Enzo Bettiza,Malaparte, il ritorno dell’Arcitaliano

dA LA STAMPA
CULTURA
20/03/2011 –
Malaparte, il ritorno dell’Arcitaliano

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Curzio Malaparte in un’illustrazione di Paolo Galletto
Dalla Francia al nostro Paese,
lo scrittore della Pelle viene
rivalutato dopo anni di ostracismo per le sue scelte politiche e esistenziali
ENZO BETTIZA

L’improvvisa resurrezione editoriale che in Italia, e in particolare in Francia, sta riportando alla luce dopo anni d’oscuramento e di oblio le opere, il ricordo, il mito proteiforme di Curzio Malaparte è senza dubbio uno dei fenomeni letterari più interessanti e insoliti del momento. Uno spregiudicato lavoro di recupero dello scrittore dimenticato di Kaputt e della Pelle l’aveva già compiuto, per primo, Giordano Bruno Guerri con una magistrale biografia revisionistica – L’Arcitaliano – pubblicata da Bompiani nel 1981. Seguirono altri tentativi similbiografici di minore impatto, intercalati dai soliti iati di silenzio, come se, tanto da sinistra quanto da destra, non si osasse ancora tirare il Malaparte intero fuori dal purgatorio degli scrittori impuri e infetti.
Insomma persona non grata.

Politicamente dubbia. Moralmente infida e cinicamente avvinghiata sempre al carro del vincitore: una volta Mussolini, poi Lenin e Stalin mediati da Togliatti, infine in presa diretta Mao. Diversi critici continuarono a vedere in lui, con qualche ragione e molte esagerazioni partigiane, un epigono camaleontesco di D’Annunzio e del decadentismo superomistico dannunziano. Quasi una copia di seconda mano del vate avventuriero, che, dopo aver incantato i francesi atteggiandosi a figlio legittimo di Cellini e di Cagliostro, incantò e insospettì Mussolini nelle vesti del legionario e precursore, con la marcia di Ronchi, della marcia su Roma. L’ambiguo rapporto di Mussolini con l’originale, poi con la copia conforme, peserà per positivo e più a lungo per negativo sull’immagine di un Malaparte sfaccettato e inafferrabile parvenu di regime; di volta in volta guerriero e salottiero, donnaiolo e frigido misogino, cortigiano e frondista flessibile, confinato anomalo a Lipari e Forte dei Marmi, o addirittura, secondo insinuazioni mai comprovate, spia dell’Ovra in falso esilio nella Parigi d’entre-deux-guerres.

Sull’egolatra anarcoide e fascistizzante, che ai fascisti d’un pezzo non andò mai giù, piovevano da ogni dove giudizi singolari, taluni soltanto malevoli, altri più lucidi e meglio centrati. Orio Vergani, testimone e segugio che aveva pedinato Malaparte in tutte le sue reincarnazioni, annotava: «Il suo sogno è la polemica sociale in smoking». L’amico Piero Gobetti, compagno di temperie culturale se non d’idee politiche (La Voce di Prezzolini), lo ammirava come «la più bella penna del fascismo». L’acido Longanesi, che ideologicamente avrebbe dovuto essergli più vicino di Gobetti, ne derideva il narcisismo su un piano caricaturale: «Ai banchetti di nozze vorrebbe essere la giovane sposa; ai funerali, invece, gli piacerebbe sostituire nella bara il caro estinto».

Buona parte di quanto ho virgolettato e accennato fin qui l’ho tratta dalle 630 pagine, una più avvolgente e incalzante e più rivelatrice dell’altra, di Malaparte, vies et légendes, pubblicato a Parigi dall’autorevole editore Grasset. Lo ha scritto per i francesi, in francese alto e invidiabile, un uomo di studi e di diplomazia italiano, Maurizio Serra, già docente di storia delle idee all’università Luiss, poi direttore della Scuola di formazione della Farnesina, oggi ambasciatore d’Italia nella sede parigina dell’Unesco. Le Figaro Littéraire gli ha dedicato tutta una pagina.

Il ritorno di fiamma per la personalità dell’Arcitaliano, restituitaci da Parigi inodore, senza afrori da «strapaese», assomiglia a una sorta di riabilitazione non solo letteraria di uno scrittore di statura europea. L’Italia, che ha dato i natali al figlio di un tedesco e di una lombarda, non ha potuto fare finta di niente. Non ha potuto ignorare, per esempio, le parole d’elogio elargite al grand cabotin da un Kundera di lingua francese, ormai legittimato dalla Pléiade Gallimard: «Nella Pelle la sua voce non è né fredda né chiara. È sempre ironica, ma di un’ironia disperata, spesso esaltata; Malaparte esagera, si contraddice; con le sue parole fa del male a se stesso e agli altri; chi parla è un uomo che soffre. Non uno scrittore impegnato. Un poeta». Non a caso l’editrice Adelphi, probabilmente consigliata da Kundera, suo autore di punta, si prepara a ristampare le opere dello scrittore risorto e rilanciato, mentre la milanese Biblioteca di via Senato sta riordinando l’intero archivio malapartiano (migliaia di lettere, inediti, abbozzi, confessioni, manoscritti eccetera).

