E.B, La crisi del pensiero unico

franco angeli editore

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Questa seconda edizione de La crisi del pensiero unico viene pubblicata a
distanza di appena un anno dalla prima uscita del volume. Nonostante il
breve periodo trascorso fra una pubblicazione e l’altra, la nuova edizione
presenta diverse novità. Il testo è stato arricchito da alcuni articoli dedicati
ai premi Nobel 2009 per l’Economia, alle ultime considerazioni annuali del
governatore della Banca d’Italia e a una breve digressione sul modo di
produzione dell’arte contemporanea. Ma soprattutto, questa nuova edizione
include una serie di contributi che esaminano i più recenti sviluppi della
crisi economica mondiale. Nella sezione dedicata alle controversie sulla
politica economica è possibile trovare le versioni ampliate di sei articoli
sulla crisi pubblicati nell’ultimo anno. Inoltre, la presente edizione contiene
un’appendice interamente dedicata al convegno La crisi globale. Contributi
alla critica della teoria e della politica economica. L’iniziativa si è svolta a
Siena nel gennaio 2010 e ha visto la partecipazione di alcuni tra i principali
esponenti italiani del pensiero economico critico. Gli atti ufficiali saranno
pubblicati nei prossimi mesi in un libro edito da Routledge, a cura mia e di
Giuseppe Fontana, dal titolo The Global Economic Crisis. New
Perspectives on the Critique of Economic Theory and Policy. L’interesse
suscitato dall’evento mi ha tuttavia indotto a inserire in questo volume
un’anteprima in italiano dei miei tre contributi al convegno. 
Nei giorni in cui questo libro va in stampa i principali istituti di
ricerca si barcamenano tra l’aspettativa di una tangibile ripresa che
consenta di decretare la fine della grande recessione del 2009 e il timore
che il mondo possa nuovamente piombare nella voragine di una crisi di
sistema. Tra i motivi di questa incertezza vi è il fatto che le cause di fondo
della crisi appaiono per molti versi ancora avvolte nel mistero. Sui media
passa l’idea che gli economisti siano concordi nel considerare la permissiva
legislazione finanziaria di questi anni un decisivo fattore di innesco della
crisi. Ma la verità è che tale chiave di lettura, pur condivisa, è considerata
del tutto insufficiente per spiegare un tracollo di così vaste proporzioni. Del
resto, basta abbandonare la superficie mediatica del dibattito per scoprire
che a un livello più profondo di analisi gli economisti sono in profondo
disaccordo tra loro, al punto che si fatica a individuare una spiegazione
della crisi che possa ritenersi prevalente sulle altre. Emblematica in questo
senso è la controversia interna al mainstream neoclassico.1 Nell’ambito
dell’ortodossia si confrontano almeno due tesi. Da un lato abbiamo
l’interpretazione che fa capo a John Taylor, secondo cui il crollo del 2008-
2009 sarebbe da imputare a un eccesso di moneta in circolazione provocato
soprattutto dalle politiche espansive della Federal Reserve.2 Dall’altro lato
troviamo la spiegazione di Alan Greenspan e altri, secondo i quali si
sarebbe formato in questi anni un “eccesso di risparmio” globale a causa
della volontà dei cinesi di spender poco in modo da tenersi stabilmente in
posizione creditoria verso l’estero.3 Nonostante le comuni radici teoriche4
queste due chiavi di lettura giungono a delle implicazioni politiche
contrastanti, con una che individua le responsabilità della crisi nei vertici
della politica economica statunitense e l’altra che invece cerca il colpevole
a Pechino. Di queste tesi esiste poi una variante, che ai problemi derivanti
dalla politica del denaro facile o dall’eccesso di risparmio aggiunge le
deregolamentazioni bancarie che hanno reso possibile un uso disinvolto
della cosiddetta “leva”, cioè degli acquisti di titoli effettuati a debito.5  Ma
la controversia tra gli ortodossi non finisce qui. Dalle file del mainstream
iniziano a far capolino anche diversi “eretici”, più o meno dichiarati. Tra
questi spiccano i nomi di Fitoussi e Stiglitz, i quali sono giunti persino a
recuperare la tesi eterodossa del sottoconsumo dei lavoratori, causato a loro
avviso dalla grande sperequazione dei redditi avvenuta nel corso
dell’ultimo trentennio. Questa linea di ricerca presenta elementi di indubbio
interesse ma tra gli ortodossi dovrebbe suscitare non pochi imbarazzi: essa
risulta infatti palesemente incompatibile con i fondamenti logici delle
analisi mainstream, inclusi i modelli solitamente adoperati dagli stessi
Fitoussi e Stiglitz.6 Infine, sempre in campo neoclassico ma al di fuori
dell’attuale perimetro del mainstream, bisognerebbe menzionare almeno i
teorici del ciclo economico reale: sebbene situati un po’ ai margini della
scena, questi sono riusciti a inserirsi nella controversia sulla crisi
pubblicando un discusso manifesto contro le politiche di spesa del governo
federale americano.7 
Almeno per il momento, dunque, la crisi pare aver scatenato una
vera e propria “babele neoclassica”. Diversa pare invece la situazione
interna alle correnti eterodosse, e in particolare ai filoni di critica della
teoria economica dominante, 8 nell’ambito dei quali sembra insolitamente
farsi strada una tendenza opposta. In questi mesi abbiamo infatti assistito a
una eccezionale fioritura di contributi eterodossi sulla crisi, molti dei quali
sembrano convergere su una interpretazione del crollo che a grandi linee
può esser tratteggiata nel modo seguente.9 Nel corso delle ultime tre decadi
è andato consolidandosi un regime di accumulazione capitalistica globale
imperniato sulla finanza statunitense e orientato alla progressiva apertura e
deregolamentazione dei mercati finanziari, delle merci e del lavoro.
