Marina Raccanelli,Due ma non due

da RIVISTA VDBD via delle belle donne
20 Marzo 2009
marina.jpg

Marina Raccanelli, Due ma non due

“Due ma non due” mi ha aperto squarci su mondi che potevo appena intuire: testimonianza di un convegno sull’arte negli anni post Basaglia e insieme catalogo di una mostra di art brut, mi ha trasportato a leggere ciò che a Genova (Loggia della Mercanzia, 28 novembre – 25 dicembre 2008 ) il pubblico ha potuto ascoltare, ed ho potuto vedere le opere di pazienti psichiatrici, qui esposte, conoscendo insieme la loro storia e la storia degli artisti che li hanno guidati a dipingere, ed hanno esposto insieme a loro.
Il libro porta quasi a respirare l’atmosfera di entusiasmo e di ricerca, di condivisione, di rottura degli schemi e delle gabbie concettuali e sociali, attitudine mentale tipica degli psichiatri, intellettuali ed artisti che operano in questo ambiente, e lo fanno ancora sull’onda della rivoluzione di Basaglia. Purtroppo, rivoluzione oggi involuta e tradita dai suoi mancati sviluppi: i pazzi, una volta legati e rinchiusi, oggi sono spesso abbandonati a se stessi, chimicamente sedati e soli in un mondo politicamente corretto ma indifferente.
Ci sono però ancora medici ed artisti convinti di dare ma, ancor più, di ricevere, da chi è considerato “altro” dalla società: il sacro folle del medioevo, il matto vivisezionato in categorie nell’Ottocento, il malato da separare con muri e celle, perchè non disturbi la vita dei “normali”, il pazzo da richiudere perchè non porti fuori i suoi germi di genuina sincerità.
Come Bobò, richiuso per 45 anni nel manicomio di Aversa e poi “adottato” da Pippo Delbono che lo associa alla sua compagnia teatrale, insieme a Gustavo Giacosa – organizzatore del convegno di Genova – e lo porta per il mondo in tournée, non per metterlo in mostra come fenomeno, ma per dargli modo di essere quello che lui veramente è, un attore nato, capace di insegnare agli attori professionisti il gesto vero, la presenza che impone il silenzio.
D’altronde il “maitre fou” costringe l’allievo ad esporsi a una crisi profonda: “la nostra ragione non è che una piccolissima isola (vulcanica, forse) nell’immenso oceano dell’irrazionale”, così scrive Delbono, denudato dallo sguardo di Bobò.
Ma costretto, anche, a imparare l’attitudine e i gesti, così leggeri e insieme pesanti, dell’accudire, occupandosi giorno dopo giorno dei bisogni del suo “maestro”; e qui ho pensato ad un’altra barriera abbattuta, quella dei secolari ruoli per cui l’uomo conquista “alte” mete, economiche e/o ideali, e la donna provvede alle piccole cose terra-terra, senza cui non si può vivere, e che sono nutrimento del corpo ma anche dell’anima.
Gustavo Giacosa, girando l’Europa per il suo lavoro teatrale, ha cominciato a scoprire che anche l’arte figurativa, con la pratica della pittura, della scultura, della ceramica, del disegno, del collage e delle tecniche miste, può curare e cura tuttora i malati mentali, con esiti clinici positivi, con il recupero umano di individui considerati prima scomodi oggetti da neutralizzare, ma anche con risultati artistici sorprendenti.
Così, ha continuato ad esplorare gli ateliers finalizzati a questo scopo, le esposizioni ed i musei dedicati agli artisti “outsider”; soprattutto, ha voluto parlare con chi aveva personalmente portato avanti queste esperienze, ed ha scoperto che nessuno può mentire ai “suoi amici matti” – espressione del pittore Michele Munno, dell’atelier “Adriano e Michele”.
Anche Munno parla della sua attività nel laboratorio come di un percorso nel quale spingersi continuamente fino ai propri limiti, imparando però, attraverso un interscambio continuo con questi amici particolari, molte cose che la gente “normale” non può darti.
A sua volta Riccardo Bargellini, pittore che conduce dal 1999 un laboratorio di arti figurative per il Dipartimento di salute Mentale di Livorno, ha saputo creare un ambiente accogliente e ricco di stimoli, capace di far uscire i pazienti dall’inazione e di farli sentire esseri umani apprezzati, in seguito anche artisti completi, cioè capaci di sviluppare ciascuno le proprie potenzialità.
Bargellini afferma di essere continuamente influenzato dai suoi “allievi”, dalla loro forza creativa “fuori legge”; parla di “mischiare percezioni ed invenzioni”, ed è la stessa sensazione che mi ha fatto provare la lettura e la visione di questo “catalogo”. Ad esempio, le figure allungate e senza sguardo, bianchi scheletri corretti da cerchi accoglienti, il cavallo verde che invano cerca di sollevare dal suolo zampe assurde, ma è consolato da infantili grafie sulla schiena e sullo sfondo: sono opere di Bargellini, non di un suo allievo.

