Silvia Boschero, Kurt Cobain venti anni fa

da L’UNITA’ 25 marzo 2009

Cobain e gli ultimi maledetti del rock. Vent’anni fa lo schiaffo chiamato Grunge
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di Silvia Boschero

Venti anni dal primo disco dei Nirvana, Bleach, 1989. Quindici dalla morte prematura di Kurt Cobain, il prossimo 5 aprile. Anniversari per celebrare qualcosa di unico, anzi, c’è chi dice, l’ultimo vero colpo di coda della musica non industriale.
Bleach, candeggina in inglese, sbiancò letteralmente tutto ciò che stava attorno; c’era solo il nero della sua cupezza e il rosso della sua forza. Erano anni che non si sentiva qualcosa di così violento, ferocemente disperato e autodistruttivo. Il grido di Kurt fu subito adottato da una generazione intera, quella a cui fu appioppata la X in faccia. La generazione disillusa che usciva in apnea dagli anni Ottanta, quella senza gli occhi per intravedere oltre l’orizzonte cortissimo lasciato dal vuoto pneumatico dei fratelli maggiori.

MUSICA FATTA COL SANGUE
Dallo yuppismo, dal mito del «self made», dall’edonismo, dai sintetizzatori, dalla musica usa e getta. Bleach era l’ultimo grido della musica fatta col sangue, la disperazione a buon prezzo: seicento dollari scarsi di budget. Era musica vera, era innanzitutto un demo-tape di Kurt il ribelle, e il suo schiaffo, il suo grido punk, primitivo, nichilista, i suoi ventidue anni emarginati e la sua voce indolente. Era il non riconoscersi, il rinchiudersi nella cantina, il vomitare contro tutto e tutti. Era la purezza di un tormentatissimo talento del rock. Era lui e anche ciò che gli stava attorno, e che aveva cominciato a bollire qualche tempo prima. Una città del nord ovest degli Stati Uniti, fredda e laterale, Seattle. Una giovane etichetta ultra indipendente, la Sub Pop, che l’anno precedente aveva dato alle stampe la sua prima compilation con dentro anche i Sonic Youth e Steve Albini. C’erano ragazzi che giravano per le strade con le chitarre in spalla e senza l’ambizione di farsi sponsorizzare da una linea di abbigliamento (oggi tutto il rock alternativo è stato fagocitato dal marketing delle multinazionali) ma che di lì a poco (come già era successo 20 anni prima dopo il Sessantotto), sarebbero stati recintati fino alla santificazione commerciale definitiva, la morte in passerella, con le camicie di flanella a scacchi e la maglietta lisa sotto a sformare i corpi esangui dei modelli di qualche stilista trendy.

Il grunge, in quel 1989 dell’uscita di Bleach, di fatto era già nato; l’anno prima, nella seconda compilation della Sub Pop c’erano i pezzi dei Soundgarden, dei Mudhoney, dei Greenriver, degli Screaming Trees e di molti altri, tra cui gli stessi Nirvana. Erano band che da anni rimestavano nel torbido della loro post-adolescenza; si ispiravano all’hardcore californiano, ai Dead Kennedys, ma anche allo stile chitarristico di Neil Young e dell’hard rock anni Settanta (i Pearl Jam soprattutto, che in questo giorni danno alle stampe quattro edizioni diverse super lusso del loro esordio Ten), allo schiaffo dissacrante del punk dei Ramones, a un archetipo di non omologazione necessario, urgente, dopo la bulimia plastica che aveva seppellito il decennio precedente.

MAGMA DI GENERI
Difficile mettere tutte le band sotto uno stesso ombrello, perché in realtà ciò che è stato chiamato grunge è un eterogeneo magma di generi e gruppi, alcuni molto sopravvalutati in virtù della loro appartenenza geografica. In comune forse (come tanti scrivono in queste ore su Facebook ispirati dall’anniversario dei Nirvana) quell’«approssimazione stilistica e quell’emotività del suono delle parole, più del loro significato» e ancora «quell’energia prima dello stile, l’emozione inconsapevole quindi rabbia, voglia di vivere».

Voglia di vivere. Forse per questo il grunge ha lasciato una pletora infinita di orfani. «Perché – ancora da Facebook – era tutto quello di cui avevamo bisogno in quegli insipidi anni ’90. All’epoca tutti si trattenevano, era come avere una benda in bocca, e il grunge ha sciolto i nodi, ci ha permesso di urlare e vomitare ogni malessere. Ha avuto la funzione sociale di farci sentire vivi».
Le vendite di Bleach furono scarse, il successo vero sarebbe arrivato quasi di pari passo al fagocitamento massmediatico: quello di Nevermind e soprattutto quello del Live di Mtv, testamento di un tristissimo Cobain in cardigan. Forse per questo il grunge è stato soprattutto i Nirvana. Per quell’inizio e quella tremenda fine da emarginati. Dalle chitarre in cameretta ad un calibro 20 in una serra vuota. Il grunge, quello vero, aveva le mani occupate per limitarsi a celebrare se stesso.
25 marzo 2009

Silvia Boschero, Kurt Cobain venti anni faultima modifica: 2009-03-25T22:12:00+01:00da mangano1
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