Franco Romanò, Intervista a Costanzo Preve

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Intervista a Costanzo Preve

a cura di Franco Romanò
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Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s’insiste sui punti nevralgici della Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo, scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci.

Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate dalla presidenza Obama.

Franco Romanò: Nel suo libro Storia dell’etica lei afferma che nessuna etica comunitaria è possibile nella fase attuale dello sviluppo capitalistico, ma solo comportamenti etici individuali basati sul buon senso e che non necessitano di alcuna problematizzazione filosofica; oppure sono possibili etiche settoriali. Perché?

Costanzo Preve: Come è noto in italiano esistono due parole: morale ed etica. Un tempo erano una parola sola: il greco ethos corrisponde al latino mos. La parola “morale” è la traduzione latina della parola greca che ha lo stesso contenuto: quello di etica comunitaria, cioè che mette in rapporto l’individuo con gli altri. Nel corso del tempo tale etica diventa sempre più incompatibile con la formazione di una società borghese capitalistica che invece si basa su un rapporto individualistico con la comunità. Già in Kant, la morale non è più etica, nel senso che si costruisce come imperativo categorico del singolo individuo, che addirittura sospetta di eteronomia (parola che per Kant ha un valore negativo) ogni morale che si relaziona con l’altro e non con se stesso. Nella teoria di Hume, il capitalismo si fonda sulle abitudini della natura umana allo scambio e quindi per lui la società capitalistica non ha alcun bisogno di fondazione religiosa, né politica (contratto sociale) e neppure del principio di causalità; tanto meno di fondazione filosofica, infatti egli critica la teoria dei diritti naturali della sua epoca. Per Hume il capitalismo si fonda su un separazione netta fra morale ed etica, in cui l’etica è interamente risucchiata nella morale. Su questo l’idealismo tedesco reagì e separò di nuovo etica e morale. Nel suo sistema Hegel chiama morale l’atteggiamento coscienziale del singolo e chiama etica un insieme di comportamenti accettati socialmente. Certo, l’etica comunitaria di Hegel è borghese: la famiglia patriarcale, le professioni, la società civile, lo stato prussiano. La sua impostazione però rimane ancora in Marx, che elimina l’aspetto borghese di Hegel, ma conserva l’aspetto fondamentale: il comunismo è una società che si basa su un’etica comunitaria e non più sulla morale individuale, anche se questa non sparisce.

FR: È il capitalismo in sé oppure è la sua versione finanziaria, quello che i greci definivano crematistica, cioè l’arte di fare soldi in qualsiasi modo, distinta dall’economia vera e propria che per loro era il perseguimento del bene comune?

CP: Il fatto che i greci, pur essendo all’interno di una società schiavistica (parlo di Aristotele in questo caso) avessero chiara la differenza fra economia e crematistica, è il segnale che essi avevano una chiara idea che l’individuo è pur sempre incorporato in una comunità. Questo fatto viene totalmente perduto con la modernità e cioè da Hobbes e Locke in poi. La Thatcher lo disse chiaramente che non esiste più società ma soltanto gli individui. Lei rivelò apertamente quello che era il segreto, da parecchio tempo, della società capitalistica. Essa può permettere soltanto delle etiche settoriali, cioè deontologiche professionali: l’etica dell’ingegnere, l’etica del chirurgo, dell’insegnante ecc. È chiaro che il buon ingegnere progetta case con sistemi antisismici laddove esiste un pericolo di terremoto.

FR: Ha fatto un esempio che mi fa pensare che anche le etiche deontologiche non se la passino bene in Italia.

CP: Certo, viene continuamente violata; ma comunque esiste una deontologia, non se ne può fare a meno. Esistono poi delle problematiche morali, come l’eutanasia, le staminali, l’accanimento terapeutico ecc. Tutto questo non lo nego, ma fondamentalmente il capitalismo, per la sua stessa riproduzione, non può permettersi una vera etica sociale comunitaria.

FR: L’etica comunitaria dei greci era basata sul metron, la misura rispetto allo smisurato. Chi può avere oggi l’autorevolezza e l’autorità di imporre una misura al capitalismo? Oppure quale speranza razionale possiamo coltivare che questo in futuro possa avvenire?

CP: Attualmente nessuno può avere questa autorità e autorevolezza e ciò naturalmente è un fatto molto negativo. Possiamo avere delle simpatie per dei movimenti, ma gli unici due momenti nel recente passato di auctoritas sono stati il comunismo sovietico e il maoismo cinese che hanno influenzato i gruppi della sinistra negli anni ’60 e ’70. Il postmoderno le ha spazzate via, sia nel loro aspetto deteriore di narrazioni teleologiche e messianiche, sia nel senso di coltivare una speranza razionale e questo è un fatto negativo. Il fatto che le grandi masse abbiano fiducia in una autorità (pensiamo anche a Cristo e a Buddha e non solo a dei leader politici) è un fatto positivo e non negativo, come invece pensano molti intellettuali. In quanto alla speranza ne distinguerei due tipi: quella cieca, della possibilità dell’inserzione messianica nella storia di un meteorite comunista (un po’ alla Benjamin) che cade sulla terra (che per me è anche un alibi ipocrita per giustificare la propria mancanza di prassi), e poi c’è la speranza aristotelico-marxiana e cioè che all’interno della vita che stiamo già vivendo si inseriscano degli elementi alternativi che si sviluppano dentro di essa: questa è la speranza razionale.

