Una città, Intervista a Papa Chissokho

UNA CITTA'1.jpegUNA CITTÀ n. 173 / 2010 Aprile

Intervista a Papa Chissokho
realizzata da Gianni Saporetti

DA ITALIANO, TORNO VIA
Dopo diciannove anni, iniziati vendendo accendini e calze e dormendo per strada, e tanti anni passati a lavorare undici ore al giorno e anche il sabato e la domenica, e dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana per sé, per la moglie e i figli, la decisione di tornare in Senegal a cercar la fortuna. Intervista a Papa Chissokho.

Papa Chissokho vive a Nembro, vicino a Bergamo, con la moglie Alima e i figli Farma e Modou. Nella pagine seguenti la foto ritrae un poster di Malcolm X, appeso in salotto, su cui è incollata la foto della madre di Papa.

Sì, abbiamo deciso di tornare… Perché? Beh, abbiamo pensato che oramai era il momento di provare anche altre cose. L’ultima volta che sono stato giù ho visto cose un po’ diverse dagli altri anni, ho avuto anche l’opportunità di aprire una piccola impresa, ho detto: “Proviamo”. Vediamo come andrà. Io sono in Italia dall’89, dal 13 dicembre ‘89. Prima a Pisa e poi, dall’aprile del ‘90, qui a Bergamo. Ho sempre lavorato, ho sempre fatto il mio dovere fino ad adesso, e ora mi sento di tornare a casa e cercare altre vie.
Sì, abbiamo tutti la cittadinanza italiana. Mia moglie l’ha presa a ottobre e io e i miei figli a dicembre. Purtroppo è così la vita, un po’ di sofferenza l’ho avuta, ma sono pezzi di storia che rimangono nel cuore e nella mente…
I miei figli li ho portati a vedere dove ho dormito per tanti mesi. Avevo un amico che aveva un’Alfa Romeo vecchia e la parcheggiava sempre qui dietro al giornalaio nel piazzale, tutte le sere alle dieci arrivava. Ogni tanto c’erano i gay che erano lì al parcheggio e tu tu tu, bussavano sopra la macchina per svegliarci e chiederci se volevamo andare a casa con loro per 100 mila lire. E alcuni andavano, soprattutto i marocchini. No, io non ci ho mai pensato.

Il destino ti manda dove meno te l’aspetti. Io avevo scelto l’America, avevo in mente di andare là fino a quindici giorni dall’acquisto del biglietto. Poi è arrivato un vicino di casa dall’Italia e ha detto a mia mamma: “Guarda che in America c’è gente che è lì da vent’anni e non riesce a prendere un documento, invece in Italia c’è una legge che sta uscendo, che se parti adesso -era dicembre- già ad aprile o maggio puoi prendere un permesso per andare a lavorare”.
Lì mia mamma ha ribaltato tutto: “Se vuoi andare in Italia, ci sono qua i soldi, ma purtroppo bastano solo per il viaggio”.
Aveva venduto il braccialetto d’oro che il papà le aveva regalato. Ho preso quei soldi e sono venuto in Italia.
Sono arrivato a Roma il 13 dicembre ‘89, e subito ho preso il treno per Pisa, dove avevo dei conoscenti. Per alcuni giorni sono rimasto a casa, mi spiegavano un po’ come giravano le cose. Il 23 dicembre ero per strada con una scatola di accendini, calze e tutte quelle cose lì. Ricordo che alcuni ragazzi della mia età mi prendevano in giro e ogni tanto mi nascondevo da qualche parte e mi veniva da piangere.
Dopo qualche mese ho detto: “Basta, devo prendere i documenti, se prendo il permesso di soggiorno non vado più a vendere”. Mi è arrivato nel mese di marzo. Avevo fatto la richiesta nel ‘90 con la legge Martelli, dopo quindici giorni ho preso anche il libretto di lavoro, e ho deciso di venire a Bergamo. Non direi tutto se non dicessi che a Pisa mi era capitata la grande fortuna di aver conosciuto la signora Chiara che per me è stata come una mamma. Sì, non riesco a parlare di lei perché è come se parlassi della mia mamma, per tutto quello che ho avuto fino ad ora posso solo ringraziare lei. Lei voleva che restassi a Pisa ma io le dicevo che dovevo andare a fare la mia vita, dovevo cercare di superare gli ostacoli della vita, che non sarebbe andato bene se avessi avuto tutto facile. Avevo lasciato dietro di me la mia mamma e volevo essere un sostegno per la famiglia, insomma non potevo lasciarmi andare. Quando le dissi così, lei mi rispose: “Allora vai, ma ricordati che dovunque tu sia, ti sono sempre vicino”. E così è stato. Quando, da Bergamo, le dissi per telefono che avevo trovato un lavoro la sentii piangere.

