C.Buquicchio,Un Paese bloccato dai 30enni immaginari

DA l’unita’

 

 

bamboccionijpeg.jpegUn Paese bloccato dai 30enni immaginari
di Cesare Buquicchio

Nel 2010 i primi figli degli anni Settanta compiono 40 anni. Quella che dovrebbe essere l’età adulta, l’età della consacrazione, l’età giusta per prendere la guida della società, per gran parte di quella generazione rischia di essere soltanto l’età in cui ogni fallimento verrà acclarato. Nell’analizzare questo imminente naufragio e nel tentativo di rintracciare possibili, residue, vie di uscita, diventa sempre più difficile da rinviare un confronto-scontro con la ingombrante generazione dei padri, con coloro che da oltre 40 anni “occupano” il nostro Paese e che, al di là di qualche rituale discorsetto sulla necessità di un rinnovamento generazionale, non sembrano avere nessuna intenzione di mollare la presa.

Come è successo? Cosa c’è dietro una generazione partita per cambiare tutto e arrivata a desiderare che nulla cambi? Qual è la storia non scritta dei fallimenti di questi sessantenni e settantenni di successo? Quali sono le zone d’ombra della versione ufficiale (scritta, come sempre, solo dai vincitori)? Tutto è probabilmente cominciato dando risposte sbagliate a domande giuste. La società italiana del dopoguerra, in cui quella generazione si affacciava, aveva bisogno di cambiamenti in molti suoi aspetti. Dal ruolo della donna a quello dei lavoratori. Ma di quelle grandi aspettative di miglioramento e progresso cosa si è realmente realizzato? (…) Nei discorsi pubblici e in quelli privati arriva sempre il momento in cui, da qualche esponente della generazione dei padri, perlopiù se messo alle strette sulle sue responsabilità, giunge la domanda: “Ma allora perché voi non vi ribellate? Noi l’abbiamo fatto…”.

La risposta a quella domanda e alla remissività della generazione dei figli, non può che risiedere anche nella educazione e nell’immaginario in cui quei figli sono stati fatti crescere. La frase “figlio mio, un giorno tutto questo sarà tuo…” ha ormai il sapore antico dei nonni di una volta e, difficilmente, potrebbe essere stata pronunciata da un sessantasettenne di oggi, come quel Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, una delle più prestigiose università private italiane, e autore di una “lettera al figlio” pubblicata in prima pagina, su la Repubblica , il 29 novembre 2009 che suonava più del tipo: “Figlio, qui è tutto mio e non mi basterà nemmeno per molto, tu vai via, lascia l’Italia, vatti a cercare qualcosa lontano da me…”.

Le reazioni alla lettera di Celli sono state molteplici: da quelle degli altri padri che condividevano le sue parole, a chi gli rimproverava una certa ipocrisia e i privilegi del suo ruolo, sostenendo che è inutile criticare un sistema che si è contribuito a creare, e nel quale si occupa un’eccellente posizione. Ma, su tutte, una emergeva: la convinta definizione della sua iniziativa come l’ennesimo colpo di coda di una generazione di “cannibali”. Una generazione di “cannibali” contrapposta ad una generazione cortese, di prego si accomodi , una generazione mai liberatasi da quella X, segno di indeterminazione, con cui era stata marchiata, fatta di ragazzi che non alzano la voce, che scelgono il dialogo, che provano ad argomentare una resa in tempi senza alcuna certezza. Che, nel migliore dei casi, riescono solo a porre una domanda ai padri: “In nome di cosa continuate a sentirvi migliori?”.

Rispondere a quella domanda e, soprattutto, farne discendere le dovute conseguenze, come dicevamo, è ancora impresa ardua per una generazione, la prima, cresciuta ed educata con il costante ausilio delle immagini di tv e cinema in una società ormai compiutamente debordiana . Immagini come quelle che scorrevano sugli schermi di tutta Italia a partire dal 9 ottobre 1980: un padre ingombrante, cattivo, che per restare giovane e al comando ricorre a sofisticati interventi chirurgici e che, pur di non lasciare strada al figlio, è disposto a sfidarlo in un duello all’ultimo sangue e ad amputargli una mano. L’unico compromesso che Darth Vader, è di lui che stavamo parlando, concede a suo figlio, Luke Skywalker nel finale de L’Impero colpisce ancora , è un affiancamento: “Unisciti a me, e insieme governeremo la galassia come padre e figlio”.

