Gloria Gaetano, UNA LETTERA ( racconto)

gloria.jpgL’uomo in compagnia della sua birra sconsolata mi osserva stranito. Sono una donna che scrive in un aeroporto, alla luce livida di una lampada al neon; forse la stessa luce piove anche sui miei pensieri, sul mio volto, che l’uomo guarda, come sempre gli uomini guardano il volto delle donne, per cercarvi la conferma di un’emozione. Ma dal mio volto, chiuso in silenzioso dialogo col foglio, non ne trae evidentemente nessuna. Così si ritrae pudico, gentile; all’apparenza è uno straniero, forse un manager, che, chissà perché, oggi, si trova in questo aeroporto. Un uomo che beve una birra e mi guarda, mentre mi avventuro nel precipizio del mio amore per te, che oggi urla, protesta.
L’amore ha i suoi differenti toni, i suoi variegati registri, non sta quasi mai in silenzio. Non è taciturno, ma parla, strepita, canta, inveisce. Ferisce,non solo l’orecchio. L’amore è talvolta violento, non è solo l’infante Cupido con le sue frecce, lievi come una punta di spillo, che accendono un’eccitazione leggera. L’amore può essere forte e solido come quello di Vulcano, che forgia catene…ha mille nomi e mille tipi di frecce. E potrei descrivertele tutte, ad una ad una, ma oggi cerco il vero volto del mio amore per te, un amore diverso da quelli che ho conosciuto. Tanto diverso, che a volte mi sembra che sia un genio particolare un demone differente da quello che mi lega a te. Se ogni amore ha una propria musica, il nostro risuona stranamente vuoto, cavo. È un amore privo di vibrazioni, non rimanda echi, ha piuttosto la potenza silenziosa della forza di attrazione di una calamita. Com’è nato, lo ricordi, il nostro amore? E il nostro primo incontro?
gloria1.jpgL’uomo con la birra si è alzato. Si allontana barcollando leggermente: hanno annunciato il suo volo. ‘Hamburg’ ha detto la voce, e lui s’è alzato, come se avessero chiamato proprio lui, come se quello fosse il suo nome. Si torna a casa così, ubbidendo al suo richiamo, come il cane al fischio del padrone. Io però non torno a casa, vado in un luogo che mi è familiare, ma non è casa mia.
Ora una voce chiama anche me, il mio volo parte. Mi avvio, mentre il crepuscolo addolcisce le forme spigolose di questo aeroporto, verso il grande ventre dell’uccello che mi terrà in volo. In aria mi viene sempre una certa sonnolenza, e non ha a che fare con la paura, ma con una sensazione che amo, quella di essere dentro a un grembo, a una grande bolla che per un certo tempo mi sigilla in uno spazio assoluto, separato da tutto.
Apro il libro che ho con me, ma non leggo, guardo le parole come fossero segni animati che scorrono sulla pagina; non lettere, ma disegni arabeschi. Non veicoli di un significato, ma pure forme. Non ho voglia di leggere. Continuo il mio colloquio con te.
Da certi capogiri, che a volte mi colgono, direi che la mia mente sì, è femminile: se è femminile una mente che vaga indecisa nei meandri del desiderio e della memoria, incostante, perplessa, sempre in contraddizione con se stessa, prensile, mobile, incline al sogno e all’illusione più che ai progetti, capace di visioni e di freddezza raziocinante, che sa quello che vuole, e poi, improvvisamente, stordita scoraggiata. Diana e Pandora unite nella mente di ogni donna.

Ho nostalgia di te, non solo ora che sono lontana, ma perfino quando mi sei accanto e mi abbracci. Ma non credo sia come dici tu: che, accanto all’amore sano c i sia quello morboso. Amore è sempre ferita e taglio, sconvolgimento della persona. Il caso che ci ha avvicinato potrebbe riprendere a girare nel senso della distanza. C’è nel cosmo un grande movimento che avvicina, e un altro che distoglie. C’ è questo grande vento che ci trascina e spinge giù per questi corridoi d’aria, come fossimo foglie.
Entro in una libreria, giro distratta tra i banchi e gli scaffali, non so neppur io cosa cerco, finché mi attrae il titolo di un romanzo Die Frau ohne Schatten, La donna senz’ombra. Sarà perché mi sento fin troppo piena d’ombre, ma non resisto lo prendo, mi dirigo alla cassa e, dopo aver pagato, lo infilo veloce in borsa; e non mi sento più sola, mi avvio all’albergo contenta, quasi avessi con me un talismano o un compagno, un amico che mi consolerà nella notte inquieta che mi aspetta.