Ma a Bergamo era anche più dura, perché dormivo fuori per strada, su una macchina, a volte sulle panchine della fermata del pullman, a volte anche alla stazione, nei vagoni dei treni e ogni tanto arrivava la polizia e ti buttava fuori, e quindi dovevi andare a cercare un altro posto, e il giorno dopo dovevi essere al lavoro. Ho vissuto così per sei mesi, ed erano momenti troppo duri, perché non mangiavo neanche abbastanza. Ogni tanto, a mezzogiorno, il mio principale mi portava a casa sua a mangiare qualcosa, invece la sera un panino al tonno e coca cola, ogni tanto un pezzo di formaggio, e basta. Mi trovai una stanza dove potevo andare a dormire, ma c’era tanta muffa perché c’era il fiume che passava dietro, e quindi tutte le cose che lasciavi per terra erano da buttare via dopo due giorni, e dovevo mettere tutto sopra. La sera faceva un freddo bestiale là dentro, non ero mica tanto abituato, e sentivo proprio i dolori nelle ossa… Ho vissuto così per un po’, poi ho conosciuto uno che aveva appena preso… un appartamento, chiamiamolo così. Perché era una casa del 1600 con i pavimenti in legno e un bagno solo per tutti al piano terra, e quindi tutti gli amici per andarci dovevano camminare nel buio e il legno faceva un gran rumore… Quando nevicava non dormivamo, quando c’era tanto vento neanche, o se pioveva forte, sentivi che gocciolava dentro. Ho vissuto così un anno e mezzo con i miei amici fino a che il sindaco del paese ha deciso di buttarci fuori dalla casa perché non era più agibile. E’ stata molto dura… La mattina mi ricordo che facevo tre chilometri a piedi per arrivare al lavoro, poi mi presi la bicicletta.