FR: Dunque è possibile ancora pensare a un’eti ca di resistenza e anche a una politica come speranza che il capitalismo continui a creare il suo o i suoi antagonisti?

CP: Certamente sì, in linea generale si può dire che il contenuto del progetto di Marx è che il capitalismo produce contraddittoriamente i suoi antagonisti e non penso che si possa abbandonare questa ipotesi e che l’unica possibilità sia una conversione religiosa contro di esso. Vorrebbe dire tornare all’Apocalisse di Giovanni, buttando via insieme con le scorie anche il contenuto strutturale della teoria di Marx. Solo che il venir meno del messianismo sociologico proletario ha delle conseguenze gigantesche, perché per cento anni la speranza fu legata a un soggetto storico concreto e a un partito politico e questo lascia un gigantesco vuoto; noi siamo in questa voragine e in questo momento l’unica possibilità concreta è una politica di resistenza, ma se dovessimo misurare le speranze in base alla voragine in cui siamo caduti dovremmo dire di essere senza speranza. Dobbiamo pensare che ciò che pensiamo vada al di là dei rapporti di forza sfavorevoli. Quanto al pessimismo storico, esso prende varie forme, di destra e di sinistra. La variante di sinistra rappresenta oggi un alibi per il rinvio della prassi da parte degli intellettuali accademici: è per questo che Adorno è molto di moda. Non dobbiamo limitarci a questo. Il francofortismo secondo me è stato un momento di pessimismo storico legato al fatto che una generazione delusa trasforma la sua personale delusione in filosofia della storia. Pensiamo anche al ’68: i sessantottini hanno elaborato una forma di messianesimo a breve termine, sulla base di una idealizzazione del soggetto sociologico operaio. In realtà volevano una liberalizzazione del costume comportamentale e sessuale, che fu dato dal capitalismo che stava cambiando. Successivamente hanno trasformato questa delusione in filosofia della storia.

FR: Forse però dei soggetti antagonisti esistono già: i popoli originari del Sud America per esempio, tutta la questione indigena ecc. ma anche l’orizzonte dei nuovi diritti (penso al movimento omosessuale, ma non solo), i movimenti femminili e femministi, non prefigurano forse delle potenzialità che possono giocare un ruolo strategico antagonista, oppure sono semplicemente potenziali target di mercato, integrabili dall’ideologia del politically correct? Insomma, per dirla in parole povere: la globalizzazione è solo finanziaria e ha prodotto soltanto una middle class globale, oppure ha permesso anche il nascere di soggettività potenzialmente antagoniste?

CP: Un conto è salvare la speranza razionale, altra cosa invece, secondo me, è formulare speranze utopiche che le donne indiane, i contadini dell’America latina, che gli indios aimarà e quechua ecc. sostituiscano il soggetto emancipatore della teoria di Marx e cioè la classe operaia salariata come avanguardia politica organizzabile del lavoratore collettivo sociale. Noi siamo di fronte a una attraversata del deserto, non possiamo togliere al comunismo né la prospettiva e neppure il presupposto che il capitalismo stesso produca i suoi seppellitori. Il fatto però è che non sappiamo più se li produce davvero o no. In un certo senso il marxismo è entrato nella fase pascaliana del dubbio e della scommessa. Noi non siamo abituati a passare da Tommaso D’Aquino a Pascal e cioè, fuor di metafora, da una teologia razionalistico-aristotelica che pretende di dimostrare dio, a una teologia del dubbio per cui quello che prima era una sicurezza positivista è solo una scommessa. È il dramma della nostra generazione ed è la ragione per cui molti hanno abbandonato completamente la prospettiva comunista perché non la vedevano più, in quanto l’avevano legata alla classe operaia di fabbrica, in Italia addirittura nella variante operaista dell’operaio massa.

Quanto a quelli che lei chiama i movimenti per i nuovi diritti, dico che ridurre la rivendicazione da parte di gruppi sociali o sessuali oppressi, per esempio le donne, specialmente del terzo mondo, e gli omosessuali anche da noi, unicamente target del politicamente corretto sarebbe sciocco; perché, se è vero che il politicamente corretto s’impadronisce di queste esigenze per contrapporle alla eguaglianza sociale, se ci limitassimo a dire questo rimarremmo prigionieri delle sue strategie. Io tuttavia distinguerei fra donne ed omosessuali. Il movimento femminile, non femminista, ha conseguito grandi risultati in Europa, nei paesi scandinavi addirittura c’è una eguaglianza totale e anche una femminilizzazione ideologica della società. Nei paesi ebraico cristiani ha conseguito una eguaglianza di fatto nel mondo del lavoro e anche -una maggiore autonomia all’interno della famiglia anche se le donne in Italia, in Grecia e in Portogallo (molto più che non in altri paesi), hanno un carico maggiore per quanto riguarda la riproduzione della famiglia stessa: lavori domestici, cura dei figli e degli anziani e così via. Il fatto che ci sia un sollevamento delle donne oppresse nei paesi musulmani, induisti e buddisti è molto positivo. Il femminismo però è un fenomeno diverso, della piccola borghesia intellettuale occidentale posteriore al ’68 e personalmente, su di esso il mio giudizio è negativo, ma lo separo totalmente però dai movimenti femminili. Io non concordo con le politiche separatiste e le cosiddette gender politics e distinguo fra movimento femminile e femminismo, anche se mi rendo conto che le femministe si identificano come un’avanguardia dei movimenti femminili in generale, ma il discorso si farebbe molto lungo. Per l’omosessualità distinguerei fra omosessuale e gay, sebbene io sappia che le parole si sovrappongono. Il diritto dell’omosessuale a vivere il suo rapporto socialmente accettato e anche garantito da forme giuridiche di reversibilità testamentarie e altro, per me deve essere sostenuto e bisogna condurre quindi una battaglia culturale anti omofoba. Quanto al gay pride e altre manifestazioni io credo che siano forme di spettacolarizzazione della politica che alla fine provocano inutilmente soltanto reazioni fascistoidi e feroci della parte più ignorante, intollerante e stupida della società. Non la giustifico, naturalmente, ma non vedo perché bisogna provocarla a tutti i costi. Non credo che le manifestazioni tipo gay pride aiutino l’emancipazione degli omosessuali, ma tendono a porre delle specie di show provocatori di tipo anglosassone che sono totalmente incorporate nella società dello spettacolo. Io credo che bisogna avere il coraggio di dire anche questo; la sinistra questo coraggio non ce l’ha perché ha introiettato la paura del politicamente corretto e questo non serve a nessuno.

