Mario Grossi,Massimo Recalcati. Cosa resta del padre?

Massimo Recalcati. Cosa resta del padre?
DI MARIO GROSSI – 18 APR ’11

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In quello che da molti viene descritto come il tempo dell’evaporazione del padre serviva, almeno a me che non mi sono mai occupato dell’argomento pur essendo padre, un compendio che ne delimitasse i contorni e ne focalizzasse il percorso.

Si assiste a uno sgomento deambulare di padri che non riescono più a indirizzare il loro passo e si perdono in quelli che io ho sempre reputato degli accessori utili ma non caratterizzanti al fine del recupero del senso del padre. Sto parlando di tutte quelle attività che, seppur doverose, come svegliarsi la notte per accudire al pargolo, cambiargli i pannolini, prendersi permessi di lavoro per sostituirsi, in alternanza, alla madre, non caratterizzano il percorso del recupero di senso, almeno di quello profondo che la figura paterna incarna.

Arriva nelle librerie allora un libro di Massimo Recalcati che porta un titolo, Cosa resta del padre?, edito da Raffaello Cortina Editore che tenta di spiegare il senso della paternità nell’epoca ipermoderna.

Massimo Recalcati, m’informano le brevi note biografiche, è uno dei più noti psicanalisti lacaniani, informazione che mi lascia abbastanza indifferente vista la mia quasi totale mancanza di conoscenza nel campo specifico.

E come lettore non aduso al testo psicanalitico, benché divulgativo e a uso exoterico, ho avuto qualche difficoltà a familiarizzarmi con lo slang da strizzacervelli che invece, ma solo con parsimonia, Recalcati usa in scioltezza.

Ma se si supera questa piccola barriera all’ingresso, il testo può riservare alcuni interessanti spunti che mettono in luce che cosa si è inceppato nel meccanismo del senso paterno e quali sono i responsabili di questo inceppamento nell’epoca che viene definita ipermoderna e che poi sarebbero i nostri giorni.

Per poter far questo, Recalcati parte da una definizione di paternità che è di Lacan e che suona così “un padre è colui che sa unire e non opporre il desiderio alla Legge”.

Questa sarebbe la funzione simbolica del padre che non ha molto di originale se si pensa a quanto si è scritto a proposito della capacità di dire “no” dei genitori ai propri figli.

Il padre, che per inciso Racalcati non riferisce a nessun genere «padre può essere chiunque, qualsiasi cosa», sarebbe dunque colui che sa imporre una Legge, che definisce un limite non solo temporale al figlio, e che la fa rispettare, ma nel contempo è colui che sa riconoscere il desiderio individuale nella prole e non la reprime. «Affinchè vi sia desiderio, affinchè l’esistenza sia animata dalla spinta del desiderio,affinchè vi sia facoltà di desiderare, è necessario che vi sia Legge».

È in una sapiente miscela di questi due parametri che si gioca il difficile compito da equilibrista del padre.

«Se il padre dell’interdizione (realizzata attraverso il limite imposto dalla legge ndr) è il padre che castra il godimento imponendogli un limite simbolico, il padre donatore è il padre che compensa questa rinuncia al godimento più immediato con l’offerta di un’identificazione idealizzata, con la trasmissione, più precisamente, del diritto di desiderare un proprio desiderio».

È in questo equilibrio la saggezza del ruolo, perché «quando il desiderio si sgancia dalla Legge, precipita verso una deriva mortifera, diviene godimento dissipativo, schiacciato sul soddisfacimento immediato privo della mediazione e del fantasma inconscio», mentre «dall’altra parte la Legge senza desiderio può generare a sua volta solo repressione, oppressione, potere disciplinare, svilimento della vita».

Questi due opposti sono ben rappresentati dall’illuminante esempio che Recalcati infila tra le righe per sintetizzarne il senso. Da un lato Kant che rappresenta l’esaltazione del dover-essere come imperativo morale che annichilisce la dimensione vitale del desiderio e dall’altra Sade che veste i panni dello sprigionamento di una volontà di godimento che rifiuta ogni limite e che finisce per mescolarsi con una tendenza pura e rovinosa alla morte.

Nel tempo dei totalitarismi questo nesso si dissolve con il trionfo di una legge folle e invasata che uccide il desiderio. Nel tempo ipermoderno il nesso si dissolve dando luogo a una pseudo liberazione del desiderio dalla Legge che finisce per avallare la sua degradazione a puro capriccio.

L’evaporazione del padre ha quindi, a partire da un’origine totalitaria cui non si vuole tornare, un percorso che si perde nel tempo ipermoderno a causa di uno sviluppo circolare ma più infido, che è racchiuso nel “trionfo del discorso capitalista” che da un lato fa credere al soggetto di essere libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento, inebriato dalla sua avidità di consumo, dall’altra fa credere che l’oggetto che causa il desiderio possa confondersi con una semplice presenza, con una Cosa, con una montagna di cose.

È su questo “inedito totalitarismo dell’oggetto”, alimentato dall’iperconsumo, che si fonda il carattere bifido del discorso capitalista.

Da un lato la fede idolatrica e feticista nei confronti dell’oggetto di godimento, dall’altro l’aspetto totalmente inconsistente dell’oggetto di godimento, caratterizzato da una vacuità di fondo, aleatorio, destinato a dissolversi in un’obsolescenza sempre più rapida.

È a questo punto che l’evaporazione del padre tocca il suo culmine.

Che cosa dovrebbe fare, da solo, contro un’ideologia che cancella i limiti e che dunque manda al macero la Legge e che rende il desiderio, mera, ripetitiva acquisizione di oggetti insignificanti, devastandone il significato profondo.

L’ideologia del capitalismo spezza l’alleanza tra Legge e desiderio che è compito della funzione paterna custodire e incarnare.

Al padre dunque, in questa prospettiva, non resta che rendere una pura testimonianza di sé, della sua umanità, del suo stesso limite, saldato all’amore nel riconoscimento del desiderio proprio dell’altro (in questo caso il figlio) che, ben lungi dall’essere sufficiente, è comunque la sola via che gli si prospetta per ricordare che un’altra via è possibile e che può essere incarnata.

La seconda parte del libro è rappresentata da testimonianze. Attraverso un romanzo di Philip Roth, un racconto di Cormac McCarthy e due film di Clint Eastwood viene proposto un campionario di possibili vie di paternità al tempo della dissoluzione del padre, che costituiscono forse la parte più interessante del libro, perché come tutti gli esempi servono a delineare in maniera schematica ma nitida una possibilità reale al di là delle astruse teorie.

Quel che mi rimane alla fine della lettura è la certezza che, in estrema sintesi, avevo ragione io, quando sostenevo che l’unico compito del padre è quello di farsi uccidere, perché in questa frase truculenta, seppur simbolica, è racchiusa la saldatura tra la Legge e il Desiderio che il padre deve trasferire.

La Legge perché solo attraverso la di lui uccisione, il figlio potrà, valicando quel limite infrangendola, appropriarsi del suo limite e della sua legge.

Il Desiderio e la volontà amorosa di trasferirlo perché nel padre deve essere assoluta la volontà di offrire la gola al suo assassino, dopo aver combattuto e ceduto, per renderlo consapevole del suo stesso desiderio che non sarà più pura follia ma amore per la vita.

Mario Grossi

Frascati, 16 aprile 2011

Mario Grossi,Massimo Recalcati. Cosa resta del padre?ultima modifica: 2011-04-20T18:16:13+02:00da mangano1
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