Del mio primo principale, che si chiamava Emilio -e sua moglie Emilia!- non posso che parlare bene, perché mi hanno fatto un po’ di tutto. Il signor Emilio mi ha sempre aiutato. Mi diceva sempre: “Usa il telefono quanto vuoi per chiamare la mamma, perché ricordati che io non ti prendo come un operaio, sei un fratello per me”. Ricordo che l’Emilia mi prendeva in giro i primi giorni, perché mi veniva da parlare spagnolo o tedesco, mi diceva: “Non viviamo in Spagna, devi parlare italiano, se anche parli francese non ti rispondo”. Prima parlavo tedesco, spagnolo e francese, poi dopo un anno che ero qui ho perso tutto perché dovevo imparare l’italiano. L’Emilia mi andò a iscrivere in una scuola e andavo lì tutte le sere per imparare l’italiano, l’ho fatto per tre anni… Avrei voluto andare avanti per fare la terza media, mi sarebbe servita proprio, ma il tempo era quello che era, e ora sento che non è neanche più il momento di farlo. Abbiamo vissuto così per un po’ di anni. Poi gli è nato un figlio che non stava bene, per cui erano costretti a star via spesso e io dovevo rimanere in ditta a controllare il lavoro: facevo tutto quello che serviva, ritiravo le consegne, firmavo le bolle, avevo le chiavi della ditta. C’erano altri tre ragazzi italiani a cui non piacevo per tante cose ma siccome ero il primo operaio lui mi teneva come il suo secondo.
Poi è successo un brutto fatto. Alcuni dei miei amici, andati giù, erano andati a dire a mia mamma che Papa in Italia faceva di tutto, che bevevo, fumavo. In realtà quel che facevo era giocare a calcetto con una squadra di Nembro e la sera andare in giro con gli amici.
Mi ricordo, era il 25 di agosto del ‘92 e avevo chiamato mia mamma e lei: “Ho sentito che sei sempre in giro”, le ho detto: “No no, non vado in giro”. E proprio quel giorno tornando da Pisa, dopo le ferie, dove ero andato a salutare Chiara e Donato, sono passato a Milano perché c’erano gli amici, li avevo sentiti al telefono che erano in discoteca, sono passato da loro e la notte, verso le cinque, abbiamo avuto un incidente.
Ho battuto la testa e per una settimana sono rimasto in ospedale da solo, con due o tre vestiti che avevo addosso e basta, e coi miei amici che abitavano con me che non sapevano dove fossi. Quando sono uscito dall’ospedale ho chiamato mia mamma. Appena le ho detto perché non l’avevo più chiamata, che ero stato in ospedale perché avevo fatto un incidente, lei si è disperata perché ha pensato che le cose che le avevano detto fossero vere, che ero un ubriacone, che fumavo. Mi ha detto che non voleva più soldi da me: “Siccome hai scelto di vivere come un ragazzo solitario, noi non vogliamo più niente da te”.
Ricordo di essermi messo a piangere e di aver pianto tutti i giorni per una settimana, perché io ero qui soltanto per lei, per dividere con lei e con i miei fratelli quello che riuscivo a guadagnare… Non sapevo più come fare, in quel momento lì ero troppo triste, troppo troppo. E’ andata male fino al ‘93, quando a dicembre sono tornato giù e l’11 gennaio del ‘94 mi sono sposato. Sono tornato in Italia che mia moglie era incinta e da lì la mia vita ha cominciato a cambiare.
Avevo un nuovo lavoro: saldavo i ponti che usano i meccanici per sollevare le macchine. Dovevo seguire un robot, che faceva sette, otto colonne al giorno, e tutto quello che tirava fuori il robot lo dovevo finire. Distava sei chilometri e mi sono detto: “Non posso pedalare tutto quel tempo e poi andare al lavoro con la voglia, se sono già stanco prima come faccio a lavorare?”. E ho preso la moto.
La mia situazione cominciava a migliorare. E così, per la casa. Chiara e suo marito Donato mi avevano fatto la proposta di cercare una casa da qualche parte qua in giro, dove volevo io, che loro si incaricavano di pagarla. Ho rifiutato ma Chiara insisteva: “Papa, guarda che sei giovane, stai mettendo su famiglia e le sofferenze stanno diventando troppe, e quindi ci devi pensare, perché la casa non è che noi te la compriamo, ti diamo soltanto una mano, alla fine del mese la paghi ma noi ti mettiamo le garanzie e tutto, così almeno tu vivi tranquillo”. Dopo una settimana le ho dato la risposta: “Va bene, ok, accetto”, e dopo un mese ho trovato una casa ad Alzano Lombardo. Siamo andati a vivere lì, ho comprato i mobili e tutto pagando in contanti, con i risparmi che avevo.