L’imporsi di questo regime ha determinato un generale inasprimento del
conflitto intercapitalistico, che a sua volta ha alimentato due grandi
tendenze generali: da un lato una crescente centralizzazione dei capitali e
dall’altro un intenso processo di frammentazione del lavoro, dal punto di
vista logistico, tipologico e normativo. A causa di queste due tendenze
interconnesse abbiamo assistito a un profondo mutamento nei rapporti di
forza tra le classi, consistente soprattutto nell’indebolimento – e talvolta
nella vera e propria disintegrazione – delle tradizionali rappresentanze
politiche e sindacali del lavoro che erano state ereditate dal Novecento. In
molti paesi questo mutamento si è tradotto in una intensificazione dei ritmi
lavorativi, in uno schiacciamento delle retribuzioni e in un
ridimensionamento dello stato sociale. Quali implicazioni hanno avuto
queste dinamiche sul processo di riproduzione del capitale? La principale,
tra di esse, è che nel tempo si è venuta a formare una enorme voragine tra la
capacità produttiva dei lavoratori e la loro capacità di consumo. In linea di
principio questo divario crescente avrebbe dovuto provocare uno
scivolamento del sistema mondiale verso la depressione. Ciò tuttavia non è
avvenuto subito. Per lungo tempo la crisi sembra esser stata scongiurata da
ripetute iniezioni di spesa autonoma provenienti soprattutto dal boom dei
valori della ricchezza finanziaria e immobiliare, e in particolare dai continui
sussulti speculativi di Wall Street. A fronte cioè di una compressione dei
salari e del welfare, e quindi dei consumi privati e collettivi dei lavoratori,
abbiamo assistito a un aumento delle spese dei possessori di capitale
finanziario e in parte anche di quei lavoratori che dall’incremento dei valori
finanziari e immobiliari traevano nuove opportunità di indebitamento. La
domanda effettiva è stata in tal modo sostenuta dalle spese di un insieme
eterogeneo di soggetti, dai “masters” di Wall Street a quelli che potremmo
definire “ultra-speculative working poors”, vale a dire poveri tramutati loro
malgrado in ultra-speculatori.10 Essendo destinate soprattutto ai consumi o
all’acquisto di abitazioni, queste spese non generavano capacità produttiva
aggiuntiva e quindi potevano contribuire a ridurre lo scarto tra la capacità
produttiva e la domanda. Su di esse si è potuto così edificare un
meccanismo di accumulazione globale estremamente complesso, il cui
funzionamento dipende dalla possibilità di generare continue “bolle
speculative”, vale a dire incrementi dei valori finanziari indipendenti e
prioritari rispetto all’andamento della produzione e dei relativi profitti.11
Questo meccanismo ha avuto quale suo indiscusso motore propulsivo la
finanza statunitense, e quale mezzo di propagazione il dollaro americano.
Gli andamenti di Wall Street e del biglietto verde hanno ispirato la
formazione di tutte le bolle speculative di questi anni e hanno permesso agli
Stati Uniti di finanziare una espansione senza precedenti delle importazioni
dall’estero. Per questa via l’America si è progressivamente trasformata in
una sorta di “spugna assorbente” delle eccedenze produttive del resto del
mondo, una “spugna” essenziale per la tenuta complessiva del sistema. Si
tenga presente che non è corretto interpretare questo processo sostenendo
che gli americani hanno speso al di là dei redditi correnti e attesi. Gli Stati
Uniti hanno tratto da questo sistema enormi vantaggi, derivanti soprattutto
dal fatto che gli input di spesa nascevano a Wall Street e si propagavano in
primo luogo sul territorio nazionale. Poi però quella spesa si diffondeva e
andava ad alimentare la produzione mondiale. E’ dunque solo grazie alla
“spugna” statunitense che il mondo intero ha potuto creare reddito,
nonostante la voragine globale che andava aprendosi tra la capacità
produttiva e la capacità di consumo dei lavoratori. 
