Mario Domina, Umano,troppo umano

Umano, troppo umano
Di md

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Nonostante – o forse proprio grazie a – la mia radicale e irreversibile scristianizzazione, rimango sempre molto colpito dalla passione di Gesù Cristo. E non solo per la passione in sé – quel patire estremo, che è un lungo percorso di condivisione del dolore e della morte, ciò che ha reso interessante e popolare la religione cristiana, proprio perché profondamente umana – ma perché la narrazione evangelica di quella passione raccoglie in sé una sorta di summa delle passioni umane, una vera e propria passione delle passioni, un catalogo degli affetti da far quasi invidia a Spinoza.
Prendo ad esempio il vangelo secondo Matteo, cui sia Pasolini che Bach si sono ispirati per restituirci, in forma diversa, visiva e sonora, delle rappresentazioni mirabili di quella narrazione. La vicenda ha naturalmente un suo fascino (come tutte le tragedie) perché termina con un necessario spargimento di sangue: tutto è pre-scritto e corre verso il precipizio, ogni attore ed ogni elemento vi concorre (il sinedrio, il potere romano, il tradimento, il processo, le masse aizzate, l’offrirsi come vittima innocente, ecc.). Ma al di là di questo, trovo forse ancor più interessante il continuo palesarsi delle passioni che muovono i vari protagonisti.
Me ne sono reso conto per la prima volta ieri, rileggendo i capitoli 26 e 27, giusto per prepararmi all’ascolto dell’omonima Passione di Bach, un vero gioiello della musica barocca, di scena tutti gli anni (alternata a quella secondo Giovanni) all’Auditorium di Milano.