Ma alla fine del ‘94 ho perso mia mamma. Un giorno che stavo lavorando, mi chiama mio fratello e mi dice: “La mamma non c’è più”. In quel momento lì non capivo più niente, e il principale mi ha detto: “Vai a casa”, e quando sono uscito per prendere la moto, mi ha detto: “Papa, tu non puoi guidare la moto oggi, lasciala qui, te la metto dentro io e ti porto a casa”, e così ha fatto. Quando sono arrivato c’erano mia moglie e la bimba che aveva un anno e mezzo che erano lì sedute ad aspettarmi, quando mi hanno visto con le lacrime hanno subito capito che c’era qualcosa di grave…
Mia mamma… Quando eravamo piccoli ci diceva sempre: “Imparate a fare i mestieri in casa, a cucinare, a rammendare le calze…”. Il bucato non ce lo faceva fare mai, ma lavare i piatti sì. “Imparate a farlo perché un domani non sapete dove andrete a vivere”. Lei ci ha fatto crescere con dignità nonostante non avessimo più il papà, morto prematuramente (il papà era un agronomo importante, sì, era del Mali, e noi siamo mandinghi, tutti altissimi…). La mamma ci diceva sempre: “L’importante è non rubare, non vendere la droga e guardare negli occhi le persone con cui parli, se parli con uno che ti gira via gli occhi vuol dire che non sei a posto tu o non è a posto lui”. Noi siamo cresciuti con quella mentalità lì e in casa siamo tutti così: undici fratelli, otto maschi e tre femmine.
E’ stato durissimo. Perdere la mamma mi aveva fatto passare la voglia di andare avanti a vivere. Il papà l’avevo perso da piccolo quando avevo nove anni, e quindi per venticinque anni ero vissuto sempre con mia mamma. Poi essendo lontano il dolore non mi passava più.
Fra l’altro erano momenti duri per me perché avevo soltanto uno stipendio con la moglie e la bimba a carico. E non avevo neanche la macchina.
C’erano vicini che portavano vestiti, scarpe e tutto, ma io mi sentivo troppo orgoglioso e rifiutavo tutto, davo tutto indietro. Dicevo: non voglio che mia figlia cresca vedendo che la gente mi regala le cose. Avevo in mente che dovevo lavorare per sopravvivere e mantenere anche gli altri, e sono andato avanti così fino ad adesso. Le spese erano tante ma non ho mai voluto niente da nessuno, salvo Chiara e l’Emilio. Mi sono sempre detto: “Così imparo a scavalcare le difficoltà, se vedo sempre la facilità alla fine andrà niente bene per me”, e sono andato avanti così fino al ‘99. Nel frattempo, nel ‘97 avevo preso la patente, con l’autoscuola, pagando a rate l’iscrizione, l’esame di guida, la teoria e tutto. Mi ero deciso perché un giorno uscendo con la bimba e la moglie per andare a trovare un amico pioveva che non si riusciva neanche più a vedere la strada, eravamo lì alla fermata ad aspettare il pullman e dopo mezz’ora che non arrivava, mi sono detto: “Ma perché devo vivere così, perché devo vivere così? Avere qua la moglie e la figlia e poi io guidare la moto, non ce la faccio, basta!”. Quel giorno ho deciso di prendere la patente. Poi l’Emilio, il mio ex principale, mi ha offerto per un milione la sua vecchia macchina, che doveva demolire, ed è stata fatta. Così va la vita: i piedi, la bicicletta, la moto e ora la macchina.
Mia moglie era contentissima. Ricordo il primo giorno, era un venerdì sera, ho caricato tutta la famiglia in macchina e ho detto: “Andiamo in giro”. Volevo prendere per Brescia, mi sono ritrovato a Bergamo, ma avevo messo il pieno, ho detto: “L’importante è che vi porto in giro, perché vi faccio vedere altre cose, sempre dentro quattro mura è ora di finirla”… Siamo andati in giro così fino alle dieci di sera, poi il giorno dopo che era domenica siamo ripartiti ancora per cercare un altro posto. Anche perché volevo prendere l’abitudine di guidare…