Un regime di accumulazione di questo tipo non può tuttavia durare
all’infinito. Esso è intrinsecamente contraddittorio, ed è quindi
perennemente soggetto al rischio di avvitarsi su sé stesso. Per compensare
il divario crescente tra forze produttive e consumi ristretti delle masse
occorre infatti che i valori finanziari crescano sempre di più, in modo da
contrastare la stagnazione dei redditi dei lavoratori indebitati e la maggior
propensione al risparmio dei possessori di capitale. Il boom finanziario
tuttavia può durare nel tempo solo se la bolla speculativa viene alimentata
da una trama di rapporti di credito e debito sempre più fitta ed esasperata. Il
sistema si inerpica così lungo una scala sospesa nel vuoto, destinata al
tracollo non appena la fiducia sulla tenuta della bolla venga meno. Vi è chi
ritiene che il limite massimo del boom sia stato raggiunto quando la
contraddizione tra salari stagnanti e indebitamento crescente dei lavoratori
si è fatta insostenibile.12 Per quanto sia sempre difficile individuare le cause
ultime del punto di svolta di un fenomeno speculativo, questa spiegazione
trova in effetti vari riscontri teorici ed empirici e appare quindi in buona
misura condivisibile. 
Quali implicazioni per il futuro si possono trarre da questa
interpretazione alternativa della crisi globale? Qualsiasi congettura, al
riguardo, non può che partire da una previsione sulla capacità o meno di
Wall Street di fungere ancora da motore propulsivo dell’accumulazione
mondiale. La Federal Reserve e il governo americano sono intervenuti
generosamente per liberare gli istituti finanziari privati dal groviglio di
crediti inesigibili che avevano accumulato per sostenere il boom. In
seguito, con l’approfondirsi della crisi, le autorità statunitensi hanno agito
anche direttamente a sostegno  delle industrie maggiormente colpite dalla
recessione. Tuttavia, nonostante l’enorme espansione della massa
monetaria e dell’indebitamento pubblico, i bilanci delle istituzioni
finanziarie private appaiono ancora in larga misura compromessi e il
numero delle imprese insolventi cresce tuttora a ritmi eccezionali. Per
giunta negli Stati Uniti e all’estero si fanno sempre più insistenti le richieste
di quei gruppi che puntano a una massiccia svalutazione del dollaro. Queste
pressioni sollevano nuovi dubbi sul ruolo di riserva internazionale fino ad
oggi assegnato al biglietto verde. In un simile scenario è dunque inevitabile
che aumentino le incertezze sulla effettiva possibilità di rilanciare
l’accumulazione tramite il consueto meccanismo del boom speculativo
avviato da Wall Street. Anzi, un timore diffuso è che il ruolo dell’economia
americana si ribalti completamente, e che da “spugna assorbente” gli Stati
Uniti ben presto si trasformino in un paese orientato alla sola difesa del
mercato interno. A questo proposito vi è chi spera che una eventuale
chiusura americana sia scongiurata da una svolta espansionista della Cina,
ma in assenza di una profonda riforma del sistema monetario internazionale
è illusorio credere che un paese che non emetta la moneta di riserva
mondiale rinunci ai suoi attivi commerciali.13
In questo scenario di assoluta incertezza è dunque inevitabile che i
capitali dei vari paesi accentuino la concorrenza tra loro, in difesa dei
rispettivi mercati interni e alla strenua ricerca di mercati esteri in cui
riversare le eccedenze di produzione. Alla concorrenza tra capitali oltretutto
si aggiunge quella tra gli stati. Non riuscendo a coordinarsi tra loro, le
autorità di politica economica dei vari paesi finiscono infatti per
scimmiottare i comportamenti scoordinati e conflittuali dei singoli capitali.
