Gianfranco Capitta, La risata di Paolo Poli

da IL MANIFESTO 26 APRILE 2009

Malinconica e spietata la risata di Paolo Poli
«Sillabari» da Parise all’Eliseo
gianfranco.jpgBisognerebbe vedere periodicamente gli spettacoli di Paolo Poli, per riconsolarsi e capire ogni volta cosa sia il teatro. Tutti conoscono l’attore fiorentino, alla sua rispettabile età (che non sembra poter incidere sul suo corpo d’attore, anzi ne aumenta sfumature e ricchezza) e dopo innumerevoli spettacoli che ormai da mezzo secolo scandiscono la storia del nostro paese. Che lui continua a smascherare e raccontare quasi da un privato «buco della serratura»: non con voyeurismo, ma riuscendo a entrare ogni volta nell’intimità esistenziale di ciascuno. E riuscendo ad addolcire la pillola con una comicità irrefrenabile, che fa applaudire entusiasta, tra risate sgangherate e battimani interminabili, quello stesso pubblico che in qualche misura dovrebbe preoccuparsi, essendo di quelle deformazioni protagonista, bersaglio e vittima.
Da qualche tempo questo genio del teatro, maestro da sempre di meravigliose riscritture assieme alla mitica Ida Omboni, ha deciso di attingere direttamente alla migliore scrittura letteraria. Era stato così per i Sei brillanti (articoli di grandi firme di corrosivo bon ton del novecento, da Irene Brin a Aspesi), succede ancora con la messa in scena dei Sillabari di Goffredo Parise (all’Eliseo fino al 10 maggio).
Scritti dall’autore a partire dagli anni quaranta e fino ai sessanta, usciti prima in due volumi poi raccolti da Adelphi, i Sillabari sono mirabili variazioni sul tema dei sentimenti. Come un vero abbecedario, percorrono l’alfabeto, pur se dalla A di amore si fermano non casualmente allagianfranco1.jpg S di solitudine. Sono 54 racconti che costituiscono probabilmente il capolavoro di Parise, per la malinconia spietata che li percorre, per la grazia che non consente elusioni, soprattutto per la lingua elegante quanto naturalmente poetica.
Paolo Poli, che appartenendo alla stessa generazione dello scrittore ne ha condiviso conoscenze, speranze e disillusioni, si muove su quella scrittura con agio naturale. Ne possiede la stessa eleganza, ma non può fare a meno di esercitare una qualche impertinenza, altrimenti non sarebbe più lui. Ne esplicita con una occhiata, o un colpo d’anca, o di mano, eventuali sottintesi, che pure aggiungono paradossalmente malinconia al tessuto narrativo di Parise. I racconti sono semplici, vere variazioni musicali sul filo esile di un rapporto o di una situazione. Bambini davanti ai loro padri che prendono lo spessore di un vissuto critico, vecchie signore o giovani ragazze, da quelle ingessate dell’Italietta alle bellone affluenti del boom.
La generazione di Paolo Poli, ovvero di Parise e di Arbasino, ovvero anche di Laura Betti e Pasolini, ha avuto traumi e privilegi, ha visto orrori, ma anche scoperto un mondo ricchissimo di umanità e persone, un mondo che oggi sembra annacquato e disciolto nell’acqua torbida. Il titolo stesso pedagogicamente scelto da Parise per i suoi racconti, conteneva già la coscienza che molto andava perdendosi, e bisognasse riappropriarsene da capo. Paolo Poli lo fa da maestro: con le canzonette e le canzonacce scelte assieme a Jacqueline Perrotin, i balletti dei suoi 4 boys pronti a ogni travestimento (della inesauribile Santuzza Calì) e ad ogni sberleffo; con la grazia matura di chi conosce le regole del palcoscenico. Dove i disegni giganti e geniali di Emanuele Luzzati cedono il passo ad altre suggestioni forti del secondo novecento, da De Chirico a Hopper. Su quegli scenari Poli non lesina sapienza e malizia, si traveste e finge di coinvolgersi, così come finge stupore e sorpresa. Sembra si prenda in giro, ma è ben chiaro che sono i migliori anni della nostra vita.

Gianfranco Capitta, La risata di Paolo Poliultima modifica: 2009-04-28T19:26:00+02:00da mangano1
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