Nel ‘99 ho trovato un secondo lavoro, da fare il sabato e la domenica. Grazie alla macchina. Ero venuto a sapere che un signore cercava qualcuno, per andare a vendere la carne. Mi presentai. “L’importante è che rispetti le tue parole”, mi disse. Il primo giorno ho caricato cento chili di carne sulla macchina, il Golf che avevo, e sono andato in giro a venderla, e dopo averla venduta avevo quarantamila lire in più e ho detto: “Cacchio, questo qua proprio è un affare, ci metto dentro tutti i sabati e se carico certe volte un po’ di più, centocinquanta, fino ad arrivare a duecento…”. Così è stato. Finalmente riuscivo a comprare alla mia figlia quello che le mancava. Poi, dopo sei mesi, ho avuto la proposta dal signor Diego di venire a lavorare tutta la settimana come corriere. Ho detto: “Va beh, se ci stai anch’io ci sto, se poi posso continuare anche il sabato pomeriggio…”. “Vediamo -ha detto- partiamo piano piano e poi vediamo”. Così ho lasciato il posto di lavoro da saldatore. Come corriere non sapevo neanche dove andare. Il primo giorno mi avevano messo dentro con un autista, il secondo mi sono dovuto arrangiare a fare tutte le consegne da solo. Sono partito alle cinque di mattina e sono arrivato alle cinque del pomeriggio, non avevo più gli occhi… e neanche la lingua, perché dovevo sempre chiedere i posti. Poi da lì ho preso la cartina e ho iniziato a imparare come si faceva a leggerla, un po’ a casa la sera, e un po’ chiedendo agli altri autisti che erano lì a lavorare con me. Dopo un mese ero più pratico di Milano che di Bergamo.

