Ilvo Diamanti, Politica e bene comune

* la Repubblica, 13 febbraio 2009
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Benefattori anonimi
di ILVO DIAMANTI *

PERCHE’ la politica non si occupa più del “bene comune”? La questione è
molto dibattuta negli ambienti politici. Quasi che il problema non li
riguardasse. Ma, forse, è per chiamarsi tirarsi fuori. Sullo stesso argomento,
peraltro, si interrogano le associazioni e i circoli culturali. Come fa, in questi
giorni, l’Istituto intitolato a Vittorio Bachelet. Uno che al bene comune ha
dedicato e sacrificato la vita.

Ho, tuttavia, l’impressione che la discussione sia viziata da un equivoco di
fondo, riassumibile nel legame – dato per scontato – binomio tra bene comune
e politica. Attribuendo la (presunta) scomparsa del bene comune, dalla scena ilvo1.jpg
pubblica, alla politica. Corrotta. Oligarchica. Ridotta a marketing. A spettacolo
di bassa qualità, in onda a tempo pieno sui media. Il che è quantomeno
parziale e riduttivo. Anche accettando l’idea di una politica asservita alla
logica del marketing. Una politica che costruisce i messaggi e i
comportamenti in base alle preferenze espresse dal pubblico a cui si rivolge.
E si serve del Grande Orecchio Demoscopico. GOD. Il Dio dell’Opinione . E lecito il sospetto. Se la Politica, serva dell’Opinione Pubblica, non si interessa
al Bene Comune forse è perché il bene comune non interessa all’opinione
pubblica. Se non a parole. D’altronde, da molto tempo il Bene Comune gode
di reputazione modesta. E’ irreputato. Sotto diversi punti di vista e per diverse
ragioni, che riguardano entrambi i termini del concetto.

Anzitutto il Bene, da parecchio tempo, è considerato male. E guardato
peggio. Chi lo predica è considerato un idealista. Un cacciatore di nuvole,
visto che gli ideali sono vaporosi, mutevoli e viaggiano rapidi. Proprio come
le nuvole. Ma soprattutto: è ritenuto un debole. Vizio imperdonabile al tempo
dei “cattivi”, degli intolleranti, degli sceriffi, delle ronde, dei giustizieri. I nemici
del “buonismo” (il pensiero debole fondato sul bene) godono di grande
consenso, oggi, perché “rassicurano”. Solo i cattivi possono difenderci dai
cattivi che ci minacciano.

L’altro termine del concetto, Comune, è ancora più usurato. Non si sente più
nominare. Se qualcuno ne parla è solo per sbaglio. E, quindi, si scusa e si
corregge subito. D’altronde, veniamo da secoli di elegia del privato,
dell’individuo, della specificità e della differenza. Ciò che è in “comune” non è
di nessuno. Per cui è senza valore. Tanto più se viene associato – come
spesso capita – al Pubblico, che, a sua volta, è perlopiù associato allo Stato. E
tutto ciò che è Pubblico e Statale viene guardato con disprezzo. Pensate al
Pubblico Impiego. Agli Statali. Ai Professori. Genia di fannulloni. Peggio dei
romeni.

Si salva solo il pubblico con la p minuscola. La società intesa come una
platea di spettatori che assistono – indifferenti – alla politica, alla cronaca rosa
e nera, alle partite di calcio. Eternamente davanti agli schermi e ai media. Il
pubblico, lo Stato. La gente li invoca solo in caso di emergenza. Come pronto
soccorso. Dove si giunge in condizione di necessità e di urgenza e per
questo ogni intervento sembra sempre tardivo, ogni terapia inadeguata. Così
l’esasperazione e il risentimento, invece di sopirsi, si accendono ancor di più.

Per cui è difficile che la politica persegua il “bene comune”, guardato dalla
società con sospetto misto a dileggio. Certo, l’analista disincantato potrebbe
avanzare il sospetto che la realtà sia diversa. E osservare che il “bene
comune” non è scomparso. Anzi, muove i sentimenti e i comportamenti di
gran parte delle persone. Basta pensare all’agire altruista e solidale. A quanti
– tanti – fanno donazioni, dedicano parte del loro tempo ad attività volontarie.
A quanti – tanti – si impegnano, nel loro quartiere e nel loro paese – per fini
“comuni”. Nella tutela dell’ambiente, del paesaggio, in azioni caritative. A
quanti – tanti – si mobilitano a sostegno di valori universali. La pace, la
solidarietà, il lavoro.
Potrebbe, l’analista controcorrente, segnalare come il malessere sociale
dipenda, almeno in parte, proprio dalla povertà di spazi, luoghi, occasioni
dedicati al bene comune. Alla vita di “comunità”. Perché il bene comune non
serve solo al bene comune ma anche al bene(ssere) di chi lo persegue e lo
pratica. Perché agire in “comune”, per il bene “comune” soddisfa il “proprio”
bene; il proprio bisogno di identità, di riconoscimento. Perché abbiamo
bisogno di altruismo e di comunità. Ma, appunto, si tratterebbe solo di
provocazioni. Per scandalizzare e, magari, far parlare i media. Guai a dire
alla gente che è meglio di come è dipinta ed essa stessa si dipinge. Che,
anche se non lo vuole ammettere, se non ne vuol sentir parlare: contribuisce
al “bene comune”. Guai. Penserebbe che la prendi in giro. Peggio: che la
insulti e intendi metterla in cattiva luce.

Meglio rassegnarsi, allora. Essere duri, inflessibili. Dei mostri. Infelici. Almeno
in pubblico. E per consumare la dose quotidiana di “bene comune” di cui
abbiamo bisogno, meglio attendere. Quando e dove nessuno ci vede. Da
soli. O in associazioni specializzate. Gli alcolisti anonimi del bene comune. I
benefattori anonimi.

Ilvo Diamanti, Politica e bene comuneultima modifica: 2009-02-13T21:57:00+01:00da mangano1
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