Il dumping quindi si fa strada, l’economia rischia nuovamente di recedere e
il valore del capitale si riduce rispetto al valore dei debiti. La conseguenza è
che aumentano i fallimenti e si intensificano i processi di fusione,
acquisizione e centralizzazione dei capitali. Dallo scontro intercapitalistico
emergono così vincitori e vinti, con i primi che si ingrandiscono e
conquistano nuovi mercati e i secondi che invece si lasciano assorbire o
addirittura scompaiono. Naturalmente questo processo di centralizzazione
dei capitali potrà incontrare numerose resistenze e battute d’arresto. I paesi
che vedono deteriorarsi le finanze private e pubbliche, e che registrano la
scomparsa o l’assorbimento di gran parte dei capitali nazionali, riceveranno
attenzioni crescenti da parte degli speculatori e dei fondi specializzati nelle
ristrutturazioni aziendali. Le autorità di questi paesi potrebbero allora
tentare di reagire all’assedio attraverso legislazioni del lavoro ancor meno
stringenti, ulteriori deflazioni salariali, sussidi alle imprese, svalutazioni e
persino barriere protezionistiche, più o meno surrettizie.14 Come è noto
negli ultimi mesi tali politiche sono andate diffondendosi in gran parte del
mondo e alla lunga potrebbero arrivare a destabilizzare persino l’assetto
dell’Unione monetaria europea, come la recente avvisaglia della crisi greca
evidenzia.15 Ad ogni modo, quali che siano gli esiti della contesa tra capitali
e tra nazioni, la sua esasperazione determinerà certamente nuove pressioni
sul lavoro, che si tradurranno in un allargamento della forbice tra la
capacità produttiva e la capacità di consumo dei lavoratori. Per questa via la
contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e il consumo ristretto
delle masse si accentua, e con essa aumentano le possibilità di nuovi crolli.
Se dunque lo scarto tra la capacità produttiva e la capacità di
consumo dei lavoratori è destinato ad aumentare, se un boom finanziario
americano almeno equivalente a quelli degli anni passati non sembra
facilmente riproducibile, e se nelle attuali condizioni è illusorio sperare che
la Cina si disponga a far da traino dell’accumulazione, quale voce di spesa
autonoma non generatrice di capacità produttiva potrà crescere al ritmo
necessario per stabilizzare il sistema mondiale? Si badi che la questione è
rilevante non soltanto dal punto di vista analitico, ma anche ideologico.
Spieghiamo il perché. La teoria critica ci spiega che per anni
l’accumulazione è andata avanti grazie al sostegno di una spesa autonoma
finanziata dalle bolle speculative. Questa voce di spesa era indipendente e
prioritaria rispetto alla dinamica effettiva dei redditi, nel senso che
contribuiva in modo decisivo a generare la domanda necessaria per
“crearli”. La vulgata tuttavia interpretava il boom finanziario alla luce della
teoria neoclassica, ossia come un fattore in grado non di creare redditi ma
solo di “anticiparli”. Stando cioè alla teoria dominante, la crescita dei titoli
quotati in borsa veniva concepita come un mero segnale anticipatore della
crescita dei redditi futuri. Sulla base di questa chiave di lettura la spesa
autonoma trainata dalla finanza è stata per così dire “normalizzata” sul
piano ideologico, nel senso che la si è interpretata come il legittimo frutto
di una serie di diritti di proprietà privata, sia pure su redditi futuri attesi. Il
fatto stesso che la spesa autonoma si formasse all’interno del circuito del
capitale privato veniva interpretato come una ulteriore evidenza del suo
legame con dei diritti di proprietà. Grazie dunque a questa lettura
“normalizzante”, la meccanica del regime di accumulazione è stata resa
conforme ai canoni del pensiero unico liberista, e le sue contraddizioni
interne sono state opportunamente celate. Adesso però che la spesa trainata
dalla finanza privata sembra essersi scontrata con un limite di crescita, si
pone l’esigenza di trovare un’alternativa. Il finanziamento statale della
produzione di beni collettivi da un lato e la spesa militare dall’altro
rappresentano i due tipici estremi di un ventaglio articolato di opzioni
politiche. E’ difficile dire al momento quale di esse prevarrà.16 Ad ogni
modo si può già rilevare che tra le alternative possibili non si intravedono
voci di spesa autonoma che possano esser giustificate in base a un diritto di
proprietà privata. Tutte le opzioni richiedono infatti un input iniziale di
spesa pubblica, ossia un input che deve per forza provenire dall’esterno del
circuito del capitale privato. Inoltre, a parità di altri fattori l’iniezione di
spesa pubblica è in genere associata a un incremento delle importazioni. In
assenza di un coordinamento internazionale essa potrebbe generare tensioni
nei conti con l’estero, e quindi dovrebbe esser considerata incompatibile
con un regime di piena apertura dei mercati. A quanto pare, dunque, gli
scenari futuri non sembrano lasciare moltissimo spazio alle consuete
apologie del diritto di proprietà privata e della globalizzazione capitalistica.