Lì ho visto proprio un cambiamento. Sono arrivato a 700 chili di carne la settimana, che vendevo in giro, e per ogni chilo venduto avevo cinquanta centesimi, ogni tanto mi capitava un euro e cinquanta centesimi al chilo.
Nel frattempo però dal Senegal erano arrivati quattro fratelli. Ma non li ho voluti a lavorare con me. Siccome si possono prendere multe salate a vendere, non sarebbero più riusciti ad avere il permesso di soggiorno. Così ho detto: “Voi per adesso state a casa a non far niente. Penso io a tutto”. Devo dire che mia moglie è stata eccezionale. Vivere con quattro uomini in più in una casa con un bagno, due stanze, la sala e la cucina, non deve essere stato facile. Ma lei è stata geniale a organizzare il tutto, è una donna che io non sottovaluterò mai. Mi ha dato proprio la mano, si è sacrificata, ha fatto di tutto per me. Poi ha deciso che era il momento anche per lei di trovare un lavoro. Per fortuna l’hanno chiamata alla casa di riposo di Nembro, è andata lì a lavorare, ha fatto tre mesi, ma al quarto è rimasta incinta, e quindi doveva restare a casa.
A quel punto ho dato una scossa ai miei fratelli: “Guardate che la situazione è così e quindi vediamo dove potete andare a trovare un lavoro in nero”. Così uno è partito per il Lussemburgo, perché ha avuto lì delle offerte di lavoro tramite un conoscente, e mi ricordo il giorno che partiva da Orio al Serio con l’aereo: sono passato a vedere come andava, se riusciva a imbarcarsi o no, perché il documento che aveva in mano era il mio. E quando mi ha chiamato e mi ha detto che era arrivato a destinazione ero felice. E poi sono andato a parlare con gente che conoscevo e per fortuna mi hanno preso i fratelli a lavorare in nero, e lì mi sono detto che qualcosa stava cambiando ancora di nuovo.
Loro la mattina partivano, anch’io partivo, gli davo un passaggio col furgone, il capo mi aveva detto: “Li puoi caricare ma non oltre venti chilometri”, così li caricavo la mattina presto, alle cinque e mezzo, loro dovevano iniziare a lavorare alle sette, ma arrivavano lì alle sei, e li lasciavo fuori ad aspettare che aprissero i cancelli della ditta. Per un mese sono andato avanti così, finché non han preso lo stipendio e anche loro si sono dati un po’ da fare.
Un giorno mia moglie mi dice che al collocamento ha visto una cosa, un corso che avrebbe potuto fare. Io ero molto d’accordo, quando era arrivata, la prima cosa che avevo pensato era di farle imparare l’italiano. Così ha ripreso a studiare. La sera tenevo io il bimbo e la bimba a casa, abbiamo fatto così fino a che non ha preso la terza media. Poi ha visto che c’era un concorso di Operatrice sanitaria, l’ha dato, è andata benissimo e ha trovato lavoro come infermiera.

Sì, ho avuto problemi di salute. Nel 2002 ho cominciato a dimagrire. Da cento chili che pesavo ero arrivato a cinquantacinque. Ero così magro che a volte la gente mi rideva dietro, quasi fossi matto ad alzare certi pesi essendo così magro. Ma col cuore e la voglia -mi dicevo- si supera tutto. Non era vero. Il 6 gennaio del 2003, era una domenica, il giorno dopo mi dovevo alzare alle quattro e mezza, non sono riuscito ad alzarmi dal letto. Ho dovuto mandare a dire al mio principale che non ce la facevo più. Mia moglie era proprio disperata, i miei fratelli mi hanno preso in braccio e mi hanno portato giù in macchina, e subito in ospedale. Io non volevo chiamare il 118 qui in casa, siccome c’era gente senza documenti ho detto: “Non chiamiamo nessuno”. In ospedale, mi hanno fatto una puntura per farmi passare il male, sono tornato a casa e ho chiamato in ditta perché non potevo ritornare al lavoro. Sono dovuto stare a casa dal lavoro sei mesi. Ma non miglioravo e siccome il mio dottore non capiva cosa avessi, mi sono detto: “Non posso stare qui senza curarmi, quindi visto che loro non vedono niente, torno giù, almeno là abbiamo le nostre cose che usiamo in Africa”.
Per fortuna la sera ho chiamato Donato, il marito della Chiara, che mi ha detto di mandargli le analisi prima di fare qualsiasi cosa. Dopo pochissimo mi chiama: “Papa, guarda che hai la tiroide, vai subito in ospedale, in endocrinologia, che ti fanno la visita e quando vedranno le carte ti diranno che è urgentissimo che tu ti curi”. E lì una dottoressa molto brava e gentile mi ha prescritto dei medicinali da prendere subito, dodici compresse al giorno.
L’altro problema che ho avuto, più recentemente, riguarda le corde vocali. Una sera la bimba è venuta a giocare con me e a un certo momento non mi ha sentito più parlare. E’ andata a chiamare sua mamma: “C’è il papà che non parla più”. Infatti avevo la gola gonfia e dei capogiri. La sera sono andato in ospedale e lì mi hanno detto che non c’era più niente da fare, dovevo fare l’operazione e basta.
Mi hanno operato, adesso mi è tornata la voce e speriamo ancora in bene, speriamo ancora in bene…