Quanto all’altra parte della sua domanda, io non sono sicuro che quello che si chiama globalizzazione esista veramente. Esiste una globalizzazione finanziaria, ma non una globalizzazione sociale e politica; o meglio esiste una globalizzazione finanziaria sotto l’egemonia del multiculturalismo statunitense. Io sono meno ottimista di altri. Viene meno la classe operaia proletaria metropolitana ma in compenso arrivano altri soggetti: i contadini poveri del terzo mondo, le masse africane e così via. Questo è assolutamente vero ma non pensiamo che costoro possano sostituire il soggetto. Dico semplicemente che mettono in atto condizioni e prospettive nuove all’interno di un panorama nuovo, da cui forse nascerà qualcosa; è una scommessa che si vedrà nei prossimi decenni e la nostra generazione non la vedrà.

FR: Lei afferma, che per nutrire la speranza razionale di rifondare un’etica e anche una politica anti capitalistica adeguata ai tempi bisogna pensarla come ontologia dell’essere sociale, il che, al di là che ci siano o meno forze antagoniste, presuppone anche una riconversione totale da un punto di vista teorico. Vuole chiarire questo punto?

CP: Con il termine ontologia dell’essere sociale ci si può riferire a due diverse cose: prima di tutto a un libro di Lukács scritto nell’ultima parte della sua vita, che porta questo titolo. Al libro seguirono anche dei prolegomeni che però vertevano sulla stessa teoria. Lukács, che considero il più grande marxista del ‘900, individuò il cuore del problema del marxismo novecentesco nella polemica contro il materialismo dialettico, fondato da Engels e da Lenin, che ipotizzava l’omogeneità fra le leggi che presiedono la riproduzione della natura e quelle della società. Lukács capì che questa ipotesi non era altro che un residuo di positivismo, filosofia egemone negli apparati universitari tedeschi del tempo, cui Engels spontaneamente aderì. La stessa classe operaia tedesca e la Seconda Internazionale, peraltro, aspiravano ad acquisire i punti più alti della scienza borghese contemporanea.

FR: Turati diceva di sé di essere positivista e quindi marxista…

CP: Sì, negli anni fra il 1880 e il 1910, di fatto, marxismo e positivismo erano sinonimi.

FR: Non così per Labriola…

CP: Sì, tranne Labriola, che stava un po’ a metà, mentre non lo era per niente Gentile, che sostenne per primo che il marxismo era una filosofia della prassi e non della natura. Gramsci era gentiliano puro, naturalmente comunista e non fascista. Nel mio libro Marx inattuale quando si parla di ontologia dell’essere sociale ci si riferisce alle caratteristiche strutturali dell’essere sociale, indipendentemente dal fatto che sia schiavistico, feudale o capitalistico. Significa considerarlo distinto dall’essere naturale. Quest’ultimo viene indagato dalle scienze della natura, ma cosa li distingue? L’autocoscienza. Mentre l’essere naturale ha una sua storia evolutiva ma non è caratterizzato dal passaggio dall’essere in sé all’essere per sé, l’essere sociale è caratterizzato dal passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e questo deve essere messo al centro della filosofia. Ora, nella misura in cui il marxismo a partire da Engels fu fuorviato come Naturprozess e Naturgeschichte, era necessario restaurare l’ontologia dell’essere sociale come centro del marxismo stesso. Accettare tale ontologia significa rifiutare l’inevitabilità del passaggio al socialismo o al comunismo in quanto l’essere sociale, a differenza della natura, ha la possibilità di scegliere e quindi non ci può essere alcuna ineluttabilità nelle trasformazioni sociali, la scelta è sempre fondamentalmente non deterministica. Questa rinuncia è gigantesca e non mi stupisce che i comunisti l’abbiano ignorata quando Lukács era in vita e poi l’hanno completamente rifiutata. Egli chiedeva al movimento comunista una conversione totale e cioè la rinuncia al presupposto religioso che il comunismo è qualcosa di ineluttabile che nasce dalle ceneri della società capitalistica e che è possibile prevedere come se si trattasse di una legge di natura. Egli ha impostato giustamente il problema anche se poi è rimasto a metà strada; non perché fosse vile ma perché era un uomo totalmente inserito nella Terza Internazionale, diceva di sé di esser un vecchio cominternista. Se devo parlare di un mio profilo filosofico posso dire che secondo me la via individuata da Lukács era giusta, ma che bisogna andare avanti, ammettendo, per esempio che, mentre la teoria della storia di Marx è strutturalista, la filosofia in cui Marx incorpora questa teoria è idealista.