In un libro mi è capitato a volte anche di riconoscermi, come e più di uno specchio, mi ha spesso offerto l’immagine della mia anima. Accadrà anche stanotte? Entro nelle lenzuola e nelle pagine e prendo il largo nell’avventura del temibile, pericoloso passaggio attraverso la notte.
Stanotte cadere in quell’immensa assenza di me a me stessa che è il sonno, mi spaventa. Vorrei una mano che tenesse la mia. Darei la mano a qualcuno, come da piccola la davo a mio padre, quella gioia sicura della protezione, ecco, cosa vorrei.
Mi ero ripromessa di scriverti una lettera. E in effetti te la dovevo quella lettera. Ci ho pensato in tutti questi anni, anche in giro per città sconosciute; scrivevo poesie, appunti, aforismi. Tutti facevano parte della lettera che dovevo inviarti.
Lungo boulevard Jourdan, presso uno degli ingressi della Cité Universitaire, c’è un café che molti anni fa ero solita frequentare.Ieri ci sono arrivata col mio passo mattutino, a quel piccolo café di una volta. E l’ho trovato, non era cambiato per nulla: gli stessi volti giovanili, i vividi sguardi di studenti che studiano su quei tavoli, fino a quando non chiude il caffè. Ora si vestono in maniera diversa; la musica che ascoltano è anch’essa differente, alla moda di oggi. All’ultimo piano ‘Section Nostalgie’ si possono ascoltare le canzoni dei miei verdi anni , Pétite Fleur, Boris Vian, Léo Ferré. Ho pensato a una tua frase: de la musique avant toute chose. E mi sei venuto in mente tu. Ho cominciato a prendere appunti sul mio tavolino, ma tu eri lì dinnanzi alla mia testa china.
Prima di partire mi avevi lasciato un biglietto ‘aperto’, come dicono le agenzie, che mi avrebbe permesso di tornare sull’isola, quando avessi voluto. Ho preso il biglietto e sono partita sul battello, senza dirti nulla. Tanto sarei tornata quando volevo, appena potevo. E adesso, dopo tanto tempo, sono qui a tentare di scriverti. Tutte le mie poesie, i miei scritti non erano altro che frammenti che andavano a comporre questa lettera, ‘quella’ lettera, che tutti noi abbiamo sempre pensato di scrivere in certe notti insonni, o seduti al caffè come in questa giornata opaca., e che invece abbiamo sempre rimandato al giorno dopo. ‘Quella’ lettera con la quale ci illudiamo di riempire quella distanza che ci separa dall’altro, di riempire un vuoto ,che esiste, un altro tempo, un altro luogo, dove va a inserirsi; mentre per noi è realtà, vita vissuta, momenti condensati in quelle ore in cui la scriviamo. Parole vane, inutili, dicono di tempi, paesi diversi da quelli che l’altro sta vivendo. Ma una spiegazione te la dovevo per quella notte, per quello che è successo, per la mia improvvisa lontananza. Quel mio sogno e mia figlia: quella bambina che sembrava recitare una cantilena, e invece era una preghiera a un suo ricordo di bambina con gli occhi scuri e le treccine nere. “Angelo di Dio, che sei il mio custode, proteggi e custodisci me…”. La bambina girò le spalle e si guardò nello specchio dell’armadio: era un piccolo angelo custode che, alle spalle di una donna inginocchiata, teneva le ali spalancate in segno di protezione. E aveva il volto di una bambina con gli occhi grandi e le treccine nere. Ma era il viso di una bambina vecchia e le ali non avevano piume, ma un pelame scuro, raso come quello di un piccolo animale domestico. Guardai un attimo nello specchio, era già sparito.
Afferrai allora il cellulare: dovevo chiamare la mia bambina! E più tardi, alle prime luci del mattino, preso il biglietto ‘aperto’, ero già al molo. Non ti avevo detto niente, né del sogno, né della mia bambina: mi avevi promesso un’altra vita, un’altra casa. I miei libri tutti pubblicati. Credevi che sarei tornata presto: eri sicuro e tranquillo. Ma mi avevi anche raccontato della moglie suicida, dei figli che vagavano tra varie città, dei quali non sapevi più niente. Non potevo dirtelo. Ma sull’aliscafo, mentre guardavo il mare agitato, decisi di non tornare subito a casa, mi recai all’ aeroporto e attesi l’aereo per Parigi.
Mi aspettava una vita diversa, ma non quella che mi avevi offerto tu, piacevole, gratificante, né quella che avevo trascorso fino ad allora a Napoli, ma una vita di dedizione totale, di cure, di attenzione completa a colei che più mi era cara al mondo, l’offerta del mio tempo, fino alla fine non più mio. I miei viaggi, da allora in poi, sarebbero stati solo con lei, le mie amicizie divise con il mio angelo spazzacamino, tutto insieme a lei, la mia amica, la mia vita, la figlia bellissima che la natura, il caso o il destino avevano affidato a me. Non potevo dirti questo. Nessuno avrebbe donato la sua speranza per questa vita. Nessun uomo, almeno.