Il suo allievo più famoso è Franco Bellucci, internato nel manicomio di Volterra per lunghissimi anni, violento ma solo contro gli oggetti, mai contro le persone; incontrollabile e incapace di badare a sé, nell’atelier di Bargellini ha riannodato letteralmente la sua persona con gli altri e con se stessa applicandosi alla costruzione di “oggetti-nodi”, fatti con i materiali più svariati, che vorrebbe tenere sempre con sé ma che poi scambia con altri oggetti da legare in pazienti e “necessari” intrecci di corde e spaghi. Squali, pecore, girasoli, due Big Jim. Ne hanno fatto una mostra intitolata “Les jouets de Hulk, in Belgio. La loro forza espressiva si espande spontaneamente dalle pagine, e ancor più – posso immaginarlo – dalla visione diretta.
Vorrei sottolineare che mi sento, di fronte a questo libro, in una posizione di assoluta umiltà: completamente profana in campo medico, psichiatrico e filosofico, dilettante (se pure è corretto, da parte mia, definirmi tale) in campo artistico, posso riportare qui solamente una serie di impressioni ed annotazioni ingenue e soggettive.
Detto in parole semplici, io leggo e tento di scrivere poesie, e guardo quadri: questa la mia esperienza. Ma ritengo che un libro come questo non sia pensato solo per gli specialisti, ma voglia aprirsi alle persone curiose in generale, analogamente al convegno ed alla mostra da cui è nato il libro.
A questo punto, aggiungo in ordine sparso ciò che più mi è rimasto dalla sua lettura; anche se sicuramente, ritornando su alcuni capitoli, potrò in futuro arricchirmi di nuove acquisizioni.
Essenziale il discorso di Giacosa sul dualismo, “morbo consustanziale al pensiero occidentale”, come lo definisce, e il concetto buddista di “funi”, “due ma non due”, “che esprime la manifestazione ambivalente e l’origine dipendente d’aspetti diversi di una stessa unitaria entità”.
Cito ancora Giacosa:
“Io sono “con” l’altro.
Io sono con la mia storia.
Io sono un altro.
E gli altri sono la mia storia.
Eterna metamorfosi dell’Uno originario.”
E ripenso agli “Uccelli” di Ruggero Cazzanello, allievo di Michele Munno (in questo libro, i termini “allievo” e “maestro” sono intercambiabili): sono due, dipinti in matita e acrilico, uno color terra su fondo cielo, l’altro azzurro su fondo terroso, forme dell’assenza secondo il modo di procedere di questa coppia di artisti che usavano tracciare un segno intorno alle persone e agli oggetti prima di dipingerli.
Ripenso anche al “Ritratto di un amico”, di Munno, doppio anche questo, due volti terrosi con gli occhi vuoti.
Penso alla stanza con due letti di Guido Boni, ricoverato fin da bambino in vari istituti e poi attivissimo talento nel Centro di Attività Espressive La Tinaia, dove tuttora continua a dipingere. Il suo quadro è stato giustamente scelto per la copertina del libro.
Voglio ricordare infine l’ultimo capitolo, “Il piacere terapeutico” di Marco Ercolani, psichiatra e scrittore, capitolo per me particolarmente interessante per due motivi: il taglio della scrittura, molto diretto e coinvolgente, e il calore di contatti ed esperienze umane, che emanano le sue pagine.
Mi ha interessato in particolare un argomento, l’uso della scrittura come terapia. Un gruppo di malati psichici viene stimolato da un’opera difficile, l’”Ombra del doppio” di Bernard Noel, presentata da Marco Ercolani: i pazienti ascoltano, restano sorpresi soprattutto dalla lettura ad alta voce, a loro volta tentano brevi versi, dialogano fra loro e con il medico-poeta, accettano correzioni, migliorano i loro semplici testi.
Uno solo, tra loro, non vuole saperne di scrivere, e, se scrive, brucia i fogli. Le sue reazioni critiche sono pesanti. Ma, l’unica volta che legge, per sfida, una sua poesia, è di un ermetismo fulminante. Non parteciperà più al laboratorio di scrittura, perchè non vuole essere capito.
Poi c’è Lorenzo, che scriveva poesie con febbrile impazienza ed è morto suicida. A lui Marco Ercolani dedica le ultime parole del suo articolo, ultime anche di questo libro:
“Dovere di chi la ascolta – mio dovere con Lorenzo – è stato sentire quella “sua” voce, è stato essere insieme a lui, “due ma non due”, con la sua personalissima sofferenza e con la sua personalissima arte. E non smettere, oltre l’evidenza della morte, di esserci ancora, oggi.”

Marina Raccanelli,Due ma non dueultima modifica: 2009-03-23T23:53:00+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo