Ennio Abate,Sedie e bici in legno

dal sito POLISCRITTURE

 

Unknown.gifSedie e bici in legno di Vittorio Alfano
L’estro artigianale di Vittorio Alfano
di Ennio Abate

Le sedie e le bici in legno costruite in dimensioni reali sono di Vittorio Alfano, un mio cugino e ne ho scoperto l’esistenza durante un mio veloce ritorno a Salerno in questa primavera del 2010. Vittorio è nato come me a Casalbarone di Baronissi, a sette chilometri da Salerno. Io sono del 1941, lui è del 1935. Ricordo le sue visite nella nostra casa di Via Sichelgaita, in città, a Salerno, dove nel dopoguerra la mia famiglia, lasciando quel paese, s’era trasferita. Giocava volentieri con me e mio fratello Egidio che eravamo più piccoli. Una volta ci portò una barchetta di latta. E quando veniva, poi faticavamo a lasciarlo andare. Per sfuggirci, ci distraeva con qualche stratagemma, s’avvicinava alla porta di casa e, lasciandoci in pianto, se la filava. Era il quarto dei sette figli di nostra zia Assuntina, che per la precoce morte del marito, Giuseppe, un mobiliere molto conosciuto e rinomato nella zona, si era trovata improvvisamente a vestire il lutto e in una difficile situazione economica. Il figlio maggiore, Franco, era riuscito a proseguire gli studi, a diventare ragioniere e a lavorare poi in una banca di Salerno. Il secondo figlio, Antonio, era stato preso come apprendista falegname nella segheria di nostro zio, Vincenzo Cosimato, sempre a Salerno. Le due sorelle – Checchina e Fortuna – avevano aperto in casa un laboratorio di sartoria assieme alla madre vedova. I fratelli piccoli, Vincenzo e Guglielmo, frequentavano le scuole elementari. E, durante le vacanze estive, che noi trascorrevamo con nostra madre nella casa della zia, arrivando da Salerno in carrozzella, erano, assieme ad altri ragazzi delle case vicine, i nostri compagni di gioco, le guide nell’esplorazione “ra terra” – l’appezzamento curato soprattutto dalla vecchia nonna Francesca – e i mediatori del mio difficile rapporto di ragazzo trapiantato in città con gli animali, soprattutto con i cani dei quali avevo una gran paura. Vittorio cominciò a diventare per me un eroe da leggenda in una giornata d’estate del 1950, quando l’accompagnai assieme a mia madre, a zia Assuntina, a cugini e cugine, verso la fermata della filovia di Acquamela. Lui allora aveva quindici anni. Io nove. Era diretto alla stazione di Salerno. Da lì, accompagnato da uno zio, avrebbe preso il treno per Genova. E si sarebbe poi imbarcato, da solo, su un piroscafo che l’avrebbe portato in un paese lontanissimo e sconosciuto, l’Argentina, presso parenti disposti ad accoglierlo e immigrati lì non so quanto tempo prima. Vittorio si staccava così per sempre dal suo paese e dal nostro mondo di ragazzi. Aveva resistito alle pressioni del fratello maggiore, che lo sconsigliava di partire («L’Argentina è lontana, non è dietro le montagne di San Severino») e caparbiamente aveva voluto andare. Verso l’ignoto, dovrei dire oggi. E così era arrivato – difficile non pensare alle paure dell’adolescente durante quel lungo viaggio per mare, allo stupore che lo dovette cogliere alla partenza e all’arrivo nei grandi porti o di fronte alla città di Buenos Aires; e poi al paesino della sua provincia, Coronel Pringles, 15 mila abitanti, dove risiedevano quei parenti. Lì ha vissuto per 25 anni, rientrando da turista in Italia solo alcune volte. Ricordo – strana coincidenza – di averlo incrociato, credo nel 1962, durante una sua visita ai miei genitori ormai anziani ancora nella casa di Via Sichelgaita, dove io pure, dopo essermi strappato – un po’ come lui? – da Salerno per andarmene a vivere a Milano, ero tornato per alcuni giorni. Qualche tempo dopo scrissi questa poesia:
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VITTORIO

Il cugino
non venne a caccia di ricordi.
Capitò da noi per sbaglio.
Bevve un caffè
e guardò smarrito
i colombi delle sue albe.

Era andato solo
per il mondo
in Argentina.
Ora parlava a voce più alta
non più a lungo.

Il tono secco dei versi mi veniva da Cesare Pavese, del quale allora leggevo più che potevo. L’accostamento della figura di Vittorio al cugino, di cui lo scrittore piemontese narra l’epopea nella poesia-racconto I mari del Sud, che avevo letto in Lavorare stanca, era l’elemento che sottolineo di più nella mia poesia: il suo carattere taciturno.

Per venticinque anni – ho poi saputo dai racconti dei parenti e più tardi da Vittorio stesso – lavorò nello store dei parenti, dove «si vendeva di tutto» con la mansione di capo reparto della sezione elettricità, resistendo ai morsi della nostalgia («Ah, non facevo che pensare di tornarmene in Italia»), al rimorso («Andarmene fu uno sbaglio»), alla pressione delle gelosie scatenatesi nei suoi confronti nella famiglia dei parenti che l’ospitavano («Di loro non dico né bene né male»). Presto, non sopportando più di vivere nella loro casa e di sentirsi trattato da «estraneo», scelse di staccarsi da loro, di fare ancora tutto da solo, come dice ora con pacato orgoglio. E a 18 anni, affrontando nuovi e pesanti sacrifici, si costruì assieme a un suo amico muratore di Ascoli Piceno una casetta per abitarla insieme a lui. Poi l’inflazione galoppante, che in seguito ha fatto andare a picco l’economia argentina, fece sfumare una buona parte dei suoi risparmi. E nel 1975 Vittorio si decise a tornare definitivamente in Italia, a Casalbarone, presso i fratelli. Per tornare ad avere una posizione economica solida, ha dovuto faticare per altri lunghi anni. È riuscito a farsi assumere, malgrado parlasse ben poco l’italiano, come rappresentante di una ditta di ferramenta e ha lavorato per altri vent’anni, girando in auto l’intera Sardegna («Non ti dico di questo girare sempre da solo in auto, del freddo, dei momenti di demoralizzazione»). Poi, in pensione dal 1998, ha potuto dedicarsi con più agio a una sua passione: fare il falegname. Un passione, che s’era fatta strada nella sua mente piano piano già durante la sua permanenza in Argentina (mi ha raccontato, infatti, che lì, per uno scopo del tutto pratico, arredare lo store dei parenti, s’era messo a costruire scaffali in legno) e che s’è poi rafforzata durante i suoi lunghi e solitari viaggi in auto per le strade della Sardegna, quando immaginava febbrilmente le costruzioni da realizzare appena avesse avuto del tempo libero a disposizione.

Le sedie e le bici in legno, fotografate per mia insistenza da un suo nipote e qui pubblicate, Vittorio le costruisce in uno scantinato della sua villetta. Usa gli scarti di legno di castagno che si procura a basso costo da un falegname di un paese vicino che ho già nominato, Mercato S. Severino. Li lavora con un tornio e poi gli dà solo una mano di vernice, perché gli piace che i suoi pezzi restino «grezzi». Non vuole lucidarli troppo o rifinirli a puntino. Non li vuole vendere e non ha nessuna voglia di soddisfare il gusto di eventuali committenti. Li fa per sé. Esprime così una sua vena creativa da artigiano autodidatta a lungo ignorata o soffocata. Gli ho chiesto quanto tempo ci mette per finire un pezzo. Ha esitato a rispondere. Poi, siccome insistevo, mi ha detto che c’impiega circa due giorni. I pezzi li fa così, come gli vengono, senza stendere prima un disegno: «A capocchia», dice con autoironia. «Ma hai avuto dei modelli, hai visitato delle mostre?». «No, mai. Solo le bici le ho copiate da una rivista che trattava dell’esposizione universale di Parigi di non so che anno». Le sedie, gli scranni, i “quasi troni” a me paiono modellati con un barocchismo lussureggiante. Avevo letto molti anni fa un reportage dello scrittore tedesco Hans Magnus Enzesberger, che volevo consultare prima di scrivere questa nota su Vittorio e le sue opere. Avrei voluto stabilire un confronto tra lui e un autodidatta, che Enzensberger aveva incontrato durante un suo viaggio in America Latina e che faceva delle costruzioni capricciose ma strabilianti con delle conchiglie (ma non sono sicuro e non trovo più il brano per essere più preciso).
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Guardando e riflettendo sui pezzi costruiti da Vittorio, ho fatto l’ipotesi che mio cugino segua una traccia quasi inconscia, che secondo me risale alla sua infanzia e porta dritto alla figura del suo papà, abilissimo falegname, come ho detto. Vittorio è rimasto un solitario. Pur essendo conosciuto da tutti a Coronel Pringles per il suo lavoro, non ha mai voluto legarsi o mettere su famiglia in quel paese. Forse per la nostalgia che lo spingeva a tornare, come ora riesce a dichiarare con sincerità. Ama i gatti. Parla sempre pochissimo di sé e del suo passato. Ma nelle conversazioni improvvisate che si concede mi pare torni giocherellone come lo ricordo da ragazzo. Anche se ora dimostra, secondo me, una grande e più amara ironia. Strappando all’oscurità o alla conoscenza di pochi amici e parenti queste sue opere, continuo a interrogarmi sul motivo che ha alimentato la sua ansia di fare, di costruire. Come volesse ricongiungersi – mi dico- all’opera del padre falegname e dimostrare che, anche se da autodidatta, il bambino rimasto in lui è degno di ottenere il riconoscimento, la lode paterna? Come se volesse ricollegarsi a una tradizione ormai scomparsa di grande artigianato del suo paese d’origine e “farsi perdonare” di essersene andato così lontano? Gli ho anche chiesto: ma perché hai scelto di fare proprio delle sedie e non altro. Ammette di non saperlo. Non posso, comunque, non pensare che il suo estro artigianale e autodidatta ha scelto di lavorare su due simboli contrapposti: un mezzo di locomozione come la bici, fissato in una forma arcaica e del tutto inutilizzabile, e un oggetto statico come le sedie. Che significato avrà per Vittorio questo contrasto?

giovedì 27 maggio 2010.

Ennio Abate,Sedie e bici in legnoultima modifica: 2010-06-05T15:47:05+02:00da mangano1
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4 pensieri su “Ennio Abate,Sedie e bici in legno

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