Ecco perché oggi si può affermare che la crisi di riproducibilità materiale
del capitale si sta manifestando anche nei termini di una crisi ideologica del
pensiero unico liberista. In passato, come è noto, i momenti di
concomitanza di queste due crisi, materiale e ideologica, sono sempre stati
fecondi di novità politiche assolute, nel bene e nel male. I tempi prossimi
venturi si annunciano dunque politicamente sorprendenti. Tuttavia,
nell’assordante silenzio del lavoro, resta da capire quali attori sociali
sapranno meglio degli altri intercettare i punti di svolta della storia futura.  
L’interpretazione fin qui suggerita presenta alcune cruciali
differenze logiche rispetto alle analisi mainstream della crisi. La teoria
critica ammette che gli input di spesa provenienti dalla speculazione sono
stati favoriti dalle espansioni monetarie e dalle deregolamentazioni
finanziarie, cioè dalla rimozione dei lacci che nei decenni passati avevano
tenuto a bada le spinte propulsive ma destabilizzanti della finanza. Tuttavia
le espansioni e le deregolamentazioni vengono qui considerate non delle
cause ma delle conseguenze, necessarie a compensare il divario tra capacità
produttiva e capacità di consumo dei lavoratori. Secondo l’interpretazione
critica, dunque, il sottoconsumo dei lavoratori costituisce una determinante
prioritaria della crisi. Ciò spiega il motivo per cui in questi mesi ho talvolta
parlato di “crisi di un mondo di bassi salari”. Tale definizione ha
indubbiamente il pregio della sintesi, ma oggi riconosco che può ingenerare
degli equivoci. Da essa si potrebbe infatti ricavare l’erroneo convincimento
che esista un salario – e più in generale una distribuzione dei redditi – in
grado di garantire uno sviluppo “equilibrato” del sistema. Per quanto
diffusa anche tra gli eterodossi, questa tesi non coglie il carattere
instrinsecamente contraddittorio e strutturalmente instabile
dell’accumulazione capitalistica, e quindi va rifiutata.17 Inoltre, è bene
chiarire che la priorità della tesi del sottoconsumo è da considerarsi solo
relativa, nel senso che non deve implicare appiattimenti su una lettura
monocausale della recessione. Anzi, va rilevato che nel corso del convegno
di Siena è stata messa in evidenza la compatibilità di questa chiave di
lettura non solo con la tipica crisi di realizzo ma anche con un caso
particolare e logicamente coerente della caduta tendenziale del saggio di
profitto.18 In tal senso, possiamo ritenerci prossimi a una sintesi tra le
principali interpretazioni della crisi provenienti dai diversi approcci di
teoria critica? Una risposta secca, al riguardo, è forse prematura. Tuttavia
mi sembra di poter già sostenere che il crocevia fra le teorie critiche
descritto in queste pagine offre un punto di vista sulla crisi nettamente
privilegiato rispetto a quello dal quale si pongono le analisi di matrice
neoclassica. Si badi che tale valutazione non riguarda soltanto le critiche
teoriche, “interne” ed “esterne”, che da tempo inficiano la coerenza logica e
la rilevanza storica di tutti i modelli di ispirazione neoclassica.19 Il giudizio
formulato è anche di ordine empirico. Basti notare che l’interpretazione
critica dà conto di due tra le più macroscopiche evidenze degli ultimi
decenni: la crescita del divario tra il valore della produttività del lavoro e i
salari diretti e indiretti da un lato, e la crescita dei valori finanziari e
immobiliari rispetto ai redditi prodotti dall’altro. Tali evidenze, come
abbiamo visto, si situano alla base della lettura critica della recessione,
mentre non sembrano trovare sistemazioni altrettanto convincenti nelle
analisi mainstream della crisi.
Dopo anni di oblio saremmo dunque alla vigilia di un rilancio in
grande stile della critica della teoria economica dominante? Come abbiamo
visto i motivi teorici ed empirici per riaprire la contesa non mancano.
Inoltre, le contraddizioni materiali scatenate dalla crisi economica hanno
indubbiamente reso più dinamico anche il campo di battaglia delle idee.20
Non è un caso che rispetto agli anni di incontrastato scintillio del cosiddetto
pensiero unico alcuni segnali di insofferenza verso il mainstream siano
affiorati proprio ora, anche negli ambienti più conformisti dell’accademia.