I grandi sacerdoti vogliono catturare Gesù con l’inganno (e sarà il raffinato Pilato a rilevare invidia nei loro comportamenti); i discepoli  provano indignazione per il gesto di pietà di Maria, la sorella di Lazzaro, la quale si presenta con il vaso di alabastro per profumare la pelle e il capo di Gesù: tutti bocciati, dopo tre anni di scuola, visto che non hanno capito nulla di amore (e forse anche di dépense).
C’è poi il capitolo delicatissimo del tradimento – che riguarda sia Giuda che Pietro, ma che potrebbe valere indifferentemente per ciascuno dei seguaci (visto che la roulette del destino e delle scritture ha scelto a caso, anche se in modo crudelmente necessario) – e che finisce per ammorbare l’atmosfera dell’ultima cena, che doveva essere un congedo amoroso e che invece si trasforma in un incubo: tristezza, scandalo, abbandono, sensazione di imminente disfatta…
E s’arriva al momento apicale (a mio parere ancor più della crocifissione) nel Getsemani: Gesù è afflitto da mestizia e tristezza fino alla morte, si sente solo e abbandonato, debole, fragile, disperato, dubbioso – umano, troppo umano. Ben più dei suoi discepoli che, del tutto insensibili, si addormentano forse per un bicchiere di troppo.
Ma l’ira, la violenza, la voglia di vendetta, la guerra fanno irruzione all’improvviso con l’arrivo della “masnada di gente armata” mandata dai sacerdoti. Un Gesù dialettico e pacifista (e dimentico della sua stessa dottrina: “vengo a portare la spada, non la pace…”), si pone come negatore della negazione: chi di spada colpisce…
Vi sono poi sentimenti più sottili, stratificati ed umbratili che avvolgono la scena: timori discosti (Pietro e, si presume, gli altri discepoli che seguono da lontano); l’ostinato silenzio di Gesù; ma soprattutto le varie Marie e le molte donne che “lontano stavano ad osservare” – forse il più grande capitolo non scritto, quello al femminile, dell’intera tragedia evangelica.
Ma al centro della scena vi sono loro, gli attori di grido: il sommo sacerdote che si straccia le vesti; Pietro che dopo il triplice rinnegamento “pianse amaramente” (trovo quel pianto amaro una delle pagine più belle e commoventi dell’intera narrazione); lo stupore, la meraviglia, i dubbi, le angosce (mediate dal sogno della moglie) ed infine l’ignavia di Pilato – un divenire emotivo che forse non ha eguali nella drammaturgia di tutti i tempi.
Ma è Giuda quello su cui occorre spendere una parola di più: lui non fa come Pietro, il suo rimorso non si scioglie nel pianto (per quanto salato), ma precipita nell’altro corno – quello senza uscita – della tragedia che sta per compiersi (perché bisogna sempre ricordare che le morti sono due, non una! – anzi, la prima è una morte fittizia, visto che è garantita dalla resurrezione, anche se resta da capire se il Gesù del Getsemani ne fosse poi così convinto…). Ma l’altra vittima? Cosa sentiva davvero Giuda? Lui che era il reprobo, il traditore, l’ultimo tra gli umani, colui che verrà scaraventato giù nel fondo ghiacciato della Giudecca (cui dà addirittura il nome)? A nessuno importa di Giuda: né ai sacerdoti, né ai futuri cristiani, forse nemmeno a Gesù – il quale, per quanto sia destinato a salvare tutti, è ora in tutt’altre faccende affaccendato.
A lui, dopo l’angoscia, tocca lo scherno, la derisione, la beffa, il dileggio. Coram populo, oltretutto – e qui il vangelo di Matteo scrive una vera e propria pagina di sociologia delle masse, con tanto di pronunciamento di un’autonemesi (“Il sangue suo cada su noi e sui nostri figli”).
Le beffe continuano fino al più lugubre dei luoghi, il Golgota (che evoca il cranio – al che mi vien da pensare che Mel Gibson non aveva forse tutti i torti a sceneggiare la sua Passione come se si trattasse di un film horror – uno dei più brutti, peraltro, che abbia mai visto).
Di nuovo torna l’angoscia, l’abbandono, la solitudine estrema: Elì Elì, lemà sabactani!
A poco servono i fatti meravigliosi e terrifici che seguono alla morte del figlio di Dio: tutto è ormai stato scritto, e non si può certo tornare indietro. Il fato, il destino, la necessità – il volere del Padre – hanno dominato fin dall’inizio la scena, e gli attori altro non sono che burattini al suo servizio; tanto che vien da pensare se questo sia davvero un catalogo sincero degli affetti umani…
Johan Sebastian si ferma qui, in commossa e palpitante attesa, dietro il sepolcro e la pietra che hanno sigillato il sacro corpo flagellato dell’agnello (com’è che a Pasqua se ne massacrano così tanti, è qualcosa che ancora mi sfugge!) – corpo che però è stato avvolto in un candido lenzuolo dal gesto pietoso di Giuseppe di Arimatea.

Ma il fiume emotivo è ben lungi dall’arrestarsi: lo spavento e lo sbigottimento delle guardie, e il timore misto a grande gioia delle donne – di nuovo loro! – stanno per aprire un nuovo sorprendente capitolo dell’eu-anghélion…

***

(Nota di Guttuso sul quadro Crocifissione: “La nudità dei personaggi non voleva avere intenzione di scandalo. Era così perché non riuscivo a vederli, a fissarli in un tempo: né antichi né moderni, un conflitto di tutta una storia che arrivava fino a noi. Mi pareva banale vestirli come ogni tentativo di recitare Shakespeare in frac, frutto di una visione decadente. Ma, d’altra parte, non volevo soldati vestiti da romani: doveva essere un quadro non un melodramma. Li dipinsi nudi per sottrarli a una collocazione temporale: questa, mi veniva da dire, è una tragedia di oggi, il giusto perseguitato è cosa che soprattutto oggi ci riguarda. Nel fondo del quadro c’è il paesaggio di una città bombardata: il cataclisma che seguì la morte di Cristo era trasposto in città distrutta dalle bombe”).

Mario Domina, Umano,troppo umanoultima modifica: 2011-04-26T19:12:09+02:00da mangano1
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