Non l’ho più scritta quella lettera, né quella volta a Parigi, al caffè della cité, né di nuovo in Francia con mia figlia, né all’aeroporto. Sono passati anni, ma ora ho cominciato: ho raccolto frammenti poesie appunti, li ho montati insieme, riempiendo gli spazi privi di collegamento, e, alla fine ho detto tutto. Il vuoto è stato colmato, infine, non resta che spedirla. Ma non mi aspetto niente, neanche una risposta.
E’ passata una settimana. Solo in una stanza, un uomo, dietro una finestra, ha una lettera in mano. Io vedo la scena, so che la leggerà. E’ in piedi, come nel quadro di Vermeer; la differenza è che si tratta di un uomo. Il capo è leggermente chino, la faccia tesa, concentrata sulle parole che lo legano alle pagine. È evidente che non si aspettava quelle lettera lunga, troppo lunga, che lo investe con un’alluvione di emozioni. La donna che scrive lo coinvolge così interamente dentro la propria vita, che lui annaspa, si sente soffocare.
Ogni tanto guarda fuori la finestra, come per riprendere aria. Riconosce il dono che lei gli sta facendo, la grande generosità dell’analisi spietata di sé. E’ sincera.
Ma l’uomo non sa se potrà farsene qualcosa di un cuore nudo, non è detto che di una donna sia proprio quella parte a interessargli. Eppure quella lettera è pericolosa, lo sente. È scosso, a tratti trema, ora s’affretta, ora esita. A un tratto si rasserena: le parole che legge lo avviluppano in una rete, lo ammaliano
Come il canto delle Sirene, ha paura, e insieme vuole leggerle, gustarsele tutte, a una a una.
Così ho visto la scena di te che leggevi. Così l’ho immaginata. Ma non è stato così. Tutto è andato diversamente da come avevo previsto: quella lettera non l’hai mai ricevuta. Ma il destino, o il caso, ha agito in altro modo, contrario e in direzione opposta. Ho ricevuto io una tua lettera, alcuni giorni dopo, che mi ha sorpresa e commossa e che ha immesso nella mia vita una nuova speranza, una certa insolita allegria.
“Mia dolce e carissima donna, anzi, amatissima donna, perché questo è ciò che il nostro incontro ha provocato: amatissima, e non carissima. Mentre ti scrivo, immagini e parole affollano la mia mente, come quando si resta imprigionati in un sogno: le tue spalle, che ti circondo con le braccia nella semioscurità, le parole che mi sussurri all’orecchio, il contropiede che mi fai nella conversazione notturna, gli scoppi di risa simultanei, per le tue scemenze che tanto ti piacciono, il tuo modo di toccarmi la nuca. E queste immagini che ti descrivo, amatissima, sono di rimpianto e di rammarico, perché nessuno potrà ridarmi quello che ho lasciato colare tra le dita degli anni, nessuno potrà restituirci ciò che abbiamo perduto solo perché io non ho avuto la forza di non perderlo. Ma forse lo ritroveremo, questo tempo perduto, mio dolce amore, io so che lo ritroveremo. Oggi sono sicuro che questo piacere continuerà per sempre. Ho solo il piccolo disappunto che domani, in questa festa dell’Ascensione che segna l’entrare di giugno, non vedremo insieme le spighe di grano quasi mature che si vedono da questa finestra. Ma capisco che non puoi venire, perché forse stai scrivendo ancora quel racconto e cerchi i documenti che ti occorrono, le testimonianze adatte, per finirlo.
Ti aspetto dunque la sera del tre giugno, quando il biondo delle spighe non sarà certo più giallo di quanto non fosse ieri. Il tempo per me si è fermato,sai?”
