Vladimir D’Amora, Il caso Heidegger

iL “CASO HEIDEGGER”
pubblicato su facebook da Vladimir D’Amora il giorno venerdì 8 aprile 2011

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Tra i “casi” che ingombrano da un buon numero di anni la nostra scena pubblica ne esiste uno di natura filosofica. Si tratta del famoso “caso Heidegger” di cui sembra impossibile liberare davvero l’orizzonte o, almeno, le quinte della scena intellettuale francese. (Perché bisogna notare che non è così – tutt’altro! – all’estero, e anche questo meriterebbe di essere analizzato). Al di là dell’imponente insieme di opere che gli sono state dedicate, e che hanno largamente esposto e analizzato i documenti del dossier, sembra perdurare un bisogno ricorrente che aizza periodicamente gli uni contro gli altri i partigiani della difesa e quelli dell’accusa, in un interminabile processo che non prevede alcuna istanza d’appello.
Questo bisogno è passionale o logico, e proprio questo è difficile da sbrogliare. Senza dubbio gli accenti sono passionali, e tali passioni meritano che ci si interroghi su quel che le muove. Vi è troppa enfasi, da una parte e dall’altra, per non cercarne i motivi. Ma il tema fondamentale è logico, perché in definitiva non si tratta di nient’altro che di legittimare o delegittimare una filosofia in ragione dell’impegno politico del suo autore. Questa, almeno, è la tendenza del dibattito – o dello scontro, poiché spesso è piuttosto questo aspetto che il “caso” in questione assume.
E’ solo una direzione tendenziale, dato che il più delle volte si è disposti da una parte dall’altra a distinguere piani e introdurre riserve, ma ciò non toglie l’effetto d’insieme sia rimasto, da circa vent’anni, il seguente: un grande filosofo è stato nazista, la sua filosofia ne è dunque virtualmente macchiata da cima a fondo; oppure si deve affermare che egli non fu nazista, o lo fu a malapena e come per distrazione, se si vuole mantenere intatta l’immagine di un pensiero tanto puro quanto l’alba greca di cui ritrovava il fulgore.

Mi sembra che il dibattito, così com’è, racchiuda un errore filosofico e storico e che sia venuto il momento di liberarsene perché la posta in gioco è importante.
Non metterò le parti una contro l’altra. In effetti, la difesa mostra con troppa evidenza come una devozione possa accecare o spingere alla denegazione secondo la formula freudiana del “sì lo so, ma ciò non toglie”. L’accusa, in compenso, salvo qualche caso grossolano, prende le cose in maniera più franca e più accurata. Del resto, analisi notevoli e penetranti sono state prodotte dall’accusa, precisamente perché non si è scartata per principio l’analisi. Detto questo, non voglio addentrarmi nelle distinzioni e nelle differenziazioni dei testi specifici. Senza parlare di nessuno in particolare, mi stupisco di questo: perché la questione viene o sembra trascurata, se non scartata, dalla condizione di possibilità, teorica e storica, di un tale sviamento politico da parte di un simile filosofo?