FR: Questo è un punto capitale del suo pensiero. Prima, però vorrei fermarmi ancora sull’ontologia dell’essere sociale. Questa ipotesi non presuppone, forse, anche una natura umana come ente naturale generico?

CP: Il concetto di ente naturale generico è la traduzione italiana non del tutto corretta della parola Gattungswesen, ossia un ente non specifico. Marx introduce il termine per distinguere l’umano dall’animale. Se una tigre mangia qualcuno non è dis-tigre mentre invece a differenza degli animali l’uomo può diventare dis-umano, cioè perdere la propria essenza. Questa concezione di Marx di essere umano come ente naturale generico, deriva da Aristotele, in quanto animale politico sociale comunitario con il logos e cioè linguaggio, ragione e capacità di calcolare i buoni rapporti sociali. L’antropologia marxiana è totalmente aristotelica, al di là delle differenze linguistiche. Chi studia il giovane Marx si va a impigliare nelle diatribe con Feuerbach, con Bauer ecc. e così facendo si perde di vista il problema principale e cioè la definizione marxiana di ente naturale generico. Ente vuole dire che non è l’essere ma solo un suo interprete. L’essere, come si sa, può essere interpretato in tre modi: l’essere Dio e quindi la concezione religiosa; l’essere non esiste, che porta al relativismo; infine l’essere sociale e dunque la storia come luogo hegeliano in cui l’ente generico si trasforma. Marx è un hegeliano comunista. Io rimango fermo su questa impostazione antropologica, che la scuola althusseriana e l’operaismo italiano (Toni Negri), negano. Sono allievo di Marx in quanto aderisco alla critica comunista della società capitalistica ma sono forse più allievo di Aristotele e di Hegel, filosoficamente parlando, perché Marx stesso ha poi qualche scivolamento positivistico, quando per esempio pensa che la filosofia possa essere abbandonata, cosa che io non condivido.

FR: Infatti, a differenza di altri marxisti, lei considera ancora centrale la filosofia e il rapporto stretto fra Hegel e Marx. In questo contesto quale è l’importanza della dialettica e cosa ne pensa dell’ostilità di cui è circondata, anche da parte di pensatori che si definiscono marxisti?

CP: In pochi minuti è difficile esporre il mio pensiero sulla dialettica: comunque su questo ho scritto dei libri e se mai rimando a quelli. In prima approssimazione direi che il pensiero dialettico è quello che prende atto della contraddizione interna di un complesso storico e ideale e che parte da questa contraddizione per cercare di spiegarla. L’ostilità nei confronti della dialettica ha diverse origini e in parte è dovuta ai suoi effettivi usi manipolatori: con la scusa della dialettica si può dimostrare che il bianco è nero e viceversa. Tuttavia questo non tocca l’argomentazione principale, ma soltanto gli usi truffaldini. La seconda cosa che non viene compresa dalla maggioranza dei marxisti è che esiste una sola logica dialettica, non esiste una logica dialettica materialista e una idealista, così come non c’è una matematica materialista e una idealista. Marx non crea un’altra dialettica, ma applica le leggi della dialettica a un nuovo oggetto sociale: il modo di produzione capitalistico. La reazione italiana alla dialettica è di due tipi: uno scientista (Della Volpe e Colletti) e una seconda di tipo differenzialistico. La prima opposizione ritiene la dialettica incompatibile con le scienze. Ora è veramente incompatibile con la scienza galileana in quanto tutta la scienza della natura è strutturata sulla logica di non contraddizione, ma questo riguarda esclusivamente le scienze fisiche e naturali.

Più recentemente vi è la reazione del postmoderno di Vattimo, che vede la dialettica come una specie di coazione all’unità e alla sintesi obbligata. Ora, entrambe queste reazioni non toccano a mio avviso il problema principale e cioè la distinzione fra dialettica logica e dialettica storica. La prima delle due, che trova la sua massima espressione ne La scienza della logica di Hegel, è una dialettica della coscienza ed effettivamente nel linguaggio di Hegel il concetto non è una categoria conoscitiva bensì l’autocoscienza libera del soggetto. Tale dialettica è effettivamente teleologica perché il soggetto giunge necessariamente, alla fine del percorso, all’autocoscienza. Questa necessità riguarda unicamente la dialettica logica. Nella dialettica storica non c’è nessun determinismo finale, la storia è per definizione aperta e multi lineare. Il vero dramma del comunismo è quello di avere sovrapposto la dialettica logica alla dialettica storica, creando in questo modo una sorta di logicizzazione indebita della storia, che Lukács chiama storia spogliata dalla forma storica. Tale distinzione è fondamentale e fin quando non si chiarisce questo punto secondo me non si fa un passo avanti.

FR: Con questo siamo ritornati all’ontologia dell’essere sociale, ma direi anche ad un altro tema importante. Se la storia non fosse aperta e multilineare non potremmo neppure parlare di alienazione.