Queste evidenze però non costituiscono una novità. Esse non rappresentano
in quanto tali una garanzia per il rivoluzionamento delle idee, e forse
nemmeno per la sola libertà del pensiero economico. Senza dubbio la teoria
critica rivela l’arcano della formazione e della crescita dei prezzi di
mercato, e ne mette in luce la distanza logica dal concetto neoclassico di
efficienza; l’analisi critica richiama pure l’attenzione sulla irrazionalità di
un regime di accumulazione che genera capacità produttiva, restringe i
consumi privati e collettivi delle masse, distrugge quindi la sua stessa
capacità e pretende poi di ripristinare le condizioni di riproduzione
attraverso una ulteriore restrizione dei consumi; la teoria critica arriva
infine a sollevare dubbi sui presunti legami tra capitalismo, libertà e
democrazia, e per questa via potrebbe fornire un contributo analitico
decisivo alla riapertura del dibattito sul concetto di pianificazione e sulla
sua potenziale modernità.21 Assodato questo, però, non si può dimenticare
che la disputa fra la teoria economica dominante e la sua critica è questione
dialettica, non solo analitica. I due paradigmi possono infatti esser concepiti
non solo come programmi alternativi di ricerca scientifica, ma anche come
linguaggi di un rapporto sociale tra gruppi antagonisti, e in ultima istanza
tra le classi. La crisi non ha invertito ma sembra avere addirittura
cristallizzato i termini di quel rapporto, che da tempo verte sulla totale
sudditanza del lavoro rispetto alle altre forze sociali in campo. Non ci si
può quindi illudere che in una fase come questa si rivoluzionino di punto in
bianco i codici linguistici chiamati a interpretare gli snodi del conflitto
sociale. Nonostante la crisi del pensiero unico, corriamo dunque il rischio
che il fondamentale contributo scientifico della teoria critica rimanga
confinato ai margini della contemporaneità? Di certo, la lotta contro i modi
abituali di pensiero e di espressione rappresenta una tremenda fatica
materiale, ed esige pertanto un attore politico che se ne faccia carico. Senza
di esso le visioni illuminanti del sistema resteranno ancora a lungo
sommerse e dimenticate.  

10 aprile 2010  
E.B.

1
Una discussione che tra l’altro sembra essere iniziata in ritardo. A tal proposito si
veda la relazione di Andrea Imperia e Vincenzo Maffeo al convegno “La crisi
globale” (Siena 2010; www.theglobalcrisis.info). Si veda anche l’articolo
Quell’ombra in fondo al tunnel, nel presente volume. Per “mainstream
neoclassico” qui intendiamo il filone cosiddetto “imperfezionista”, nel quale
rientrano i modelli eredi della Sintesi neoclassica, in genere definiti New
Keynesian. Per una definizione rigorosa del significato attribuito in questa sede al
concetto di “mainstream”, rinvio alla Introduzione al convegno “La crisi globale”,
riportata nell’Appendice II di questo volume.
2
Taylor colloca la sua analisi della crisi nell’ambito di un più generale atto
d’accusa contro l’eccesso di interventismo delle autorità di politica economica
statunitensi. A questo riguardo è interessante notare che egli si considera al tempo
stesso un “New Keynesian” e un liberista. Il fatto che tale posizione non presenti
incoerenze particolarmente rilevanti mette in luce la distanza teorico-politica

esistente tra Keynes e i suoi attuali, presunti epigoni. Per tutti i riferimenti, si veda
Una critica delle interpretazioni della crisi basate sulla regola di Taylor, riportata
nell’Appendice II del presente volume.
3
Ibidem.
4
Ibidem. 
5
Gli economisti Alesina e Giavazzi, tra gli altri, sostengono questa tesi (Alberto
Alesina, Francesco Giavazzi, La crisi. Può la politica salvare il mondo?, Il
Saggiatore, Milano 2008). Questa chiave di lettura viene riproposta anche nella
edizione italiana del manuale di macroeconomia di Blanchard, di cui Giavazzi è il
curatore (Olivier Blanchard, Macroeconomia, Il Mulino, Bologna 2009; edizione
italiana a cura di F. Giavazzi e A. Amighini).
6
Si veda Sulla rilevanza della critica al mainstream e Introduzione al convegno
“La crisi globale”, riportati in Appendice II.
7
“With all due respect, Mr. President, that is not true”, manifesto del CATO
Institute, New York Times, 28 gennaio 2009. Firmato da circa 250 economisti, il
manifesto contestava il neo-eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il
quale aveva dichiarato che non vi sarebbe stato alcun disaccordo intorno alla
immediata esigenza di un piano di intervento del governo per uscire dalla crisi.
Con il loro manifesto gli economisti firmatari hanno invece espresso il loro
dissenso nei confronti della tesi interventista. Le scuole di provenienza dei
sostenitori del manifesto sono diverse, ma tra le firme spicca quella di alcuni
teorici del ciclo economico reale, tra cui il premio Nobel 2004 Edward Prescott. Si
tenga presente che la teoria del ciclo reale è senz’altro definibile “neoclassica” ma
attualmente non può esser fatta rientrare nel cosiddetto “mainstream”. Per un
chiarimento si veda la Introduzione al convegno “La crisi globale”, cit., in
Appendice II. 