(Segnalo di sfuggita che ci si potrebbe porre la stessa domanda a proposito di Carl Schmitt, intorno al quale vediamo delinearsi i prodromi di una faccenda analoga. I casi sono certi diversi, ma si somigliano).
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Per porre la questione in questi termini, bisogna ammettere per prima cosa l’errore politico e contemporaneamente l’importanza decisiva del pensatore. Si tenga presente che d’ora in poi ragionerò soltanto a partire da questa doppia ammissione preliminare. La colpa politica non è in discussione e nemmeno l’importanza di una filosofia il cui segno si è impresso – è il meno che si possa dire – su e attraverso Sartre, Merleau-Ponty, Arendt, Bataille, Foucault, Derrida, Lacan, Granel, e via dicendo.
Come poteva una filosofia come questa imboccare, nel 1933, la via del III Reich? Possiamo concentrare l’analisi su un punto focale, politico o meglio di portata direttamente politica: quello di una certa idea del “popolo”. In Essere e tempo si vede molto bene come il popolo venga a occupare il posto e dare il cambio a un “essere-con” perso nell’anonimato, nell’equivalenza, nella massa e nell’indifferenziazione di quel che David Riesman chiamava la “folla solitaria”. Il “popolo” poteva apparire allora come il portatore della possibilità di riafferrare una storia, vale a dire una cosa diversa rispetto alla dispersione entropica e malinconica degli “individui”, i grandi mutilati del mondo moderno, Ora, Heidegger è stato sensibile più che a ogni altra cosa alla svolta – o alla frattura – moderna della storia (ciò che costituisce il “moderno” come tale): al fatto cioè che la storia incontrava il suo oscuramento senza poter ritornare a quelle modalità senza storia che furono le diverse forme di perennità o di eternità (già Rimbaud, il moderno, esprime per il suo tempo il desiderio di eternità).

Si obietterà subito, con ragione, che i fascismi non riaprivano nessuna storia, ma catturavano lo sviluppo tecnico e socio-economico del moderno nell’esposizione immobile di un’apoteosi teatrale e millenarista. Heidegger se ne rese conto presto, così come i nazisti si resero conto del carattere poco utilizzabile del suo discorso. Tuttavia, Heidegger non ha mai smesso di pensare ostinatamente nella linea della sua vena iniziale. Perché? Non ci si può sbarazzare a buon mercato della domanda. E soprattutto non senza pagare, tutti, di tasca nostra.

Voglio dire che nessun pensiero di questi tempi – da Heidegger fino a noi – ha potuto riafferrare la questione della storia, ma che dappertutto oggi intorno a noi la si vede ricomparire e insistere, come questione della “democrazia” o del “mondo”, dell'”evento” o di ciò che resta o non resta della “rivoluzione”, del “senso” o della “politica” – tutti grandi significanti delle nostre aporie e delle nostre esigenze.

La domanda, allora, è la seguente: dove è andata a finire la storia al tempo dei fascismi? La risposta è semplice: è andata a finire nei marxismi. Questi ultimi hanno rappresentano una duplice disposizione: quella della giustizia, da una parte, e quella della storia, dall’altra. Tra le due vi era una faglia – e questa faglia si trovava probabilmente già in Marx. Si potrebbe dire, approssimativamente, che la giustizia era kantiana e la storia hegeliana. Non soltanto non si faceva alcun collegamento, ma la storia era divenuta assai più meccanica e anonima di quanto non lo fosse nello stesso Hegel. L'”astuzia della ragione” si dotava di libero corso. E’ appunto quel che ha costruito il dramma intimo di tanti pensatori per i quali il marxismo assumeva il tono di un desiderio contrariato: Benjamin o Bataille ne erano le figure più nitide. Si potrebbe dire anche così: l’annientamento degli spartachisti nel 1919-1920 ha avuto il suo doppio, o il suo sintomo, in un’impasse del pensiero della storia.

