Guido Biancardi, I nuovi magi di Mirafiori

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GUIDO BIANCARDI
I nuovi Magi accorrono ai capannoni di Mirafiori

28-12-2010
Attirati dall’apparire di una newco-meta nel cielo di Torino–Detroit, dopo che l’arcangelo Guglielmo Epifani (!?), dopo l’annunciazione, ha già rifiutata come futura matrice sia Miriam-Emma Marcegaglia che Miriam-Susanna Camusso, per una “nascita assistita“, frutto apparente solo del “ruasch” dei tradizionali due animali domestici il cui fiato assicura sia la rappresentanza del creato ed il calore minimo alla grotta all’ombra del vecchio (Umberto o Giovanni?) Agnelli in veste di padre e dell’Elkann angelico in quella di festante testimone putativo, ecco avvicinarsi alla mangiatoia che accoglierà il nuovo nato, i Magi “nuovi”: Marchionne, Baldassarri e Gasparri, i loro nomi. Che sono volutamente così stati loro attribuiti non solo perchè riecheggiano quasi esattamente quelli della narrazione evangelica, ma, più ancora, in quanto essi riproducono, nei ruoli rispettivi, i saggi e gli studiosi che “per primi hanno vista la stella” che potrebbero essere individuati “in chiaro” ed attualizzati fra quelli “in carica” in Melchiorre, Tremonti e Sacconi.

Vengono chi più chi meno, da lontano, portatori di sapienza e di doni, ma da Occidente stavolta, rispettivamente manageriali e finanziari Elvetico-Canadesi, economici e finanziari renano-gallici piuttosto che conservativo/progressivi (!) dal campus di Modigliani in USA, e socio-normativi oltre che confessional-culturali, dallo Stato della Città del Vaticano.

Giungono ad ufficializzare, riconoscere ed adorare il nuovo Salvatore, nella figura del nuovo “flexilavoratore“ che lascerà finalmente la vecchia greppia delle corporazioni datoriali-sindacali, (preconizzate come elemento genetico e conservatore sociale esiziale per la comune dignità e solidarietà fra tutti i lavoratori italiani, già da Gaetano Salvemini), per istaurare un dialogo diretto “di responsabilità e salvezza” con il proprio Imprenditore. Senza intermediari non invitati, ammessi poi solo se partecipi del momento costitutivo del rapporto. Dopo di lui, ma con la controprova democratica (?) di un 51per cento di adesioni, nulla potrebbe essere più come prima!” Sono venuto per portare la guerra nella famiglia…”, ricordate? Ma anche: “Io sono la Via , la Verità, la Vita”.

“Pacem in terris” si proclama, quindi, per i lavoratori di buona volontà, dopo l’annunzio della lieta novella che un mondo tramonta per sempre e si apre la speranza della salvezza globale per coloro che avranno fede nel nuovo nato: il lavoratore post-post-fordista.

E’ un linguaggio, quello sin qui usato, certo in odore ,per alcune sensibilità, se non, certo, di blasfemia, di irrispettosa caricatura di un Evento che ha inciso in modo indelebile sulle coscienza e la vita di gran parte dell’umanità, quello del Natale con la sua conclusione epifanica, ma solo in questa chiave simbolica sovrastata “dal tempo dell’avvento di nuovi tempi“, può rivelarsi riconoscibilmente rappresentativa delle dimensioni che entrano in gioco dai capannoni di Mirafiori.

La fine del tempo della contrattazione nazionale di categoria, omogenea e vincolante sotto gli aspetti normativi (istituti salariali e, parzialmente, delle prerogative di alcune rappresentanze sindacali) è stata preconizzata dal tramonto del Fordismo nei suoi termini di massima espressione di un’ organizzazione del lavoro mirante al controllo totale della fabbrica attraverso un modello di forti gerarchizzazione e specializzazione interagenti fra loro, come leve per produzioni di grande serie di tipo sostanzialmente standard. Già la grande crisi del ’29, crisi di sovrapproduzione e carenza contemporanea di mercati di sbocco, limitati al quelli del blocco sviluppato, aveva testimoniato dei limiti organizzativi oltre che culturali e socio-politici della razionalizzazione produttiva realizzata in unità in scala crescente.

Ma è stato il conflitto mondiale che ne è stato in parte contemporaneamente testimonianza di insufficienza e valvola di sfogo indispensabile a lasciarla in vita oltre il suo occaso, con la sua applicazione coatta a regimi di produzione bellica. Il dopo guerra, con la ricostruzione dopo la distruzione e l’apertura di nuovi mercati “liberati” da una democrazia estesa soprattutto con i bombardieri dai vincitori dello spaventoso conflitto (Italia Germania e Giappone, il mitico Ro-Ber-To pronte ad assimilare con l’ideologia contrapposta in difesa dei freschi diritti di libertà da poco acquisiti sono stati alla testa del fenomeno di rincorsa all’ampliamento della domanda a fronte di una offerta tenuta al massimo del suo potenziale, così come ogni grande guerra impone. Ma “in fabbrica” la guerra ideologica, condotta sui fronti della contrattualistica e del diritto del lavoro, attorno al ridotto della legge 300, continuerà ben al di là delle date storicamente convenzionali, determinando l’inconciliabilità semantica del lessico che si andava creando e chiarendo, con identiche parole che esprimevano “per le parti” significati contrastanti e spesso opposti.