8
Come è noto, l’espressione “critica della teoria economica” fu adoperata da Sraffa
nel sottotitolo del suo celebre Produzione di merci a mezzo di merci. Essa
chiaramente riecheggiava la “critica dell’economia politica”, sottotitolo del
Capitale di Marx. Per una definizione stringente di teoria critica, fondata su un
impianto epistemologico di ispirazione althusseriana e su una sintesi teorica tra gli
approcci del Surplus e del Circuito monetario, rinvio al saggio Una teoria
monetaria della riproduzione sociale, riportato nell’Appendice I.   
9
L’interpretazione della crisi descritta brevemente in questa prefazione trae le sue
fondazioni teoriche dai saggi riportati nelle Appendici I e II di questo volume. Tale
interpretazione presenta significativi elementi di complementarità con le relazioni
di Aldo Barba e Massimo Pivetti, Antonella Stirati, Lilia Costabile, Bruno Bosco
presentate al convegno “La crisi globale” (Siena, 2010). Diverse corrispondenze
teorico-empiriche si rilevano anche tra l’interpretazione della crisi avanzata in
questa sede e i contributi di Alessandro Vercelli, di Gennaro Zezza, di Enrico
Bellino, di Andrea Presbitero e Alberto Zazzaro e di Sergio Cesaratto al convegno.
Il contributo di Guglielmo Forges Davanzati e Riccardo Realfonzo suggerisce una
chiave di lettura della crisi in buona parte condivisibile e assimilabile alla nostra,
ma che risulta fondata su una interpretazione teorica del “circuito monetario” dalla

quale nell’Appendice I di questo volume implicitamente ci distanziamo. Riguardo
invece alla relazione di Pagano e Rossi dedicata ai rapporti tra la crisi e le
esternalità generate dalla produzione di “conoscenza”, sarebbe utile verificare la
possibilità di reinterpretare le stimolanti riflessioni contenute in essa in un ambito
di teoria critica. Una chiave di lettura generale della crisi, in parte diversa dalla
nostra ma non necessariamente alternativa, è suggerita anche dalla interessante
relazione di Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi al convegno. Infine, sul
contributo di Stefano Perri si vedano i rilievi riportati in seguito. Le versioni
provvisorie e le registrazioni audio delle relazioni sono già disponibili negli Atti
provvisori del convegno “La crisi globale. Contributi alla critica della teoria e
della politica economica”, Siena, 26-27 gennaio 2010. Relazioni di Brancaccio,
Vercelli, Barba e Pivetti, Bellofiore e Halevi, Fontana, Zezza, Imperia e Maffeo,
Pagano e Rossi, Stirati, Forges Davanzati e Realfonzo, Perri, Screpanti, Costabile,
Presbitero e Zazzaro, Bosco, Bellino e un contributo aggiuntivo di Cesaratto (si
veda la sezione “atti” del sito www.theglobalcrisis.info). Gli atti ufficiali sono in
corso di pubblicazione in un volume edito da Routledge a cura mia e di Giuseppe
Fontana. 
10
Si tratta evidentemente di una parafrasi del concetto minskyano di “posizione
ultra-speculativa”. Si veda in proposito Quell’ombra in fondo al tunnel, in questo
volume. Sulla funzione svolta dal processo di indebitamento dei lavoratori, si veda
anche la relazione di Bellofiore e Halevi al convegno “La crisi globale”, cit. 
11
Per una interpretazione del concetto di “bolla speculativa” nell’ambito della
teoria critica, rinvio a Emiliano Brancaccio, Stock markets and bubbles, Quaderno
DASES Università del Sannio, n. 7, 2005. Al riguardo si veda anche la posizione di
Greenspan, esaminata nella Introduzione al convegno “La crisi globale”,
Appendice II.
12
Si veda la relazione di Barba e Pivetti al convegno “La crisi globale”, cit. 
13
Sul dollaro, e più in generale sui problemi del sistema monetario internazionale,
si veda la relazione di Lilia Costabile al convegno “La crisi globale”, cit., e
l’articolo Finché dollaro non vi separi, in questo volume. 
14
Gli stessi banchieri centrali in queste fasi assolvono alla peculiare funzione di
gestori di ultima istanza delle bancarotte, e quindi di “regolatori del conflitto”
intercapitalistico tra imprese solvibili e imprese insolventi; un conflitto non
soltanto interno ai paesi in questione, visto che le imprese solvibili potrebbero
risultare di proprietà estera e quelle insolventi di proprietà nazionale. Questa
particolare chiave di lettura del ruolo delle banche centrali deriva da una inedita
riformulazione critica della “regola di Taylor”, espressa nei termini di una
condizione di solvibilità. Per un approfondimento, si veda Una critica delle
interpretazioni della crisi basate sulla regola di Taylor, riportata in Appendice II.