Tutto questo ha inciso anche sul pensiero di coloro che cominciavano a formare la Scuola di Francoforte, a partire dalla fondazione dell’Istituto a opera di Horkheimer nel 1923 (che è anche l’anno di Storia e coscienza di classe di Lukàcs). In quegli anni, Marcuse scrisse sotto la direzione di Heidegger la sua tesi su L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità. Ma Lo spirito dell’utopia di Bloch risaliva già al 1918, ed è possibile considerare i contrasti fra tali direzioni di pensiero come rivelatori della contrarietà tra una storia autonoma, meccanica o organica, progressista senza soggetto, e la postulazione di un soggetto che non fu soltanto l’agente, ma proprio il termine effettivo, qui e ora, del moto storico. La storia – la storia in atto, l’evento, il venire e il sopravvenire – fu realmente posta nella situazione di non avere eredi. Husserl, il meno sospettabile di tutti i non marxisti, nelle sue conferenze del 1935 parlava ancora di una “auto-effettuazione” e un “auto-chiarimento” della ragione come movimento infinito del suo progresso. Nel 1935 Wittgenstein viaggiava in Unione Sovietica e Freud lavorava al suo L’uomo Mosè e la religione monoteneistica, che egli definiva un “romanzo storico”. Il disagio della civiltà risaliva al 1930. Ecco emblematizzata la situazione.
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Sia ben chiaro: non ho la minima intenzione di negare che vi furono quelli che scelsero la lotta immediata, quelli che furono costretti all’esilio (ma non ne ritornarono con un’altra storia), e quelli che denunciarono l’infamia senza concessioni. La questione alla quale voglio limitarmi per concludere è appunto quella della denuncia.
Denunciare di deve. Ma si deve anche enunciare. Heidegger aveva enunciato un problema e tutto il suo pensiero – dell'”essere”, della “tecnica” e del “poema” – è alle prese con questo problema. L’ostinazione testarda, addirittura ottusa, di questo reazionario viscerale non è che la faccia più visibile di un accanimento di pensiero che non volle cedere su questo nodo che ho designato oggi come “storia”. Neanche il fatto che egli sia giunto, com’è noto, a evocare “un dio” può essere denunciato senz’altro. Si tratta dell’enunciato lapidario e caustico di un’altra aporia – ma ciò che innanzitutto importa è il fatto che tale aporia o tale nodo sono le nostre aporie e i nostri nodi. Questa pietra cade nel nostro giardino. Ci piaccia o no, abbiamo a che fare con tutto questo, perché davanti a noi, con o senza Heidegger, la storia si spezza e avviene al tempo stesso in tutt’altro modo.

