Andrea Scanzi, Jackson come Peter Pan?

da LA STAMPA
26/6/2009
Jackson, quel Peter Pan mai cresciuto

Michael Jackson si è spento all’età di 50 anni
+ Michael Jackson, morte di una star
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Enfant prodige e icona globale,
poi la caduta e la malattia
ANDREA SCANZI
Non ci sarà nessun ritorno, nessuna favola. Nessuna rinascita. Michael Jackson è morto ieri sera d’infarto, a cinquant’anni, in un ospedale di Los Angeles. La data nei libri di storia dirà 25 giugno 2009, in realtà se n’era andato molto prima.

«This is it», questo è quanto. Lo aveva ripetuto nella conferenza del 5 marzo scorso, promettendo il ritorno nelle scene. Una sequenza infinta di concerti londinesi, la dimostrazione che il «re del pop» c’era ancora. Vivo, lui e la sua musica. Né l’uno, né l’altro. Lo si era capito in quell’incontro, spietato nel mettere nuovamente a nudo un uomo che non ce la faceva più a sopravviversi. Barcollava, faticava a trovare le parole. Parlava e nulla usciva. Non era che la controfigura di sé. Michael Jackson non esisteva già più. Aveva smarrito talento, serenità, salute. Perfino il colore della pelle, declinato dal nero afro-americano a un improbabile bianco androgino. Una caricatura triste, incartata. Che si sbriciolava, ora dopo ora, pezzo dopo pezzo. I fan, istintivamente inclini a credere alle favole anche quando non c’è più spazio né per gli eroi né per i lupi cattivi, si erano sforzati di non fiutare l’ultimo bluff. Non avevano voluto leggere le cartelle cliniche, sempre più preoccupanti. Avevano cancellati tutti quei primi piani inquietanti, col loro idolo ridotto a un Ufo decrepito, giovane vecchio sepolto da una incurabile kryptonite interiore.

L’ultimo disco da ricordare è lontano 27 anni. Da allora, il nulla o quasi. Thriller, 1982: l’album più venduto nella storia. Allora funzionava tutto. Michael era il bambino prodigio, devastato da un padre padrone, anzitempo famoso come bambolotto canterino nei Jackson Five, enfant prodige di una famiglia debordante di prodigi molto presunti e poco veri. E ciò nonostante salvo. È durato poco. Bruciato da dentro. Kurt Cobain scelse un’unica fiamma per chiudere tutto. Elvis Presley batté una strada in qualche modo simile: una grande villa per riverberare i sogni d’infanzia, rinverdire i fasti e costruirsi su misura – grande misura – la propria Macondo.

Anche Jacko aveva eretto un mausoleo a uso e consumo dei propri demoni, Neverland, una Disneyland con zoo annesso, per immaginarsi sempre giovane. «Forever young», cantava Bob Dylan. Solo che nel frattempo gli anni passavano lo stesso. E Jackson restava lì. Il corpo da una parte, la testa dall’altra. Il corpo che si disfaceva, la testa che implodeva. Da qui il cortocircuito. Le accuse di pedofilia. Il dissesto finanziario. Le malattie oscure. La colonna infame, da cui uscì assolto per la giuria ma non per l’opinione pubblica. Un calvario a cielo aperto, di fronte a tutti. La mascherina antigas per salvarsi dal mondo, le piaghe sui palmi della mano come stimmate incomprensibili. Gli occhialoni assurdi, il look da Gheddafi appena sceso da Plutone. Le foto rubate mentre se ne va in giro, la mente assente, seduto su una sedia a rotelle con ancora il pigiama. E da qualche parte un ombrello, come se bastasse un ombrello per non farsi vedere. Più ancora, per proteggersi dal mondo.

La sua fine era scritta, la sapevano tutti. Il re del pop aveva abdicato, come molti decenni prima quello del rock. Entrambi avevano preso congedo da se stessi assai prima di farlo definitivamente sapere a tutti. Non è che Jackson è morto ieri: più che altro, ieri ce l’hanno fatto sapere. Il rischio, adesso, è che lo si ricordi unicamente per le esagerazioni, le derive legali, il Golgota finale. Sarebbe un delitto, una morte un po’ peggiore. Nessuno ha elevato il pop, musica bastarda e facile (per questo difficilissima), come il miglior Jackson. Thriller andrebbe insegnato nelle scuole, disco e video. E perfino un’opera derivativa come Bad, riascoltata oggi, fa quasi gridare al miracolo.

Jacko era uno che danzava scivolando sul terreno. Pattinava sulle adolescenze, regalava sogni, spingeva a muoversi. Non portava messaggi, era un mix di istintività, rivoluzione intuita e stregoneria commerciale. Qualcosa di potentissimo e al contempo fragile. Lui come la sua musica. Quelle grida a intercalare il ritmo, quei balli tra lo snodato e il truzzo. Uno spettacolo. Ha inventato molte cose. I videoclip con ambizioni da film, il look alieno, il pop-soul da neri con approccio da bianco. È stato un Re Mida col tempo in scadenza, capace perfino di rendere belli i mocassini coi calzini bianchi di spugna. Ha davvero creato una babele di incanti. Musica, note, riff. Purtroppo per lui, non è mai riuscito a trovare la formula magica per salvarsi la vita. Voleva essere Peter Pan, quando si è accorto di non esserlo è caduto giù. Ora lo beatificheranno, con la stessa dismisura con la quale fino a ieri l’avevano crocifisso. Non era un santo e non era più un genio. Ma lo è stato. Giusto un battito di ciglia. Giusto lo spazio di pattinare sulle nuvole. Per poi cadere. Quasi come Peter Pan.

Andrea Scanzi, Jackson come Peter Pan?ultima modifica: 2009-06-26T17:59:00+02:00da mangano1
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