CP: Quando Marx parla di alienazione, la parola tedesca è Entfremdung, cioè diventare fremd e quindi straniero a se stesso. Per poter affermare questo, bisogna che io postuli l’esistenza di una natura umana, che pur non essendo astorica, non si risolve al cento per cento nella storia. Perché se io ipotizzo la totale storicità dell’essere umano vuole dire che la natura umana non esiste e allora anche l’alienazione non esiste e di volta in volta l’essere umano corrisponderebbe semplicemente ai rapporti sociali di produzione del momento e quindi avremmo una natura umana schiavista, feudale, capitalistica. Naturalmente chi pensa questo considera la categoria di alienazione idealistica e sbagliata, per esempio la scuola di Althusser. Invece, se si considera che esiste una natura umana che si trasforma come ente generico, non specializzato come le termiti o i lupi, la categoria di alienazione, respinta dalle scuole scientiste è invece fondamentale. Possiamo dire che l’uomo è alienato perché ipotizziamo che esista una natura umana e che il capitalismo lo riduca a homo oeconomicus e quindi a una sua sola dimensione, quella dello scambio.

Negare la natura umana porta allo storicismo, che produce nel tempo relativismo e nichilismo: su questo punto Ratzinger ha ragione. Parlo non tanto di lui come Papa, una sorta di Mr Hyde che deve gestire un baraccone capitalistico, ma di lui come dottor Jekill e quindi come filosofo tedesco. Ratzinger capisce perfettamente, dal suo punto di vista teologico, che con una natura umana inesistente, come ipotizzano i vari Vattimo e altri, si arriva al relativismo; solo che non capisce che quello che si chiama relativismo è dovuto al fatto che in una società capitalistica tutto è relativo al valore di scambio. Io penso che la categoria di alienazione sia centrale e questo significa ritenere che la natura umana non sia interamente scioglibile nei rapporti sociali di produzione. A questo punto c’è una specie di gioco fra la natura umana biologica e la natura umana storica e sulla base della categoria di alienazione possiamo dire che laddove viene sfigurata e ridotta a solo homo oeconomicus, essa si aliena cioè diventa straniera a se stessa. Se accetto la teoria dell’alienazione e quella della natura umana, devo ricollocare Marx all’interno della tradizione filosofica greca e posteriore.

FR: Con questa sua affermazione arriviamo a toccare il nodo teorico forse più importante: lei rifiuta la collocazione di Marx come filosofo materialista.

CP: Sì, però Liebknecht fu il primo a dirlo apertamente, non è una novità assoluta. La maggioranza dei commentatori, tuttavia, si ferma a metà strada. Gentile e Lukács, per esempio, lo definirono un materialista con forti elementi di idealismo. La mia opinione è che Marx sia un filosofo interamente idealista che produce una teoria della storia strutturalista, definita, per metafora, materialista. Se si cerca la materia in Marx la si trova in quattro modi diversi: come metafora di ateismo, oppure di prassi nel senso che la filosofia deve essere trasformativa e non solo speculativa, come metafora di struttura, oppure di libertà materiale contrapposta alla libertà formale. In sostanza la materia, in Marx, viene sempre usata metaforicamente. L’equivoco sta nel fatto che nella tradizione marxista l’idealismo è concepito in senso gnoseologico, cioè come la teoria, per dirla con Engels, che mette il pensiero davanti all’essere; ma la teoria del rispecchiamento è valida certamente per la natura, ma solo per quella. Facendo un esempio molto semplice: se Lenin guarda il sole, il sole è indifferente al suo sguardo, ma se Lenin guarda la rivoluzione d’ottobre, di cui è parte integrante, essa non può esistere separata da lui.

Materialismo e idealismo non sono connotazioni gnoseologiche: idealismo vuole dire che l’intera umanità è concentrata in un’idea unitaria che non è però un contenuto di coscienza, ma è il modo in cui viene connotato un concetto unitario di realtà, nel caso di Marx la storia universale. Se uno mi chiedesse a bruciapelo in che cosa consiste l’idealismo di Marx risponderei che egli pensa la storia universale come luogo dell’emancipazione umana. In sostanza, mentre la teoria della storia di Marx non è idealista né materialista ma strutturalista, la filosofia in cui Marx incorpora questa teoria della storia strutturalista è una filosofia idealista, che può essere intesa come un’eresia dell’illuminismo, che ne critica gli aspetti astratti, individualisti e utilitaristi. Dunque, un’eresia borghese che elabora la coscienza infelice di se stessa. Un’altra mia opinione è che Marx non debba essere considerato un pensatore progressista, ma molto tradizionale, perché si ricollega alla tradizione dei presocratici greci che reagiscono, come comunità, di fronte all’invasione della schiavitù per debiti, allora, e del capitalismo oggi, per quanto riguarda Marx. Sono pronti i marxisti rimasti al mondo ad accettare l’ontologia dell’essere sociale e la visione del pensiero filosofico di Marx internamente a una filosofia idealista? Accettare Marx come pensatore tradizionale perché si ricollega alla tradizione greca e presocratica che reagisce all’insorgenza dell’economia schiavista? Sono convinto che ci vorranno decenni.

FR: Lei usa spesso il termine di raddoppiamento invece di sovrastruttura: sono sinonimi o c’è qualche differenza?