28 febbraio 2003

Jean-Luc Nancy, Cronache filosofiche, Cronopio, Napoli, 2006

Non mi chiedo come sia potuto accadere. Non ha alcun senso, il chiedere nell’accadere: è piuttosto l’accadere, come tale, che chiede all’essere. O, almeno, prima pensavo che fosse così. Prima, appunto, di questo accadere che ha in me, per la prima volta, la parola necessaria a che sia conosciuto. Mi hanno chiesto se avessi creduto ma per me, almeno in quel momento del loro chiedere, non aveva alcuna rilevanza. Si crede, ho creduto di rispondere, a qualcosa che non c’è. Non era necessario qui riferirmi alla mia filosofia, bastava il più basso dei catechismi cattolici. Volevano catturarmi ad un credere particolare, per farmi colpevole. Ma sono io che so che cosa sia il on essere più capace di essere colpevole, loro non sanno che non saperlo è non esserlo. H. ha ragione. Ho trovato scritto queste note oggi, aprendo questo taccuino. Devo averle vergate ieri, ma non ho un ricordo preciso al riguardo. Mi trovo qui, nella clinica di von G. da ieri, 17 giugno. Come io vi sia arrivato, non so, ma credo mi abbia portato Elfriede. Mi trovavo in uno stato semi-confusionale (l’espressione, è evidente, non è mia) come anche le brevi annotazioni possono indicare. Ma non ho una memoria precisa. Elfriede non è con me. Qui sono solo. La mia camera è piccola: un letto, un comodino, due sedie, un armadio. Questo è tutto. Ma io non ho mai avuto bisogno di altro. Soprattutto adesso. Oggi mi hanno “visitato”, un medico e un’infermiera. Mi hanno misurato la febbre. Hanno prescritto digiuno e delle pillole. Non ho niente da fare. Non devo pensare a niente. Meglio così. Ho un vago ricordo di una lite ferocissima con Elfriede. Non so quali argomenti abbiano potuto determinarla. Lo chiederò a lei, se mai verrà a trovarmi qui. Non so se è consentito dal regolamento. E’ possibile che lo stato confusionale sia stato determinato dalla lite. Oppure viceversa. Oppure dalle ragioni della lite. O dalla mancanza di ragioni. Oppure dal mio antico odio per aver cercato delle ragioni dell’odio. Lo chiederò ad Elfriede: lei sa che cosa sia il mio odio, e del resto ha fatto di tutto per farmelo sapere e io ho dovuto sempre cercare di distinguere fra il mio odio e lei immaginando una diversa corporeità all’immagine dell’odio. Non posso chiedere ad Elfriede ciò che so già, finirebbe per capire. Non ho bisogno di chiederle nulla. Non le ho mai chiesto nulla che volessi veramente sapere. Ma se è così non capisco le ragioni della lite. E’ sempre stata così al di fuori delle ragioni che ho pensato che io dovessi tenerne conto. E’ forse questa la ragione del mio rapporto con Elfriede: sopravviene allorquando tutto è stato negato come esistente fra noi. Per questo non posso fare ameno di Elfriede. Mi è venuto sonno. Saranno le pillole.
E’ il giorno dopo. Non rileggo. E’ possibile che anche questo venga ascritto allo stato particolare in cui mi trovo. Ne parlerò con il medico che verrà a visitarmi domani. Anche oggi, la “cura” è il riposo. Ma un riposo indotto non è certo un riposo, piuttosto un’assenza. Mi curano togliendomi misuratamente una parte consapevole, la parte che per il solito si denomina “vigile”. Forse c’era troppo di “vigile” in me, ed è stato questo a produrre lo stato particolare che chiamano confusionale. Occorre “la giusta misura” fra veglia e sonno, chi la supera perde da una parte e dall’altra. Capisco ora perché Lutero chiamasse il Vangelo col nome di sua moglie Caterina. Deve aver odiato il Vangelo.
E’ il 19 giugno 1945. La guerra è finita da neppure due mesi. Oggi devo vedere il medico. Credo di ricordare perché ho litigato con Elfriede. Voleva che io riconoscessi che abbiamo perso la guerra. A me, un simile “riconoscimento” sembrava assurdo. A lei no. Io volevo uscire dalla guerra senza riconoscerla. Lei no. Io non volevo darle ragione. Lei non voleva averla, l’aveva e basta, perché imputava la guerra a qualcuno. Agli ebrei, in particolare. Ma io mi sono sempre rifiutato di credere che si potesse capire incolpando qualcuno. Se fosse così, avrebbe ragione il cristianesimo. Ma il cristianesimo non ha ragione. Il cristianesimo non ha nulla a che fare con la ragione. Elfriede pensa come gli alleati, credono di aver vinto la guerra, Elfriede pensa di averla persa. Sono pari. Io no, io odio questi schemi elementari, io mi sono posto al di fuori: entro di essi sta l’etica della condanna, io ho dimostrato agli alleati che mi interrogavano che io con le “parti” non ho mai avuto a che fare, per me Hitler era superiore alle parti, per questo l’ho seguito, perché apparteneva a quella ragione superiore che non