Il post Fordismo lascerà lo scettro del proprio originario modello all’altro, già mitizzato”, modello Toyota” , quello sviluppato per la produzione “post impianto” delle piccole /medie serie con la loro esigenza di altissima flessibilità (quella del rovesciamento della catena produttore-consumatore, del “just-in time” della logistica specializzata,ecc…) che applicava gli stessi principi di organizzazione del lavoro di provenienza statunitense ma integrati da una illuminata maggiore attenzione per il governo dei fenomeni sociali relativi al rapporto imprenditore-produttore–consumatore che venivano a costituirsi quasi per traenza da inerzia dal modello base dell’”Organizzazione scientifica del lavoro” i suoi concetti chiave metodi e valori (che, pervertitasi, trovò la sua massima, totale e paranoicamente integralistica manifestazione, (ma “quanto”, troppo umana “nella sua disumanizzazione globale) solo nei lager e gulag.

Caduto “il muro” e con esso anche solo le sembianze fantasmatiche di una eterna situazione di conflitto perpetuo anche “se freddo”, e ridottasi (dopo il test Hiroscima-Nagasaki) la percezione dell’intensità del rischio di un confronto atomico su larga scala, il modello industriale basato su contrapposizione/confronto per la conquista dell’egemonia in fabbrica e nella società, ma sempre in tempi eccezionali di obbligo alla solidarietà assoluta in nome del superiore interesse nazionale e contro un nemico letale, eccoci ora (all’inizio del nuovo ciclo direbbe, Kondratieff) alla seconda crisi. Globalizzazione, accelerazione tecnologica e d irruzione dell’information technology come suo nuovo pivot in un confronto fra aree socioeconomiche continentali e con la contemporanea perdita della possibilità di difesa “dell’esclusiva“ del know-how proprietario, assieme ai neoimpulsi migratori, col l’eco compatibilità come problema di fondo.

Marchionne riconosce nella newco Crhysler-Fiat, non impastoiata dalla Confindustria e dalle confederazioni sindacali in grado di spaccare il sindacato del lavoratori e di batterlo in un remake della tenzone, con lui da nuovo ultimo Orazio, con i Curiazi.

Il lavoratore/ collaboratore (e via le parole come maestranze, la forza-lavoro, gli operai, o i “prestatori d’opera” che san di pericolosa muffa storica !), più cointeressato e pseudo/quasi/socio in partecipazione seppur poco più che marginale non solo dei destini ma soprattutto della, giocoforza instabile, rendita/profitto prodotta dall’iniziativa industriale multinazionale in regime liberista globale) direttamente confrontato l’un contro l’altro, ma allineati come in un equipaggio di un battello dedicato ad esplorazioni di mari lontani e di nuove longitudini ignote, al proprio titolare d’impresa (“capitano mio capitano”…; e via la stessa muffa, con le parole padrone, industriale, ed anche “datore di lavoro”!) a trattare” fra loro in situazioni dove il contesto non è equivocabile o ignorabile, ma indubitabilmente riconosciuto come tale da ciascuno.

Sergio Leone forse proporrebbe, per meglio caratterizzare i tre magi, il suo codice/titolo de “il Buono, il Brutto e il Cattivo”, che mi riesce, però, disagevole applicare. Meglio il manager globale, l’economista non mercatista moderato-progressista, il teorico fideista della religione deferente dell’Ordine Corporativo. Ma Il post-post-fordismo quali caratteristiche possiede come modello e richiede al nuovo lavoratore?

Mi rivalgo (con un’eccezione consapevole di una smentita della mia impostazione ideologica di sostegno privilegiata del primato di despecializzazione e multidisciplinarietà riassumibile nello stato di“ dilettante “ inteso come colui che ricerca e prova diletto operando nel campo cui è portato da sue caratteristiche ereditarie o da passioni incoercibili, e che proprio per la sua forza d’attrazione spontanea “lo seleziona”) di mie personali esperienze professionali sufficientemente maturate in ruoli di direzione del personale ed organizzazione per la maggior parte maturate nel settore del terziario/quaternario negli anni ’80 e ’90, per trarne degli spunti a mio avviso non privi di interesse e che non ritrovo da altre parti.