Questa lettera aveva una data precedente alla mia. Mi giunse insieme alla notizia, appresa dai giornali, da tutti i i telegiornali, che avevi avuto un incidente automobilistico ed eri ricoverato a Bologna, in coma. Senza speranze. Non ho fatto in tempo a raggiungerti, ma ti ho cercato dovunque, nei posti dove siamo stati insieme, quelli che tu amavi, solo che vorrei averti ancora per qualche ora accanto, per dirti che le serate sono lunghe, lunghissime, quasi infinite, ma che il mio cuore reagisce come una volta, e a volte, a una musica, a un suono, comincia a battere all’impazzata. Però se la notte mi sveglia, per far calmare quei battiti mi alzo e vado in sala da pranzo, accendo una candela gialla, perché il giallo è bello nella penombra, e leggo ‘Dolce e chiara è la notte e senza vento’, e quelle parole mi tranquillizzano, anche se il vento là fuori agita i rami degli alberi. E allora ti direi che non sapevo che il tempo non aspetta, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e che basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra a macchia e si perda. E ti direi che quel tempo che era così rapido, ora è lunghissimo, soprattutto sul far dell’inverno, quando la sera cala a tradimento e le luci che non aspettavi si accendono nel villaggio, e ti direi di certi fiumi che abbiamo visto scorrere pensando che essi scorressero soli , senza accorgerci che noi scorrevamo con loro. E ti direi anche che ti aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare. E ti direi guarda c’è stato tutto questo nel frattempo e che ciò che abbiamo vissuto separatamente non potrà essere d’ostacolo quando leggerai la lettera che ti ho inviato. Là c’è scritto tutto. Ma , lo so, non ti è mai giunta anche se so che tu hai sentito le mie parole, lo so.
Lettera al vento
Sono sbarcata in quest’isola alla fine del pomeriggio. Dal ferry vedevo il porticciolo avvicinarsi, con la cittadina bianca appollaiata intorno al castello e pensavo: forse è qui. Nella piazzetta sotto il castello, c’è un ristorante popolare, con vecchi tavolini di ferro lungo un muricciolo, due aiole con due olivi e gerani molto rossi in vasi rettangolari. Dei vecchi siedono su un muricciolo e parlano basso, bambini corrono intorno a un busto marmoreo di un eroe delle guerre balcaniche. Ho ordinato il piatto tipico dell’isola, coniglio con cipolle profumato alla cannella.
Ti ho cercato, amore mio, in ogni atomo di te che è disperso nell’universo. Ne ho raccolti quanti mi era possibile, nella terra, nell’aria, nel mare, negli sguardi, nei gesti degli uomini. Il mare è giù, grande infiniti chilometri, e la piazzetta pochi metri quadrati, e intanto mi ricordo di poesie che parlano di mari e di piazze, e così, mentalmente ti cerco nello scintillio di quel mare perché tu l’avevi visto, negli occhi del merciaio, del farmacista, del vecchietto che vende caffè ghiacciato, perché ti avevano visto. Anche queste cose le ho messe in tasca, in quella tasca che è me stessa e i miei occhi.
Tutto ho raccolto di te: briciole, frammenti, polvere tracce, supposizioni, accenti restati in voci altrui, qualche grano di sabbia, una conchiglia, il tuo passato immaginato da me, il nostro supposto futuro, ciò che avrei voluto da te, che mi avevi promesso, i miei sogni infantili, certe sciocche rime della mia giovinezza, un papavero sul ciglio di una strada polverosa. Anche quello ho messo in tasca, sai?, la corolla di un papavero, come quelli che andavo a cogliere sulla collina con la mia Volkswagen, mentre tu stavi a casa pieno di progetti, mentre io ti raccoglievo papaveri che non sapevi capire. Tutti i luoghi ho visitato, ma questo è l’ultimo. Chi ti potrebbe cercare ancora se non io?
Non si può tradire così, tagliando il filo. Ti sei consegnato al tuo Minosse, che credevi di aver beffato ma che alla fine ti ha inghiottito. E ora sono qui, seduta al tavolino di questa terrazza, guardando inutilmente il mare e mangiando coniglio al profumo di cannella. Un vecchio greco indolente canta una canzone antica.
Ci sono gatti, bambini, due inglesi della mia età che parlano di Virginia Woolf, e un faro in lontananza di cui non si sono accorti. Io ti ho fatto uscire da un labirinto e tu mi ci hai fatto entrare senza che per me ci sia via d’ uscita, neanche se fosse quella estrema. Perché la mia vita è passata e tutto mi sfugge senza possibilità di un nesso che mi riconduca a me stessa o al cosmo.
Sono qui, la brezza mi accarezza i capelli e io brancolo nella notte, perché ho perso il mio filo, quello che avevo dato a te, Teseo.

Gloria Gaetano, UNA LETTERA ( racconto)ultima modifica: 2009-03-24T17:30:00+01:00da mangano1
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Un pensiero su “Gloria Gaetano, UNA LETTERA ( racconto)

  1. Racconto avvincene, anche coinvolgente, esposto in modo mirabile sia per il contenuto, dai tratti veritieri, ma sotto forma di “fiaba”, dal fine non lieto, ma ugualmente bello, sia come lessico, ben strutturato e aulicamente esposto, con notevoli citazioni letterarie.Complimenti all’autrice!

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