CP: Li possiamo considerare quasi sinonimi ma non esattamente, per cui in questo caso il diavolo si nasconde nel dettaglio. Che cosa è il materialismo storico? In Marx vi è una compresenza di due elementi che non si sovrappongono perfettamente. Una teoria della storia strutturalista è inserita all’interno di una filosofia della storia idealistica, cioè una filosofia della storia in cui l’umanità, nel suo percorso di emancipazione, è pensata unitariamente con una sola idea, come ho detto in precedenza. Nella filosofia classica tedesca idea non significa contenuto di coscienza (alla Locke). La differenza è chiara se si esaminano alcuni sintomi. Marx, per esempio, afferma a volte che il lavoratore salariato è libero, in altre parti della sua opera ne parla come di uno schiavo salariato. È evidente che lui sa benissimo che il salariato non è uno schiavo, tuttavia l’uso di due espressioni diverse è la spia che si sovrappongono due cose diverse. All’interno del modo di produzione capitalistico, a differenza dal modo di produzione schiavistico o servile il lavoratore è libero, scambia la sua forza lavoro con capitale, seppure all’interno di una discrepanza, perché il valore d’uso della forza lavoro venduta è più grande del valore di scambio ottenuto come equivalente. Da un altro lato, però, Marx pensa l’emancipazione del proletariato tramite la contraddizione di classe all’interno della figura hegeliana della dialettica servo-signore, in cui il servo può diventare libero soltanto se prende coscienza di se stesso. Tale struttura coscienziale è completamente idealistica.

Questo doppio carattere fa sì che in certe occasioni io preferisca la parola raddoppiamento, invece che sovrastruttura, per indicare al lettore come avvengano certi fenomeni all’interno del rapporto di produzione e come tali fenomeni vengono raddoppiati o duplicati nelle forme di coscienza. Non direi di proporre una alternativa alla definizione di struttura e sovrastruttura, ma di marcarne maggiormente il carattere di proiezione.

FR: Vorrei passare ad altri aspetti della sua ricerca. Lei afferma, in Storia del Materialismo, che nella fase attuale del capitalismo viene meno la correlazione dialettica necessaria fra borghesia e proletariato, in quanto la riproduzione capitalistica non ne ha più bisogno e usa, a questo proposito espressioni come capitalismo post borghese e post proletario. Tuttavia in altre parti dei tre libri lei afferma che lo sfruttamento esiste ancora e che il sistema globalizzato post borghese e post proletario si regge pur sempre sull’estorsione di plusvalore relativo e assoluto. Le chiedo allora: non esiste più la correlazione dialettica borghesia proletariato, oppure non riusciamo più a vederla?

CP: Se si pone la domanda: esistono ancora borghesia e proletariato?, la risposta dipende da che punto di vista ne parliamo. In base alla proprietà privata dei mezzi di produzione, la risposta è sì, ma si tratta della scoperta dell’acqua calda. Se però definiamo borghesia e proletariato intendendo non solo una collocazione economica nei rapporti di produzione, ma anche un’identità di carattere culturale, artistico, letterario, di autocoscienza, sessuale persino, allora le cose cambiano. Se ragionassimo solo in termini di rapporti di produzione dovremmo dire che Berlusconi è borghese come Cavour e in questo caso dovremmo avere insieme a lui anche la grande letteratura borghese, la grande arte borghese, un Manzoni, un Flaubert, un Verga, un insieme di abitudini e culture che invece non ci sono più. Chi si occupa di arte, musica, cultura, sessualità sa bene che la grande arte borghese non c’è più. Io non ho fatto altro che trasportare ciò che è ovvio in campo artistico e musicale ad altri campi. La mia ipotesi è che, a partire dal ‘6-700 sia decollato un soggetto borghese – quando il proletariato non esisteva ancora – che si è fatto strada fra i rapporti tardo feudali di produzione. Nella prima fase del capitalismo la borghesia ha funzionato come vettore dei nuovi rapporti di produzione e lo ha fatto anche nella filosofia, nel campo della arti ecc. Con la Rivoluzione Industriale inglese, la nascita del proletariato e la diffusione in Europa del capitalismo durante l’800 si entra nel secolo dello scontro borghesia-proletariato. Essi non più solo soggetti anonimi della produzione, ma esistono come identità e cultura. Poi è arrivato il comunismo storico novecentesco e il fatto che la borghesia abbia metabolizzato questa fase storica e la sconfitta del comunismo, ha modificato gli agenti della riproduzione capitalistica. Essi sono diventati anonimi, uso qui una definizione di La Grassa, cioè continuano a riprodurre la società capitalistica, ma senza più avere alle spalle Dickens, Thackeray, Balzac, Stendhal, Kafka e Freud. La mia ipotesi è che a partire dal ’68, è nato il mito di fondazione di un capitalismo anonimo; naturalmente sto parlando dell’Occidente, non dell’India o di altri paesi Latino americani, dove invece penso che una borghesia esista ancora, intesa come classe che produce anche una cultura e un’arte borghese: da Garcia Marquez a Salman Rushdie, i loro romanzi sono espressione di questo.

FR: Un ricordo personale, ero in Messico quando morì Osvaldo Soriano: ci fu un minuto di silenzio in tutto il continente.

CP: Certo, perché lo scrittore ha ancora una funzione sociale come l’avevano Manzoni, Flaubert, Dickens, Strindberg. Il capitalismo occidentale giunge al suo proprio concetto speculativo guardandosi non più come borghese, ma come pura merce e come puro denaro. La borghesia si è così completamente metabolizzata nel denaro astratto, nel mercato astratto. Questo non significa che non ci sono più coloro che detengono la proprietà privata dei mezzi di produzione e altri che vendono forza lavoro, e in condizioni ancora più precarie, ma non esiste più la cultura che corrispondeva a questo. Faccio un solo esempio che è anche un sintomo: la cultura borghese dava molta importanza alla storia, la cultura post borghese è destoricizzata. I film americani ci fanno vedere Troia come se parlassero di George Washington. Stiamo entrando in una configurazione che in un libro scritto insieme a Eugenio Orso, definiamo capitalismo neo-feudale, di cui io stesso non sono del tutto convinto, ma che è un tentativo di definire qualcosa di nuovo con parole nuove.