Se il post-fordismo rimetteva in discussione come eccessivamente rigida e poco adattabile l’organizzazione del lavoro, richiedendo pertanto lavoratori che dovevano essere assolutamente coincidenti con un ruolo/mansione concepito con il massimo di specializzazione/parcellizzazione tradotti in comportamenti/movimenti da riprodurre ripetitivamente e da reiterare esattamente identici, reificati e diretti dalla catena di montaggio, il post-post-fordista si caratterizzerà giocoforza come un sistema quanto più, assieme possibilemente, sia individualizzabile quanto “lo richiede” la flessibilità di utilizzo su diverse linee di lavorazione quanto standardizzabile normativamente ad un minimo di regole che ne permetta, in un modo garantito, anche la parte di gestione collettiva almeno sul piano contrattuale. Innovazione e programmazione operativa possono essere condivise fra direzione ed esecutori, ma senza mettere a repentaglio la stabilità di governo dei luoghi di produzione. Concludendo così almeno un armistizio ideologico stabile (una specie di moratoria, anche senza abiure, del conflitto di classe). Qual è il limite massimo disponibile e consapevole cui si è pervenuti da parte dei contraenti? In pratica la scelta della forma, fra alcune alternative preconfezionate ed ammesse, del tipo di contratto d’assunzione cui ricorrere, più o meno precario ed il più possibile adattabile alle diverse fattispecie previste e prevedibili: l’“àmbito Biagi,” si potrebbe dire. Senza nessuno sforzo di andare al di là del tabù della standardizzazione dei turni e dei tempi di lavoro individuale e di squadra, che aprirebbe, se superato delle “praterie di diletto e produttività” sinora precluse al lavoro regolamentato così come concepito,“in stabilimento ed alla catena”: con l’articolazione del tempo, ma non anche, volendo, del reddito da lavoro stabilizzato sulla media teorica degli emolumenti per un tempo definito, alla “stagionalità individuale“ (annuale o mensile, persin giornaliera, tendenzialmente creando una duplicazione potenziale di addetti di comparabile abilità e conoscenze omogenee, utile a coprire ogni assenza ed a moltiplicare l’orario di lavoro in funzione anche di marginali esigenze di adeguamento) oltre che di genere e ceto, del singolo lavoratore/persona ; in grado di corresponsabilizzarsi al risultato programmato dal complesso produttivo sia in termini quantitativi che, soprattutto per i servizi, necessariamente qualitativo, nel senso della “qualità percepita” (differenziale massimo competitivo conseguibile) del risultato sperimentato del servizio dall’utilizzatore finale.

Sono autore di un’esperienza di una formula in un certo senso anche rivoluzionaria, che ha avuto modo di essere (anche se temporaneamente nella sua integralità) applicata evitando un possibile, istintivo, giudizio di astrattezza: quella dell’orario annuale di lavoro, ovvero un numero globale di ore articolato in ore di prestazione programmabile in anticipo per ogni fase di programmazione d’impresa ma variabile, non solo ad ogni nuovo ciclo annuo, ma anche, volendolo, nel corso del periodo di prestazione richiesto e garantito. Facendo, inoltre ricorso allo straordinario oltre che il più articolatamente possibile alla formula del tempo parziale (che, con l’aggiunta dello straordinario poteva facilmente raggiungere e superare il livello retributivo del tempo pieno, esso permette di realizzare, per il lavoratore l’effetto “da tempo pieno” della costanza degli introiti da salario anche in periodi a prestazione orarie molto diverse fra loro (addirittura, ad esempio, a livello settimanale da zero ore ad un numero superiore di ore programmate come “ordinarie” e come tali retribuite, di quelle previste e valorizzate dai contratti collettivi. Con realizzazione ed adattamento costante di forme, in pratica, di rapporti individuali di lavoro garantiti da una cornice normativa ed economico, istituzionale di livello aziendale). La tecnologia lo consente agevolmente.

La estrema differenziabilità delle esperienze lavorative propria della cultura del lavoro nordamericana si riconnette con la precarietà istituzionalizzata italiana del lavoro integrativo, inteso come il novero dei rapporti di lavoro prodotti per dar riscontro a esigenze produttive molto sollecitate dal variare del mercato. E senza né ammanettare l’imprenditore con un eccesso di vincoli e senza condannare alla totale forzata dedizione esclusiva ad un posto di lavoro , il lavoratore. Addirittura, mediando il concetto caro ai Radicali, si realizzerebbe “in via ordinaria” il doppio lavoro, ponendo fine alla sua demonizzazione, troppo sospetta ormai, così come la nostra “doppia tessera”. Con più libertà per tutti, e comunque non strutturalmente antagonista. Libertà “dell’”impresa unita ad una necessaria libertà “dall’”impresa.