Adesso non dico che stiamo bene al cento per cento, ma almeno un po’ di cose le riusciamo a fare. Nel frattempo i miei fratelli quando hanno preso anche loro i documenti, si sono cercati un altro posto, un posto loro. A Brescia, a Bologna. Il sabato ci ritroviamo qui tutti. I risparmi non ce li abbiamo più perché anche lavorando in due con due figli, un affitto alto da pagare, le bollette del telefono, e poi la figlia che diventa grande e vede tutte le sue amiche e vuoi che non le manchi niente… internet a casa, il televisore in stanza, le spese sono diventate tante, diventa tutto più duro. Adesso ho trovato di nuovo un lavoro per il sabato e la domenica, un po’ di ore nei supermercati per prendere qualcosa in più. Ma le ore sono troppo poche, venticinque al mese non le faccio, però il poco che prendo mi permette di pagare la connessione internet per mia figlia a casa… Poi, parlando con il principale, mi ha fatto fare un’ora in più e ho iniziato di nuovo a fare undici ore…

Sì, se andiamo via è anche per i bambini. Loro fanno fatica qui perché quando sono a scuola giocano con gli italiani, ma quando tornano a casa non fanno più parte della società italiana. E’ una cosa incredibile, che tanti non vogliono dire, ma io lo dico. Anche quando i compleanni cadono nei giorni feriali, a scuola tutti i bambini festeggiano e il festeggiato porta caramelle, biscotti, dolci. Invece quando è il compleanno dei nostri e loro portano le caramelle, tutto, e siamo andati al supermercato, si vede che nessuno gliele tocca. Quello ti finisce proprio dentro. Io glielo dico: “Gli amici non si prendono, arrivano, non devi convincere nessuno a essere tuo amico, non devi convincere nessuno a starti vicino, ma arriva, col tempo arriva”. E però poi vedo che fino ad adesso quella che ha quindici anni non ha giocato come giocano gli altri bambini, perché fanno scuola, casa, scuola, casa. E ora anche quello più piccolo la stessa cosa: scuola e casa e basta.
Mi ricordo che una volta la bambina andò a scuola che aveva fatto le trecce ed è tornata che piangeva. Mi sono seduto, la guardavo e chiedevo: “Ma cosa c’hai?”. Mi fa: “A scuola mi dicono che non devo più portare le trecce”; “E come mai?”, “Perché danno fastidio agli altri”, “E chi te l’ha detto?”, “La maestra”. Certo, alcuni bambini si saranno lamentati, le loro mamme avranno detto qualcosa alla maestra, e la maestra…
Lei era l’unica bambina nera. Le ho detto: “Guarda, tu non preoccuparti, hai i genitori, hai un papà che è disposto a perdere la vita per te, stai calma e non piangere, domani vado a sistemare la cosa”. Ma lei piangeva, diceva di sentirsi offesa. Aveva otto anni ma capiva già quello che stava succedendo, i bambini capiscono.
A volte mi aveva chiesto: “Ma perché non vai in giro, non hai altri amici, perché non parli con gli italiani? Parli bene italiano, non hai nessun amico con cui torni a casa…”.
Il giorno dopo sono andato a scuola, che c’era proprio un incontro con tutti i genitori. Ho chiesto la parola a metà incontro e ho detto: “E’ vero, noi siamo poveri, povere persone quando siamo qua in Italia, ma vi ricordo che quelli che stanno bene e si reputano superiori a noi non hanno i figli insieme ai nostri nelle scuole statali, li mandano nel privato, perché hanno un po’ di soldi. Voi che siete qua insieme a me e ai nostri figli… insomma siamo sullo stesso livello, e quindi da oggi se sento saltare fuori ancora una parola verso mia figlia, io non lo accetterò. Perché se accetto oggi che mia figlia sia sottovalutata vuol dire che lo potrà essere anche domani e questo io non l’accetto per nessun motivo. Quindi un’altra volta che lo sento andrò dai carabinieri a fare una denuncia contro x”. A quel punto qualcuno si è alzato, per dire che a suo figlio aveva sempre detto di trattare bene mia figlia, e da lì non ho più sentito niente, fino alla terza media.
In terza media è arrivato un altro bambino che le diceva “negra puzzolente”. Lei non ha fatto niente, quand’è arrivata a casa le ho detto: “Sistemalo e basta, poi vengo io a parlare, tu non hai niente da dire a nessuno, se viene e te lo dice ancora dagli due sberle senza pensarci due volte”. Il giorno dopo è arrivato il ragazzo: “Puzzolente negra fammi passare”, e due sberle le ha prese. Mi hanno chiamato a scuola e ho detto: “Non lo sapevo neanche che ha dato a qualcuno delle sberle, ma ho sentito delle parole che mi ha raccontato il giorno prima, e se lo ha fatto vuol dire che aveva le sue ragioni perché c’erano anche dei testimoni, gente che mi ha chiamato la sera per confermarmi il fatto, dopodiché io non ho niente da dire, se volete c’è la legge, facciamo delle denunce, altrimenti lasciamo perdere tutto…”. E hanno lasciato perdere.
Ma anche a me è successo qualcosa. Quando ho cambiato macchina per esempio, prima avevo la Golf, poi dopo dieci anni ho preso una Ford, una Escort, ho parcheggiato a cinquecento metri da casa, e dopo sei mesi mi hanno piegato la portiera. L’hanno fatto apposta, non hanno toccato niente. Una macchina che sto pagando, me la rompono così, solo perché sono nero. Problemi non ne ho mai avuti con nessuno, ma può darsi che uno vedendomi girare con quella macchina non potesse accettarlo. C’è sempre qualcuno che ti umilia perché ti vede migliorare nella vita. Poi quest’anno ho cambiato ancora, ho preso un’altra Ford, diversa, ed è stato lo stesso. Sputi, sfregi. Li vedi in giro. Due mesi fa quando sono stato giù a casa in Senegal qualcuno è andato perfino incontro a mia moglie per rompere la macchina, ha fatto dei graffi che ci sono ancora, e poi ha tirato fuori un coltello per minacciarla. Ecco, anche questo mi ha spinto. Non me la sento più di restare. Preferisco andare là con calma, e quando i bambini saranno cresciuti, un domani che vogliono tornare in Italia, potranno farlo perché loro si sentono italiani, anche da prima che avessero la cittadinanza. Parlano meglio l’italiano del nostro dialetto…
Ma ci tengo anche a chiarire che non posso dire niente degli italiani, davvero. Ogni paese dove vai c’è un cretino che gira, non è che sono razzisti, è gente che non è informata dei fatti che ci sono nella realtà della vita.