FR: Lei parla anche di suicidio della borghesia.

CP: Quando si parla di suicidio della borghesia, l’espressione è certo un po’ enfatica ma significa una cosa molte semplice: che la borghesia stessa si rende conto in modo inconscio che finché esiste un proletariato il suo potere è debole perché avrà sempre di fronte a sé un nemico. Per vincerlo ci sono due modi: distruggerlo, ma questo è impossibile perché la borghesia ha bisogno di lavoro salariato, nessun fascismo per quanto feroce potrà distruggere il proletariato. La cosa migliore è una specie di suicidio giapponese collettivo, dove borghesia e proletariato muoiono entrambi in una frammentazione individualistica. Quando affermo questo non penso che ci sia da qualche parte un comitato che lo abbia deciso, ma che questo sia avvenuto attraverso meccanismi che possiamo racchiudere in una specie di eterogenesi dei fini. Da circa 40 anni abbiamo assistito allo smantellamento del patriarcalismo borghese, l’avvento della gender politics, alla dissoluzione del rapporto genitori figli come rapporto di educazione e credibilità; infine la dissoluzione della grande arte borghese sia nella forma letteraria, sia pittorica. Tutto questo non indica un fenomeno che possa interessare gli studiosi di estetica, ma sono sintomi che la borghesia, estesa al mondo intero, doveva perdere i suoi aspetti weberiani, i suoi aspetti protestanti calvinisti, quelli kantiani, quelli illuministico francesi, oppure empiristico inglesi; l’unico collante è la naturalità del capitalismo, secondo Adam Smith.

FR: Rimango sullo stesso terreno ma le propongo uno scenario diverso. Non potrebbero rinascere entrambi i soggetti, certo profondamente trasformati, una volta che il processo di globalizzazione abbia superato la fase di spontanea e illimitata espansione seguita al crollo del comunismo novecentesco? In fondo la crisi strutturale di questi anni non dice anche questo? La dismisura non ha un limite in se stessa nel senso che oltre un certo grado finisce con l’auto distruggersi? Naturalmente dalle crisi non nasce necessariamente la consapevolezza e neppure un progetto alternativo, sto solo dicendo che anche la dismisura ha un limite e che l’ideologia della Merce globale è utopistica tanto quando lo erano certe illusioni rivoluzionarie.

CP: La domanda che ci si deve porre è questa: la crisi scoppiata nel 2008 rappresenta una crisi strutturale della globalizzazione oppure una crisi di un momento parossistico di essa? Pur non essendo un economista qualche idea ce l’ho. Questa crisi non inizia con la fine del comunismo novecentesco, ma dagli anni ’70 e inizio ’80 (Thatcher-Reagan per intenderci), con il passaggio da un modello keynesiano legato dunque al mercato interno e alla sovranità monetaria nazionale, a un capitalismo globalizzato multinazionale in cui gli stati perdono il controllo sulla sovranità monetaria, rendendo impossibili le politiche sociali. Gli ultimi venti anni io li vedo come una specie di orgia del capitale finanziario mondiale, liberato dalla presenza del comunismo novecentesco e dallo stato keynesiano. Questo ha portato a una finanziarizzazione dell’economia incredibile, il cui effetto principale è il lavoro flessibile e precario normale, la vera novità, perché non tocca più solo i vecchi artigiani, ma riguarda tutti; tutti sono esercito industriale di riserva. Naturalmente la corporazione universitaria non si è affatto occupata di questo, si è inventata la biopolitica, come se il problema non fosse il lavoro precario, ma il controllo poliziesco, alla Foucault. Si tratta di un pensiero alla fine del quale risulta che un maestro elementare e una guardia carceraria sono entrambi agenti della repressione: un altro tradimento dei chierici.

Quello che sta succedendo adesso, quando gli stati non riescono neppure a porre dei limiti ai bonus dei banchieri, è quasi incredibile, ma dimostra che la politica, in questa fase del capitalismo, ha perso ogni sovranità reale. Perciò questa crisi, per come la capisco io, è molto diversa dalla crisi del ’29, che produsse dei cambiamenti come il New Deal, anche se non bisogna dimenticare che la crisi fu superata solo con la Seconda Guerra mondiale e l’estensione dell’American way of life all’Europa. Il nuovo ciclo di sviluppo durò fino al ’73, l’anno in cui il potere d’acquisto dell’operaio specializzato statunitense cominciò a diminuire.

FR: Possiamo aggiungere anche la crisi petrolifera del ’74 e la fine degli accordi di Bretton Woods…

CP: Esattamente, e sono anni chiave, mentre la storiografia guarda ad altri eventi di solito, ma secondo me sono questi gli anni cruciali. Io non so come andrà avanti questa crisi, non lo sanno neppure gli economisti, se sarà strisciante oppure no, cosa farà la Cina, se ci sarà una moneta diversa del dollaro per gli scambi internazionali, però la mia impressione è che le crisi sono sempre crisi di distruzione e rinnovamento e che se non si inserisce un elemento di soggettività nuovo, come il movimento socialista nella prima grande crisi del 1873-96, e gli anni seguenti e poi di nuovo nel ’29, quando si affermarono contemporaneamente i fascismi e dall’altro i comunismi e il New Deal, si andrà avanti più o meno così, verranno tagliati alcuni estremismi e neppure poi tanto.

