Anna Maria Lo Russo, Fenomenologia di Barbie

da L’UNITA’ 18 febbraio 2009
anna maria.jpg
Fenomenologia di Barbie signorina di cinquant’anni
di Anna Maria Lo Russo

«Paura dei cinquanta», scriveva Erica Jong che stigmatizzava la condizione femminile, ossessionata dalla decadenza dell’invecchiamento. Varrà anche per Barbie, nata il 9 marzo 1959?
Anche Barbie deve iniziare a fare i conti con gli anni e con una realtà che è cambiata, popolandosi, ad esempio, di Bratz e Winx – un esercito di figure femminili piuttosto distanti dalla bellezza un po’ Marylin e un po’ Brigitte Bardot della nostra eroina. Perché Barbie era, come ogni bambola, lo specchio dei tempi, di quei tempi: l’America degli anni ’60, il baby boom, la ricchezza che iniziava a diffondersi…

«Il giocattolo significa sempre qualcosa, e questo qualcosa è sempre interamente socializzato, costituito dai miti o dalle tecniche della vita moderna adulta», scriveva Roland Barthes in Miti d’oggi. Il mito cui Barbie si ispirava era quello di una femminilità perfetta e compiuta, capace di coniugare bellezza, prestanza, ricchezza e felicità, realizzandole non in un mondo altro, e neanche in un mondo ampio ma nel mondo chiuso della quotidianità, nel mondo rassicurante della casa: la casa di Barbie, il regalo agognato da tutte le bambine (me compresa, naturalmente) degli anni 70 e 80.

Non più rosa o azzurro
In questo mix di realismo e artificio stava il suo fascino: una donna perfetta in un mondo simile al nostro – diverso solo nei colori (sempre rosa e bianchi, come si conviene a una bambina che si rispetti, a evitare qualsiasi rischio di incertezza sessuale): il mondo della cucina di Barbie, dell’armadio di Barbie, della piscina di Barbie, della consolle per il trucco di Barbie… Barbie aveva bisogno di questo contesto per assumere vita. Non creava mondi e scenari, ma richiedeva mondi e scenari, che si inseriva in piccole scenografie domestiche già pronte, e lì diventava capace di fare.

Quel che Barbie sapeva fare meglio era – come noto – vestirsi: Barbie aveva moltissimi vestiti, da mettere, cambiare e rimettere davanti a uno specchio che la restituisse sempre più bella, coi suoi capelli lunghi e biondo platino, i suoi occhi grandi e celesti, il suo fisico da pin-up, i suoi tacchi elegantissimi.
Ovvio che le femministe di allora non amassero troppo la proposta: supporto di inesausti pre-à-porter, vestale del focolare domestico, specchio di una femminilità che era perfetta proiezione dei desideri maschili. La personalità di Barbie, offerta alle bambine come un vero e proprio modello (Barbie è la donna che una bambina diventerà), era tutta affidata alla sua adeguatezza – tanti vestiti per ogni occasione, tante scarpe per ogni occasione, tanti piattini e tegamini per ogni occasione: la felicità del conformismo, l’importanza del fare una bella figura, la soddisfazione di essere come Ken la voleva.

Ma i tempi sono cambiati, si sa: sono passati cinquant’anni, e in questi cinquant’anni le donne si sono emancipate e l’idea di passare una vita in cucina fa orrore; generi e sessi si sono dissociati (e col dato di natura, sessuale, si sono combinati generi multipli, misti indecisi sfumati: il manicheismo del rosa e dell’azzurro non basta più); le razze si sono mescolate (o almeno confrontate). La Barbie non parla più la stessa lingua delle bambine di oggi, che si scambiano sms e talvolta chattano, vedono relazioni di coppia molto meno semplici e stabili di quella monogamica di Barbie e Ken, sono ossessionate da miti televisivi rispetto a cui Barbie è all’antica. A queste bambine le Bratz o le Winx forse parlano più direttamente. Anzitutto offrono loro un mondo plurale, così come è quello che vedono, fatto di ragazze dai colori dei capelli diversi, dalla provenienza diversa, dal carattere diverso.

Barbie era una e unica; le Bratz sono quattro; le Winx sei: non più un modello unico da imitare, ma diverse opzioni fra cui scegliere. Ognuna di queste opzioni, poi, ha un nome e una personalità differente: l’individuazione è importante; è bene chiarirlo fin dall’infanzia. E poi sono amiche; non vivono chiuse in casa e in funzione di Ken, ma vivono della complicità fra loro e del rapporto col mondo. Come le eroine di Sex and the City sono seduttive, ma sembrano poter fare a meno degli uomini; il gioco è loro, non il contrario. Le nuove bambole sono straordinariamente intraprendenti; se già Barbie segnava il passaggio dalla bambola-bambina da accudire e con cui giocare alla mamma alla bambola-donna da imitare, Bratz e Winx si spingono oltre: si pongono come amiche da emulare, con cui giocare a chi è più bella, più seduttiva, più brava, più… in un gioco al rilancio che è quello dell’individualismo agonistico del mondo contemporaneo.

Certo fra il mondo della Bratz e quello delle Winx passa un abisso – quello che separa un mondo iper-realistico, fatto di quattro ragazze dal look aggressivo e alla ricerca del successo, da un mondo favolistico, fatto di sei ragazze-angelo con le ali che abitano un mondo simile a quello del fantasy, in cui, anche se si hanno le fattezze di Britney Spears e Cameron Diaz, si inseguono sogni, si combattono troll cattivi, si realizzano talenti artistici. Ma pur fra queste differenze, Bratz e Winx guardano alla Barbie come a un’antenata memorabile ma superata, una delle sacerdotesse del trionfo dell’immagine, ma troppo lontana ormai dalla realtà per poter celebrare ancora successi.

Forse la Barbie è ormai destinata a entrare nell’olimpo delle dee, dei miti fondativi che ci hanno reso quali siamo – nel bene e nel male. Chissà se anche Bratz e Winx fra cinquant’anni saranno sullo stesso altare. Per ora stanno molto a terra, ma proprio per questo ci parlano di noi.

Anna Maria Lo Russo, Fenomenologia di Barbieultima modifica: 2009-02-21T21:56:00+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo