Marco Barbonaglia, Tredici anni fa moriva Allen Ginsberg, padre della Beat Generation

 

 

 

 

 

 

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Tredici anni fa moriva Allen Ginsberg, padre della Beat Generation
di Marco Barbonaglia

5 APRILE 2010

Era l’estate del ‘57 quando un poeta ed editore non ancora quarantenne e quasi sconosciuto veniva portato nel carcere di San Francisco. Lì per lì non sembrava nulla di così importante. Le nebbie del maccartismo si stavano appena diradando, un uomo veniva arrestato per aver pubblicato un libro accusato di oscenità.

Niente di nuovo sotto il cielo, insomma. Il volume conteneva i versi di un tale Allen Ginsberg, un lungo poema intitolato “Howl”, Urlo. Ma il processo non portò ad un esito scontato. La pornografia non poteva, infatti, secondo la legge americana, essere considerata tale in presenza di un’ispirazione sociale. Esattamente quello che il giudice Horn trovò nello scritto del giovane poeta occhialuto, considerandolo una denuncia contro il conformismo e il materialismo che minacciavano l’America. A suggello della sentenza di assoluzione il magistrato arrivò, perfino, a puntare il dito contro chi aveva messo sotto accusa la poesia, citando il celebre motto dell’ordine della giarrettiera: Honny soit qui mal y pense, (Sia maledetto chi pensa male). Era nata la Beat Generation e presto il mondo intero se ne sarebbe accorto.

«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche…». L’incipit di Urlo sarebbe, di lì a poco, divenuto leggendario, recitato a memoria dai ragazzi di mezzo mondo, neanche fosse una canzone da hit-parade. Figlio di un poeta professore di liceo e di un’attivista comunista russa, Allen Ginsberg era nato a Newark, nel New Jersey, nel 1926. Decise di dedicarsi alla poesia mentre era iscritto a giurisprudenza alla Columbia University di New York. Qui, aveva conosciuto Jack Kerouac e William Burroughs, ovvero il nucleo del futuro gruppo dei Beat. In una notte del ’48 all’improvviso udì, come in una sorta di allucinazione, la voce di William Blake. Fu il segnale che aspettava, avrebbe seguito le orme del grande poeta visionario.

Sei anni dopo, il mitico reading alla Galleria Six di San Francisco fu come uno spartiacque, chi vi aveva partecipato sapeva che qualcosa stava cambiando. Poi, dopo la pubblicazione, il grido di Howl attraversò l’America come una scarica elettrica. I versi lunghi, la cadenza ritmica, le straordinarie immagini piene di visioni divennero il manifesto di un’intera generazione che nessuno, fino ad allora, sapeva neppure esistesse. Da quel momento, Ginsberg fu molto più di un semplice poeta, diventò una vera e propria icona. E, con gli anni, la sua fama e la venerazione che gli veniva tributata non vennero mai meno. I ragazzi accorrevano a centinaia e centinaia per sentirlo declamare i suoi versi. I teatri, le sale, le librerie, ogni locale destinato ai suoi reading diventò, d’un tratto, troppo piccolo per contenere il pubblico. Una cosa del genere accadeva alle rock star, non certo ai poeti.

Da precursore quale fu sempre, con Burroughs e Kerouac inventò la beat generation ma fu anche uno dei grandi ispiratori del ben più vasto movimento hippy. Bob Dylan e i Beatles lo consideravano una guida, i figli dei fiori un guru. Se ne andò a vivere in India agli inizi degli anni Sessanta, quando i viaggi nell’ex-colonia britannica non erano ancora di moda. Girovagò da Benares all’Himalaya con Peter Orlowsky che sarebbe stato il suo compagno per la vita e, quando fece ritorno in America, era pronto per lanciare una nuova rivoluzione. Più spirituale che politica, più anarchica che inquadrata nella cornice della sinistra classica, sicuramente non violenta, colorata, gioiosa. La sua immagine con la lunga barba, i candidi vestiti indiani, intento a suonare l’armonium e i cimbali oppure quella con il cilindro a stelle e strisce sono impresse nella memoria collettiva, veri e propri simboli dei Sixties americani.

Ma Ginsberg non fu solo questo. Intrappolarlo in un cliché nostalgico è, forse, uno dei più grossi errori che si possano fare nel tratteggiarne, oggi, la figura. Studioso serio delle filosofie orientali, è conosciuto e stimato in tutte le comunità buddhiste. In fondo, fu uno dei primi a diffondere tra le masse gli insegnamenti del “Risvegliato” oltre che un intero universo di immagini, simboli, preghiere, canti del mondo induista. La sua non fu, insomma, una spiritualità da cartolina, destinata a rimanere incastonata nella cornice degli anni Sessanta.

Da noi, in Italia, venne varie volte e fu perfino arrestato a Spoleto, nel ’67, sempre a causa delle solite “parole oscene”. La vicenda si risolse in perfetto stile Ginsberg ed esiste una foto che mostra il barbuto beat mentre regala un fiore ( un garofano rosa per la precisione) all’imbarazzato brigadiere che lo aveva fermato.

E sarebbe davvero troppo lungo narrare le tappe di una vita intensa, costellata di viaggi, incontri, avventure, esibizioni. Per questo ci sono i bellissimi libri di Fernanda Pivano che descrivono meglio di qualsiasi altro testo lo spirito di questo straordinario personaggio. E poi, naturalmente, ci sono le sue opere. Parole di speranza e di pace, messaggi che denunciano la meccanizzazione delle anime, la “solitudine pubblica”, la violenza della nostra società. Versi che soprattutto offrono una diversa visione del mondo, idee che sopravvivono all’autore stesso.

Ginsberg è scomparso da 13 anni, ormai, dal 5 aprile del ’97. Ma la voce del “Re di Maggio” risuona ancora per chi vuole ascoltarla. Kral Majales, come gli piaceva firmare, ogni tanto, le poesie. Una storia che risale al 1965 quando migliaia di ragazzi, a Praga, lo avevano incoronato in una primavera non ancora tragica come quella del ‘68. Poco dopo, naturalmente, era stato arrestato e cacciato in tutta fretta dalla Cecoslovacchia dove questa specie di hippy, libertario , omosessuale, con capelli e barba lunga che parlava d’amore e che tanto piaceva ai giovani, non poteva essere ben visto. Negli anni, ricordò sempre quel titolo come il suo preferito, quello che lo riempiva d’orgoglio più di tutte le onorificenze che il mondo accademico gli stava tributando in vecchiaia, con 40 anni di ritardo. Fama e riconoscimenti non lo avevano addomesticato, se è vero che la sua poesia “Saluti Cosmopoliti”, scritta nella metà degli anni ottanta, inizia così: «Ribellati contro i governi, contro Dio. Resta irresponsabile».

Ma la sua era una ribellione non violenta, una rivolta dell’anima, non una lotta da portare avanti con le armi. L’intuizione di un poeta che credeva profondamente nell’amore, nella gioia, nella ricerca estatica della verità e dell’illuminazione. Un anarchico pacifista, anticonformista e . Quelli che Kerouac, con felice intuizione, aveva chiamato Beat: battuti e beati.

Marco Barbonaglia, Tredici anni fa moriva Allen Ginsberg, padre della Beat Generationultima modifica: 2010-04-06T15:15:00+02:00da mangano1
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