FR: Le faccio una sola domanda di stretta attualità, riguardante la presidenza Obama e le sue prime mosse, suggerendole quattro risposte possibili. Risposta numero uno: non vale nemmeno la pena di occuparsi di Obama, gli imperi hanno politiche rigide e immutabili, che governi lui o che governi Bush è più o meno la stessa cosa. Risposta numero due: Obama è la versione di colore di un certo idealismo americano inconcludente, un po’ alla Woodrow Wilson e un po’ alla Franklin Delano Roosevelt, la cui tensione ideale però finirà in niente. Risposta numero tre: le intenzioni di Obama sono sincere e lui rappresenta un protagonismo nuovo che ha alla sua base l’emancipazione dei neri americani, tuttavia la politica degli imperi è rigida per cui, o ridimensionerà strada facendo tutte le sue velleità, oppure ci penserà qualche servizio segreto travestito da Alkaeda. Risposta numero quattro. Quella di Obama è un’intelligente politica di rilancio della leadership americana all’interno di un mondo multipolare ormai accettato, che tuttavia apre contraddizioni, suscita energie, aspettative e protagonismi che potrebbero andare oltre i suoi disegni.

CP: Direi un misto fra la risposta tre e quattro. In primo luogo, però, dico che non sono d’accordo con chi dice che non vale la pena di occuparsi di Obama perché tanto l’Impero è l’impero e non cambierebbe mai. Io distinguerei fra la obamamania della sinistra europea e Obama in quanto americano. L’obamamania è una sorta di wishful thinking, come direbbero gli inglesi, cioè una forma di subordinazione e di interiorizzazione della collocazione della sinistra nell’impero americano; per cui la sinistra vorrebbe un imperatore buono invece che cattivo, preferisce Traiano anziché Nerone. L’obamamania non è una riflessione sui rapporti fra l’Europa e l’impero americano, ma è semplicemente una forma di veltronismo, cioè di interiorizzazione della subalternità. Questa è una delle ragioni per cui non mi interessa più la sinistra. Nella misura in cui la sinistra fosse ancora borderline, cioè a metà strada fra opposizione all’impero e attenzione a certe sue declinazioni più progressiste mi interesserebbe ancora, ma nella misura in cui è del tutto interna all’imperialismo occidentale perde la sua funzione storica e non mi interessa.

Se invece parliamo di Obama in quanto Obama dovremmo avere qualche informazione in più. Quel che si può dire è che certamente non è sovrano; lo è solo apparentemente e in realtà dipende dalle scelte sia del capitale finanziario sia della struttura militare del Pentagono e soprattutto della lobby ebraica che conta moltissimo e che determina la politica statunitense in Medio Oriente. Israele non è la coda del cane ma è il cane di cui gli Usa sono la coda, per quanto attiene la politica mediorientale. Obama è anche un lifting, nel senso che si presenta come maggiormente attento alla multilateralità, più che non fosse Bush, però in realtà non darei molta importanza a questo perché essendo un impero gli Usa hanno strutture imperiali permanenti: il suo controllo militare, la sua struttura di controllo e di spionaggio, che rimane identica qualunque sia l’imperatore. A questo punto direi una cosa: di fronte al caso Obama, noi dobbiamo aspettare. Da un lato nessuna grande speranza ma neanche che tutto quanto è uguale.

In generale, però, l’impero non può essere limitato da correnti d’opinione, manifestazioni pacifiste ostensive, che sono come il solletico su un rinoceronte; purtroppo, in questo momento, l’impero americano può essere contrastato solo da altre forze geopolitiche concorrenti, fondamentalmente Russia e Cina, ma anche America Latina. Tutto questo è molto triste per chi viene da una tradizione marxista, perché i marxisti vogliono sempre identificarsi con i resistenti tipo vietcong e non ci possiamo identificare con i baroni ladri ex sovietici, oppure con i capitalisti confuciani cinesi. Possiamo identificarci parzialmente con personaggi come Chavez, che si porta dietro la tradizione populista di sinistra latino americana, oppure con il Brasile di Lula. Personalmente do un giudizio molto positivo di Ahmadinejad, che considero una variante popolare e populista ma anche sociale e politica. Per me lui ha vinto le elezioni, c’è stato un tentativo di rivoluzione con i cartelli già pronti e scritti in inglese e non in persiano, perché il messaggio doveva uscire subito dall’Iran ed era rivolto direttamente alla CNN. Io non sono schizzinoso a chi si oppone all’impero americano come la giunta birmana o la Corea del nord, anche se non mi identifico affatto con loro eticamente, né le considero forze progressive. Però, avendo cessato il movimento operaio e socialista e il proletariato come classe di effettuare una resistenza politica al capitalismo, siamo in una attraversata del deserto in cui ci sono solo i dominanti che si combattono fra di loro e i dominati sono effettivamente senza voce. Non disprezzo quando ci si muove con scioperi, manifestazioni e altro, però in questo momento non ci sono forze strategiche sistemiche e questo perché la sinistra non esiste più come alternativa ma solo come variante buonista alla politica imperiale.

Franco Romanò, Intervista a Costanzo Preveultima modifica: 2010-12-06T17:17:38+01:00da mangano1
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