ogni caso il patriarcato – dice Imma Barbarossa (Prc, dipartimento laicità, differenze e nuovi diritti) – è una cosa molto complessa che non si abolisce per decreto e con le quote. Il patriarcato è un ordine culturale e molto dipende dalla capacità delle donne di portare il conflitto di genere nei partiti. La frase “il personale è politico” continua a essere valida».

Ma c’è un rimedio alla trasformazione dei partiti in organismi d’elite staccati dai conflitti della società e incapaci di richiamarsi agli elettori se non con le sirene seducenti e inquietanti del populismo? Nel loro convegno i giuristi democratici qualche terapia l’hanno indicata. Piaccia o meno questo è un altro discorso. Intanto la capacità della democrazia di rappresentare le istanze sociali dipende anche dalle cosiddette regole del gioco e dal sistema elettorale di cui si dota. La questione è nota perlomeno dai tempi della contesa fra John Stuart Mill e Walter Bagehot, sostenitore il primo del proporzionale, il secondo del maggioritario. E’ quasi un leit motiv tra i giuristi, il ritorno al proporzionale è l’atto fondamentale per uscire dalla crisi della politica. Magari non sarà condizione sufficiente, ma necessaria sì. L’ubriacatura per il maggioritario da oltre un decennio a questa parte ha favorito il distacco del ceto politico, la personalizzazione, l’affarismo, l’incapacità di dare rappresentanza ai conflitti sociali. C’è poi chi vuole l’applicazione alla lettera dell’articolo 49 cioè l’imposizione per legge di statuti e norme democratiche interne. Il dibattito non è nuovo, ne discusse già la Costituente, ma questa sarebbe una lunga storia. Resta però il dilemma se i partiti possano trasformarsi in organismi democratici per decreto. Ma chi controlla i controllori?

Tonino Bucci, Tempi di bonapartismoultima modifica: 2009-02-11T20:19:00+01:00da mangano1
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