A questo punto, non possiamo fare a meno di soffermarci sul metodo d’analisi e diagnosi dedicato all’uomo Malaparte dalla più esaustiva delle sue biografie. Direi che via via, leggendo Serra, emergono dalle pagine l’acume e il lavorio d’un detective di classe piuttosto che il ronron storicizzante di uno specialista accademico. Sbirciante da cumuli di pezze d’appoggio, collocate strategicamente sul ripiano dello scrittoio, vediamo profilarsi poco per volta un biografatore d’assalto che non perdona nulla, assolutamente nulla ai biografati che capitano sotto il suo bisturi come capitò a Febo, cane sventurato, l’unico essere vivente che Malaparte amò e pianse a dirotto in una tetra sala di vivisezione. Serra non cede alla sindrome di Stoccolma che così spesso avvince e assoggetta i biografi ai loro eroi persecutori e oppressivi. Non indulge mai; svela, rivela, scava, recide tendini, strina arterie le più minute e, se il paziente fosse ancora in vita, non escludo che cercherebbe di praticargli la lobotomia.

Bastano, in proposito, le scorticature con cui l’autore mette a nudo il fisico e le manie di Malaparte: «Snello e nervoso fino alla conclusione di una vita piena e ben sorvegliata, che non raggiungerà la sessantina, da cui promanava un fluido di gioventù perpetua. Appassionato di ginnastica, attento alla toilette e alla dieta, agile, sciolto, serrato nella pelle bruna, i suoi quarantanove anni parevano trentacinque. Poi s’appesantì un poco, a causa dei medicinali (che ingeriva per proteggere i polmoni logorati in guerra da un lanciafiamme tedesco, lui discendente di tedeschi). “Aveva il sedere basso” confidava agli amici una gran dama, alla quale inflisse la perdita del senno, ma non quella del buonumore. Seguitò, facendo finta di niente, a stringersi in completi troppo stretti e démodé. Aborriva peli superflui, capelli in disordine, la barba di tre giorni che gli ricordava i primi compagni operai tessili e gli anarchici marmisti di Massa e Carrara. Andava fiero dell’ottima tenuta delle sue guance, ch’egli rissanguava, dice la leggenda, applicandovi bistecche di carne cruda durante la notte».

Ma l’ultima domanda, la domanda di fondo, non possiamo eluderla. Perché mai la Francia? Perché proprio dalla ville lumière doveva arrivarci, d’improvviso, lo stimolo a rivedere in piena luce quell’ovale liscio, enigmatico, fisso in un’ambiguità inespressiva, e quegli scritti pur così saturi d’orrore e di spregio per le plebaglie urlatrici e, più in generale, per l’umanità sadomasochista del Novecento?

Nel 1914, spiega Serra, il giovanissimo Suckert, non ancora Malaparte, andò volontario ad affiancare sulla Marna i francesi che considerava, più che cugini, fratelli di una sua seconda patria. Ma ciò non valse a salvare, dopo il 1940, il maturo Curzio Malaparte dall’accusa di «tradimento», di «pugnalata alla schiena», rivoltagli dai tanti francesi i quali lo ricordavano ufficiale dell’esercito italiano, alleato ai tedeschi, che aveva aggredito la Francia e occupato alcuni chilometri della sua costa mediterranea. Gli esistenzialisti sartriani, al ritorno di Malaparte a Parigi nel secondo dopoguerra, lo terranno alla larga come «collaborazionista di Vichy», mentre gli esteti della destra gollista lo sbeffeggeranno per gli smacchi subiti sulle scene parigine dalle sue pièce teatrali Du côté de chez Proust e Das Kapital. «Malaparte deluso e amareggiato», commenta Serra, «patirà di persona la tipica nevrosi incestuosa italo-francese.

Continuerà nonostante tutto a leggere, a scrivere, perfino a pensare in francese sino alla fine della sua vita. Ma il risentimento amoroso, in quest’uomo abituato a provocarlo e non a subirlo, finirà per magnetizzarlo. La Francia troppo amata, che gli voltava le spalle, diverrà appunto perciò più che mai indispensabile al suo spirito: sarebbe stato indubbiamente felice di sapere che oggi, oltre mezzo secolo dopo, la sua fama postuma è radicata più a fondo a Parigi che nel suo Paese d’origine».

L’odierna Francia, rimettendone a smalto l’estetismo nero e profetico, mirato a raccontare la decadenza dell’Europa di fronte ai nuovi mondi emergenti, sembra voler riconoscere in lui il fascino e la grandezza, a suo tempo svalutati, di un naturalizzato emerito. Spetterà ora all’Italia di ri-naturalizzarlo. Vale la pena, per la nostra cultura anemica, prendere sul serio l’ammonimento lanciato da Giordano Bruno Guerri: «Occhio, non facciamoci scippare anche Malaparte dai francesi».

Enzo Bettiza,Malaparte, il ritorno dell’Arcitalianoultima modifica: 2011-03-23T15:48:44+01:00da mangano1
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