Che è comunque sempre meglio di quanto Celli offrirà a suo figlio. E così, per restare all’immaginario di cui si è nutrita la generazione dei figli in quegli anni Ottanta, mentre tanti dei loro padri si ritrovavano dalla stessa parte della barricata e il debito pubblico italiano veniva affossato per i secoli successivi, le uniche soddisfazioni arrivavano dall’identificazione con un diciassettenne californiano: Marty McFly, protagonista della trilogia cinematografica Ritorno al futuro , capace di tornare indietro nel tempo per far cambiare in meglio i suoi genitori e poi trarne beneficio dagli anni ‘80 in poi. Una questione di immaginario, dunque. Anzi, sarebbe meglio dire, di immaginari a confronto.

Una delle maggiori difficoltà nell’affrontare un discorso sui conflitti generazionali, infatti, è quella della definizione del confine esatto tra una generazione e l’altra. Se individuare nonni, padri e figli, in una famiglia può riuscire relativamente facile, è, invece, più complicato districare blocchi sociali e anagrafici che si intersecano e si tangono. La consapevolezza della propria età anagrafica rende tutto più complesso. Sembra esserci una età simbolica in cui molti dei nodi che bloccano la nostra società vengono al pettine: i trentacinque anni. Da una parte la cronaca quotidiana e le vicende personali ci mettono di fronte le storie e i volti dei trentacinquenni veri. Storie drammatiche, come quella di Sergio Marra, l’operaio morto suicida il 31 gennaio vicino Bergamo dopo aver perso il lavoro.

Oppure storie di trentacinquenni tristi, di precari senza speranza, di “bamboccioni” incapaci di lasciare il nido domestico, di ex ragazzi che non riescono a far emergere la propria voce, di giovani stelle della politica che non riescono a guadagnarsi la scena che per pochi minuti prima di essere riassorbite nell’ingranaggio che ha progettato per loro un futuro da giovanili burocrati cinquantenni (“La Serracchiona” – la Repubblica, 1 aprile 2009 ). Dall’altra parte, le stesse cronache quotidiane e l’immaginario collettivo plasmato da milioni di ore di televisione, da copertine di riviste e da film di cassetta ci racconta la storia di altri trentacinquenni: quelli immaginari. Quelli che hanno cinquant’anni e anche di più “ma sembrano trenta. Trentacinque forse. Perché si ha una pazzesca voglia di vivere. E tutto il resto conta sì, alimentazione, medicine, ginnastica, traguardi scientifici e prodigi della chirurgia. Ma alla fine ciò che comanda, che straccia l’anagrafe e fa dimenticare i certificati di nascita, sembrano essere il cuore e la mente.

Non è solo questione di star system , di attrici meravigliose che superato il mezzo secolo amministrano saggiamente le proprie rughe e scoprono un nuovo vento di vita . In tutto il mondo occidentale, sembra, l’età apparente ha soppiantato l’età anagrafica, si vivono stagioni multiple insieme, e la sessualità non si piega più né al tempo né al mutare del corpo” come scriveva in prima pagina Repubblica proprio poche ore prima che Sergio Marra decidesse di darsi fuoco spegnendo il suo vento di vita . Quella inchiesta, non fa che confermare quanto sia complicato stabilire chi sono i vecchi nel nostro paese. L’immaginario (e con esso forse anche la stessa possibilità di affrontare un serio discorso di rinnovamento generazionale) è del tutto compromesso se anche un presidente del consiglio ultrasettantenne è convinto, da anni, di essere un 35enne ( “Berlusconi si ritiene ‘insostituibile’ e ricorda di sentirsi un trentacinquenne” – Ansa, 12/2/2008. “Terremoto: Berlusconi, non dormo da 44 ore, ma ho 35 anni…” – Ansa, 8/4/2009 ), se un filosofo esalta la sua paternità raggiunta a sessant’anni (“La testimonianza – Zecchi: io, ultrasessantenne, ora ne voglio un altro” – Corriere della Sera, 9/2/2009 ) e se una conduttrice tv, ormai più vicina ai sessanta che ai cinquanta, insegue (inutilmente) mode adolescenziali (“Serena Dandini Parla con sé”, Aldo Grasso, Corriere della Sera, 8/10/2009 ). Compromettendosi in modo così pervasivo la consapevolezza della propria età, si è inevitabilmente danneggiato il meccanismo del “passaggio di consegne” tra padri e figli, tra una generazione e l’altra.

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*MicroMega, dialogo sui giovani e Heidegger inedito
Il nuovo numero della rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais è in libreria e in edicola da oggi. Tra i tanti saggi presenti, oltre a quello qui anticipato con un breve estratto, c’è un colloquio Flores d’ Arcais-Vendola-De Magistris, un dialogo tra Touraine e Bauman e un inedito di Martin Heidegger presentato da Adriano Ardovino.

22 giugno 2010

C.Buquicchio,Un Paese bloccato dai 30enni immaginariultima modifica: 2010-06-25T16:26:15+02:00da mangano1
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