Preferisco andare. Ma alla fine lo faccio soprattutto per i miei figli perché vedo che non si divertono, fanno scuola casa, e così, alla fine non capiranno niente della vita. Se anche all’oratorio dove vanno devono stare da soli… Il don che c’è qui al nostro paese è una persona eccezionale, tutte le volte che mi occorre qualcosa per i nostri amici che vivono qua nella zona, vado a parlargli e lui mi ascolta, e credo che mi consideri una persona seria, perché mi dà subito una mano. Ma per me non riesco ad andare a chiedergli una mano. Con tutte le difficoltà non riesco. Tre anni fa mi aveva dato quaderni, matite, pennarelli, un po’ di tutto per la scuola, ma ho mandato tutto giù in Africa, alle scuole dell’infanzia, insieme a tante altre cose raccolte dal don. Anche adesso che mi sto preparando a ritornare ho un po’ di cose, ne sto cercando altre, perché sono povero ma ci sono tanti che sono più poveri di me.
E’ giusto aiutare chi ha più bisogno di te, il poco che ho cerco sempre di dividerlo. Da tanto tempo faccio del volontariato alla Cisl di Bergamo, vado lì ogni sabato a dare una mano ad alcuni amici per il rinnovo dei documenti, gli do le informazioni che servono, mi sono fatto una grande esperienza in fatto di documenti, le informazioni le sento regolarmente.
Sì, da questo punto di vista mi sento inserito proprio nella società italiana, e ci sono riuscito con i miei propri mezzi, senza l’aiuto di nessuno. Ma dal ‘96, da quando è arrivata la moglie, non ho più amici italiani, perché quelli con cui giocavo anche a calcio, da quando non sono più andato all’oratorio, non mi riconoscono più. Se ci incrociamo in giro non mi parlano, non mi salutano neanche, fanno finta di non vedermi e anch’io faccio finta.
Ho perso i contatti con tanta gente… Ho gli amici senegalesi, quelli sì. Dal ‘96 fino ad adesso, il sabato arrivano gli amici a casa e stiamo qui a parlare, faccio la spesa, ogni tanto uno di loro porta qualcosa, e lì mangiamo insieme, guardiamo la televisione del nostro paese e il tempo ci passa. Ma passa a noi grandi, e per i bimbi? Devono crescere in mezzo ai grandi e arrivano a dieci anni che sono già maturi e non va bene…

Giù avevo fatto ragioneria e avevo preso il diploma. Non mi è servito a niente perché è così la vita, perché l’immigrato è sempre un immigrato e solo il tuo paese è sempre il tuo paese. Si dice che tutto il mondo è paese, e da un certo punto sì, è vero, ma dall’altro no, perché la nostalgia ce l’hai sempre quando sei lontano da dove sei nato. Per fortuna adesso abbiamo la cittadinanza italiana e possiamo tornare giù a casa, iniziare un’altra vita, con più tranquillità. Cercheremo di superare anche gli ostacoli, perché tornare dopo vent’anni…
Soprattutto per i bambini: dovranno cambiare modello di vita e tutto, sono nati qui e per loro andare a vivere in Africa… Vedremo e speriamo in bene. Io la voglia di lavorare ce l’ho sempre, ma andare avanti qui non me la sento più perché rischiamo solo di indebitarci sempre più invece che risparmiare.
Qua ho già dei debiti, ho la macchina da pagare e non vorrei proprio farne altri in questi momenti che sono i peggiori per tutto il mondo. Preferisco andare a indebitarmi giù, per tentare un’altra avventura.
Mi guardo molto in giro, ho la speranza di farcela. Per il momento ho tutte le carte in regola per partire, sono riuscito a prendere un po’ di macchinari per le pulizie delle case, officine e così, ora sto cercando di risparmiare per comprare un furgone per riuscire a caricarli e portarli giù. Poi la mia famiglia mi raggiungerà. Sì, posso dire di sentirmi un vincente. Perché nonostante tutte le difficoltà della vita, dopo venticinque anni che mi sono sacrificato per la famiglia, oggi possiamo dire che stiamo tutti più o meno bene e non abbiamo bisogno di nessuno. E’ già qualcosa. Sì, io mi sento vincente proprio al cento per cento.

Ho solo un grande rimpianto: non essere riuscito a portare la mia mamma alla Mecca. Stavo mettendo via i soldi per farlo, ma è morta prima… Fin da piccolo avevo un sogno, a cui ripensavo ogni volta che vedevo una signora col suo autista. Ecco, io sognavo che davvero un giorno avrei comprato una Mercedes dove mia mamma sarebbe stata dietro e il suo autista davanti… E quando è morta, quei giorni lì, mi passava sempre davanti l’immagine di una signora che scendeva dalla macchina. E ora quello che avevo in mente per mia mamma ce l’ho in testa per mia moglie. Chissà…

Sì, traghetto il furgone a Marrakesh e poi di lì ci sono 4000 chilometri.

Una città, Intervista a Papa Chissokhoultima modifica: 2010-09-24T16:38:56+02:00da mangano1
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