15
Sugli squilibri interni all’Unione monetaria europea, si veda il contributo di
Sergio Cesaratto al convegno “La crisi globale”, cit.; cfr. anche La Grecia,
campanello d’allarme per l’Europa, in questo volume. 
16
L’attuale orientamento dell’Amministrazione Obama  sui versanti della politica
sanitaria e della politica estera sembrerebbe scongiurare l’ipotesi di un rilancio

delle voci di spesa militare, e potrebbe quindi essere interpretato come un
approccio teso al rilancio del sistema tramite il finanziamento pubblico della
produzione di beni collettivi. Al momento tuttavia gli effetti della recente riforma
sanitaria e degli altri provvedimenti dell’Amministrazione sugli andamenti futuri
del deficit statale, sulla distribuzione dei redditi e più in generale sul rapporto tra
privato e pubblico, appaiono di difficile decifrazione. Essi vengono da più parti
considerati controversi e nella migliore delle ipotesi modesti. Infatti, dal punto di
vista macroeconomico, anche quando si muovono in direzione redistributiva tali
misure per il momento non sembrano di dimensioni sufficienti per generare livelli
di spesa autonoma lontanamente paragonabili a quelli che scaturivano dalle bolle
speculative. Infine, il fatto che negli Stati Uniti montino pressioni per deprezzare il
dollaro e per ridurre le importazioni americane dall’estero, potrebbe limitare molto
gli effetti globali di qualsiasi eventuale provvedimento espansionista.    
17
Un tipico esempio di determinazione di una distribuzione di “equilibrio” in
ambito eterodosso è discusso ne Il vincolo di Tarantelli, in questo volume. 
18
Si veda la relazione di Stefano Perri al convegno “La crisi globale”, cit. Le
evidenze empiriche riportate da Perri restano da verificare. Tuttavia sul piano
teorico il suo contributo ha il pregio di risultare compatibile con un sistema dei
prezzi di produzione nel senso di Sraffa, e più in particolare con uno schema di
teoria monetaria della riproduzione sociale, nel senso definito dall’appendice I del
presente volume. Ciò rende l’analisi di Perri diversa e forse più robusta di altri
contributi contemporanei in tema di caduta tendenziale del saggio di profitto.   
19
Per un approfondimento si veda l’Appendice I. 
20
Un esempio in tal senso proviene dal Manifesto per la libertà del pensiero
economico, promosso dalla Associazione Paolo Sylos Labini
(www.syloslabini.info).  Pur avendo partecipato alle fasi iniziali di stesura del
“manifesto”, mantengo personalmente alcune riserve sull’impianto generale del
documento finale, che mi sembra in vari punti affrettarsi su una lettura “etica”
prima ancora che “strutturale” dei fatti e delle relative implicazioni politiche. Ad
ogni modo l’iniziativa è da ritenersi lodevole e tempestiva. Essa tra l’altro mi pare
immune dalle critiche che le sono state rivolte da Claudio De Vincenti ed Emilio
Barucci in una serie di interventi pubblicati su www.nelmerito.com. De Vincenti e
Barucci imputano al manifesto di trascurare gli sviluppi recenti della teoria
economica mainstream, e in particolare l’apporto delle analisi cosiddette
“imperfezioniste” o New Keynesian. A loro avviso, tali analisi andrebbero
opportunamente distinte dalla ideologia del pensiero unico liberista che ha
dominato gli orientamenti di politica economica degli ultimi decenni. Ora, la tesi
secondo cui non sussiste una corrispondenza univoca tra l’attuale mainstream
imperfezionista e le politiche liberiste mi sembra del tutto condivisibile, come del
resto si evince da questa stessa prefazione e dalla Appendice II del presente
volume. Credo tuttavia che De Vincenti e Barucci non colgano alcuni cruciali
limiti interpretativi del mainstream imperfezionista, che ad esempio non sembra
logicamente in grado di incorporare una spiegazione della crisi basata sulla
divaricazione tra produttività del lavoro e salari, e quindi tra capacità produttiva e

capacità di consumo dei lavoratori. Questo limite è chiaramente evidenziato dalla
attuale, contraddittoria posizione di Fitoussi e Stiglitz, i quali accettano
l’interpretazione “da bassi salari” della crisi ma non sembrano in grado di
riprodurla nei loro consueti modelli teorici mainstream. Per un approfondimento, si
veda la Introduzione al convegno “La crisi globale”, cit., nella Appendice II di
questo volume.    
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Si veda la Introduzione al convegno “La crisi globale”, in Appendice II.

E.B, La crisi del pensiero unicoultima modifica: 2010-12-06T17:14:22+01:00da mangano1
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