Fabio Pozzo, Il miliardario che combatte

24/5/2009 – LA STAMPA

fabio pozzo, Il miliardario che combatte le isole di plastica
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Dopo aver scoperto nel Pacifico i «continenti di rifiuti». Charles Moore ha scelto il destino di spazzino del mare

GUARDA i suoi occhi, ti dicono sul molo di Long Beach. Sono quelli di un sognatore, lucido però. Quelli di un uomo che ha scoperto il «sesto continente» e che ha rinunciato alla ricchezza per inseguire il sogno di disegnarne i confini. Charles Moore, californiano da tre generazioni, una barba che s’è fatta bianca sul mento, a incorniciare un volto segnato dal sole e dalla salsedine, nasce bene. La sua è una famiglia di petrolieri, il papà è un industriale chimico. Lui è il classico ragazzo fortunato, anzi miliardario. Si laurea a San Diego in chimica e spagnolo, e si getta a capofitto nel business. Forniture di arredi e settore ittico, principalmente. E poi, il mare. Come gli ha insegnato il padre, portandolo sin da piccolo a veleggiare verso mete remote, dalle Guadalupe alle Hawaii. Una passione dirompente. 

Tanto che nel 1994, dopo aver corso per un quarto di secolo tra contratti e bolle di consegna, decide di svoltare e fonda l’Algalita Marine Research Foundation. Un anno dopo vara «Alguita», un catamarano per la ricerca oceanografica in alluminio. Salpa da Hobart, in Tasmania e organizza la sua prima spedizione, finalizzata a monitorare la contaminazione antropogena delle coste australiane. Ma è nella primavera del 1997 che la sua vita cambia davvero, radicalmente. Lo racconta lui stesso: «Durante una regata, di ritorno dalle Hawaii, decido di navigare in una zona poco battuta del Pacifico, perché solitamente ci sono venti deboli e alta pressione. Per tali ragioni, sin dall’antichità è sempre stata evitata dai velieri. Quei marinai la chiamavano “the horse latitude” (la latitudine o rotta dei cavalli), perché ci sarebbero voluti proprio questi animali per muovere una nave nelle “piatte”». 
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E’ così che Moore s’imbatte nel «Pacific trash vortex». Per caso. «Un minestrone di spazzatura. Miglia e miglia di navigazione, salivo in coperta e intorno a me vedevo solo plastica: reti, buste, spazzolini, penne, accendini, bambole. Ogni porcheria che abbiamo gettato in acqua negli ultimi cinquant’anni» racconta. «Da quel momento la mia vita è cambiata. Dovevo fare qualcosa per far conoscere questa realtà». Questa, la genesi. L’ex industriale vende tutto, compreso la sua quota di eredità, e si dedica anima e corpo a questa iniziativa. Ma deve aspettare dieci anni, e sommare diversi viaggi di esplorazione (il primo nel 1999), perché la notizia del «sesto continente» arrivi al grande pubblico. I giornali parlano di un grande «blob» di rifiuti, la più grande discarica del pianeta. 

Centomila tonnellate, un ammasso di plastiche che il mare ha polverizzato ma non è riuscito a digerire, dal diametro di 2.500 chilometri, che galleggia a qualche metro di profondità (i satelliti non riescono a localizzarlo). Mescolato, «like a soup» come dice Marieta Francis, il direttore esecutivo della fondazione, da «the Gyre», il vortice del Nord Pacifico, una delle più potenti correnti circolari oceaniche, dotata di un particolare movimento a spirale orario che permette alle particelle di rifiuti di aggregarsi fra di loro. Un «minestrone» micidiale. Queste molecole immonde apparentemente assomigliano a zooplancton, la vita animale dominante nell’area. Di cui si cibano i molluschi: così, il «blob» tossico entra nella catena alimentare. Pesci, delfini, tartarughe, uccelli marini. E, in cima, l’uomo. In realtà, il «continente di plastica» non è tutt’uno: c’è una massa orientale, a sud-ovest del Giappone e una occidentale, a nord-ovest delle Hawaii. 

Curtis Ebbesmeyer, un oceanografo, le paragona alle membra di un gigantesco organismo vivente, che si «divincola come un grosso animale senza guinzaglio» e che quando approda sulla terra, come succede nelle Hawaii, «è come se vomitasse confetti di plastica sulle spiagge». Le «isole» di spazzatura, prese insieme, si spingerebbero dalle coste giapponesi a quelle californiane, ma in verità nessuno è ancora riuscito a determinarne con esattezza i confini: chi dice che insieme sono grandi come il Canada. Si ignora anche la loro origine: secondo un recente rapporto della Fao e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), milioni di prodotti costituenti rifiuti vengano rilasciati in mare ogni giorno (6,4 milioni di tonnellate l’anno) e secondo gli scienziati l’80% dei detriti marini avrebbero origini da insediamenti terrestri (il resto è gettato o caduto da navi). Qualcuno, seguendo il gioco delle correnti, dice che i rifiuti potrebbero arrivare da nord, dallo stretto di Bering. Ipotesi che non fermano Moore. L’ex miliardario è pronto a ripartire. Il 10 giugno salperà da Long Beach per un nuovo viaggio: si spingerà sino ai confini del «continente», e in particolare della massa occidentale del «blob». 

Navigherà sei settimane, concentrandosi sulle Hawaii, dove studierà l’impatto dell’inquinamento da plastica su quest’area e sui suoi abitanti: foca monaca, tartarughe, uccelli marini. Poi, a settembre, riprenderà il mare per celebrare i dieci anni di attività nel «blob»: un modo per confrontare i dati di allora con quelli di oggi, e tirare le somme. Moore si concederà una pausa solo ad agosto, ma sempre sul suo catamarano: un viaggio educativo, aperto ai giornalisti. Il suo pallino, infatti, è informare per prevenire: si possono cambiare le cose, dice. E il «continente di spazzatura»? «Quello purtroppo non si può più cancellare. Sarebbe come setacciare il deserto del Sahara».

Fabio Pozzo, Il miliardario che combatteultima modifica: 2009-05-24T19:04:00+02:00da mangano1
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