Il rapporto di forza che riduce a “dipendente “la sorte del prestatore di opera (nei confronti del suo “datore”), trae non so quanto consapevolmente la sua fonte dal fatto che la precarietà è solo la sua; e che essa è contemporaneamente non solo segno dell’insicurezza, anche ma “quasi imago mortis” dell’espulsione, quali e quanti siano le tutele poste normativamente ad argine da questa devastante paura psicologioca e sociale. Solo se il lavoratore riesce a sperimentare in contemporanea la sua appartenenza all’azienda come compatibile con la qualità e quantità delle esigenze attuali proprie e prospetticamente della sua intera famiglia, avendo la possibilità di tentare ordinariamente e legittimamente nuove soluzioni lavorative regolari, sia attraverso la ciclica minore intensità di un impegno pur sempre a tempo indeterminato, ma potendo addirittura accedere a forme di elasticità opzionale garantita in qualche modo paragonabili ad un mini “sabbatico“ piuttosto che ad una forma di “aspettativa”, formule nate per soddisfare esigenze e stili di vita di “(cosiddette se non per solo confronto economico) categorie superiori” si può dar inizio ad una rivoluzione della qualità, sempre soggettiva, come discriminante fondamentale delle scelte di vita oltre che di valutazione, che è l’unica speranza alternativa alla strutturale limitatezza delle quantità concepita come indifferenziato ammontare di quantum non comparabili fra loro e quindi non sommabili in un corrispettivo almeno integrato se non sinergico quanto a potenziale di soddisfazione di un portatore moderno di bisogni plurimi e spesso contraddittori.

La stessa“flexsecurity” è culturalmente vissuta come vicinanza al baratro dell’espulsione coatta e subita quando essa non prende in considerazione la qualità percepita, o meglio vissuta ed attivamente perseguita dell’alternativa non di semplice “impiego”, ma “di lavoro”, di “esistenza possibile”.

Con le insopprimibili differenze di genere/ruolo che persistono e resistono ad onta di ogni sforzo per le pari opportunità, esistono dei veri e propri tornanti di opportunità che lo sviluppo tecnologico e l’innovazione diffusa pongono davanti, anche come opportunità, alle persone nel loro tragitto nel e di lavoro. Lo schema di omogeneizzazione e di eguagliamento delle opzioni e dei trattamenti, spesso giustificato dalla ricerca del minimo teorico di discriminazione possibile, va riconosciuto ha costituito per un tempo troppo lungo ed intollerabilmente ipocrita un escamotage (per compensare le carenze dei fannulloni spregiudicati, si dice, sovente istituzionali) dei grandi complessi produttivi a medio bassa promessa qualitativa, per parificare sul basso statistico e comprimere il moltiplicatore costituito dal l’”eccellenza”/ o dal merito che dir si voglia, individuali, proprio sul minimo del rapporto qualità-prezzo/costo del lavoro che consentiva in molti casi di “non pagare il dazio” di un rapporto diretto ed individuale al suo reale valore, riuscendo a porre in essere limiti impermeabili, oltre che invalicabili più per la ferrea guardia esercitata dai “tutori della non discriminazione “sindacali che per il “paternalismo datoriale”; per penalizzare , disconoscendone“per principio” ( cfr. Statuto dei lavoratori), i maggiori contributi accumulati dai “migliori non notiziabili” per accumulo da superiore impegno e da perfezionamento delle proprie specifiche abilità professionali.

Oggi, e sempre di più per il domani, la sfida che si ingaggerà e dovrà essere sostenuta, se è quella la buona novella che dei veri “Magi nuovi” annunciano, è e sarà, quella della sostenibilità senza (o con il minimo) di reti di protezione (un poco come nei rinnovi d’ingaggio dei professionisti sportivi), fra il valore della prestazione ed il suo tangibile “riconoscimento“; pur che non si tratti di travestiti opportunisti, che intendono, invece, “pelare conigli senza gemiti né strepito”.

L’atmosfera di maggiore flessibilità, non disgiunta ma prodromica di un maggiore e più ampio ventaglio di opportunità, oggi quanto mai necessaria, e di cui solo essi sono, al momento, ideologicamente e politicamente dei teoricamente credibili portatori, permettono di non trascurare un passaggio in una strettoia difficile per le condizioni di fondo, e di sfondo, ma soprattutto per l’esistenza di cospicui residui di inaffidabilità e sfiducia reciproche preconcette consolidatesi nel tempo a formare, sulle pareti di un percorso che ad un impatto guidato solo dalla memoria storica persiste nell’apparire a molti come sospetto e poco invitante, una superficie scabra e disseminata di uncini.

In ogni caso, e lo mutuo da Gianfranco Spadaccia, “non è possibile che i diritti si fermino ai cancelli della fabbrica”.

Guido Biancardi, I nuovi magi di Mirafioriultima modifica: 2010-12-30T19:50:01+01:00da mangano1
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