è misurabile secondo le parti “in causa”, e sono appunto quest’ultime che hanno fatto la guerra e l’hanno persa o vinta, è lo stesso. Elfriede appartiene alle parti, e ha perso la guerra. Per me, la guerra non c’è mai stata. Se non come elemento attivo, visibile, in certo senso, incarnato, di una conflittualità universale e perenne che si manifesta secondo scadenze intemporali, estetiche piuttosto, per relativizzare una forma di cultura e incendiarne le radici. L’ultima guerra era una di queste incarnazioni necessarie ma relative, transitorie, la parte “storica” e pertanto “visibile”. Io mi occupavo dell’altra parte, quella più “perenne” in cui il tempo ha tutt’altro carattere e significato. Anzi, non ha nessun significato in quanto non indica nulla. Ma queste ragioni non mi hanno assolto difronte agli alleati che mi hanno condannato al silenzio. Naturalmente, per me, sono del tutto insensate e indifferenti, condanna e assoluzione. Non così il silenzio, perché l’unica parte “visibile” che io riconosco di quel conflitto per gli altri inesistente è appunto la parola, e condannarmi al silenzio significa per me una perdita assoluta. In questo riconosco la mia origine cristiana.
E’ venuto il medico a “visitarmi”. E’ stato da me almeno due ore. E’ uscito da poco dalla mia stanza. Annoto qualche osservazione sul nostro colloquio. Sapeva chi sono: ha letto, dice, il mio libro. E’ probabile che abbia letto qualcosa di Binzwanger su di me, cioè qualcosa di oscuro, un’antropologia che si dice derivata dalla mia ontologia, ma non lo è, perché dalla mia ontologia, che non è un’ontologia, non può derivare un’antropologia che non è un’antropologia. Ma questo non ha davvero molta importanza. E’ un uomo decente, come solo uno pseudoscienziato può esserlo. Voleva sapere come mi sento. Abbiamo capito subito che era una pretesa assurda. Se io sapessi come mi sento, e se io potessi comunicare, a lui o altri, come mi sento, non sarebbe davvero necessario costruire gli ospedali (per racchiudere questo “sentirsi”) e le chiese (per dedicarlo a DIO). Anche lui, però, ha fatto riferimento a una sorta di cedimento improvviso, che si sarebbe verificato qualche giorno fa e di cui, come ho detto anche a lui, non sono del tutto consapevole. Mi ha confermato che è stata mia moglie Elfriede a farmi ricoverare. Ha fatto qualche apprezzamento su di lei che non condivido. Sulla natura, le ragioni e il carattere di questo “cedimento” anche lui non mi ha saputo dire molto. Qualcosa di più sui modi. Ha parlato di uno smarrimento, come di un tremito morale, di un’incertezza nei movimenti del pensiero e del corpo, una disperazione assoluta che si manifestava nel rifiuto della parola, o meglio, di portare a fine le parole, che si interrompevano di colpo o si scontravano per così dire nell’aria, per confondere i propri significati, per farsi incomprensibili, inesistenti, morte. Era come, diceva, se io non volessi proseguire oltre o non potessi e che il mio solo equilibrio fosse una situazione di stallo assoluto da cui era per me impossibile uscire perché ogni sortita avrebbe significato la morte o la perdita, la perdita, anzi. Qualcosa di simile, ora, mediante le parole del medico, mi tornava a mente. Ma, al contrario che a lui, tutto questo, questa situazione di smarrimento, di stallo, di disperazione mi sembrava del tutto consueta: era la descrizione della mia normalità, per così dire, o almeno del mio odo di vivere, di “sentirmi” da sempre e soprattutto dai tempi, per me felici, di Marburg. E mi pareva anzi di dover attribuire ad essa il senso della mia vita adulta. Se aveva un senso. E forse della mia “filosofia”. Se è una filosofia. L’ho detto al medico e mi sembra che non abbia saputo contraddirmi.

Heidegger, Tagebuch, in Michele Ranchetti, Scritti diversi, I etica del testo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999

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http://212.189.136.205/index.php/idee/article/view/3018/2481

TODTNAUBERG

Arnica, eufrasia, il
sorso della fonte con sopra
il dado stellato,

nella
malga,

la riga nel libro
– quali nomi accolse
prima del mio?-,
la riga, in quel libro
inscritta,
d’una speranza, oggi,
dentro il cuore,
per la parola
ventura
di un uomo di pensiero,

umidi prati silvestri, non spianati,
orchidee selvatiche, sparsamente,

più tardi, in viaggio, parole crude,
senza veli,

chi guida, l’uomo,
che anche lui ascolta,
percorsi a
mezzo, i viottoli
di tronchi sulla torbiera gonfia,

umidore,
forte.

Vladimir D’Amora, Il caso Heideggerultima modifica: 2011-04-09T13:07:26+02:00da mangano1
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