wOLFGANG SACHS,Ivan Illich, un testimone scomodo della modernità

DOMENICA 22 MAGGIO 2011
Ivan Illich, un testimone scomodo della modernità

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Si è tenuto ieri a Mestre a quasi dieci anni dalla scomparsa un convegno sulla figura e l’opera di Ivan Illich. Nel corso del convegno è stata presentata la biografia del pensatore austriaco, «Vita di Ivan Illich» di Martina Kaller-Dietrich , appena uscita per le Edizioni dell’Asino, della quale proponiamo ampi stralci della prefazione.

Wolfgang Sachs

Ivan Illich, un testimone critico della società «moderna»

Capodanno 1972. Il sole invernale picchia, gli ampi banani, assieme agli alberi di avocado, gettano la loro ombra sul tavolo di legno dove ci siamo seduti a bere un succo d’arancia, su una collina di Cuernavaca con vista sul cono innevato del vulcano del Popocatépetl. Di tanto in tanto scrutavamo tra gli alberi verso l’ingresso della Casa Blanca, come veniva chiamata, non senza ironia, la casa padronale, che ospitava la biblioteca del Cidoc (Centro Interculturale di Documentazione), le aule per i seminari e un silenzioso cortile interno. Sarebbe davvero venuto verso di noi?

In effetti, non erano passati che pochi minuti, che si riconobbe un uomo che portava alla villa una pila di libri alta un metro, tenendola incastrata tra il mento e le mani. In men che non si dica era seduto con noi, il poncho legato sulle spalle, e, senza convenevoli, aveva iniziato a sottoporci la sua ultima idea. La crescita industriale non avrebbe potuto segare il ramo sul quale poggiava? Egli comunque ipotizzava che si poteva definire quantitativamente la soglia, oltre la quale l’aumento di automobili avrebbe portato a rallentare gli spostamenti. I suoi occhi brillavano, mentre sparava a raffica le sue idee. Bisogna veramente dimostrare che il progresso non è altro che un autoinganno! Sembrava che con le grandi mani scolpisse frasi nello spazio; non c’era posto per domande da parte nostra. Un sorriso malizioso e complice, ed era nuovamente sparito tra gli alberi. fu il mio primo incontro con Ivan Illich.

Non sarebbe stato l’ultimo. Seguirono innumerevoli passeggiate, discussioni, conferenze, pranzi, e così, quasi trent’anni dopo, l’ho vegliato, assieme ad altre amiche e amici, al suo capezzale a Brema. Che uomo è stato? Se gli veniva chiesto da dove venisse e per quale motivo, rispondeva solitamente con allusioni e parabole, in un misto di pudore cattolico e di scaltrezza ebraica. Come cercava di essere preciso nelle sue analisi storiche, così restava sempre sul vago nel dare le proprie informazioni biografiche. Per questo i vecchi amici drizzano le orecchie alla notizia di un’opera sulla sua vita, speranzosi di ottenere finalmente dei chiarimenti sulle motivazioni e sugli aspetti meno conosciuti di uno dei più brillanti pensatori del XX secolo. Martina Kaller-Dietrich ha fatto a noi e a tutti i lettori questo dono. (…)

Osteggiato in quanto mezzo ebreo nella Vienna occupata, educato alla disciplina scolastica all’università gregoriana di Roma, entusiasmato dalla vita degli indigeni a Porto Rico e in Messico, turbato dalla campagna militare di evangelizzazione degli americani a favore dell’economia industriale, animato dai movimenti per la liberazione del Sudamerica, irritato dall’a-moralità dei postmoderni, e infine critico verso i servizi d’assistenza dello sanitario ed economico, Ivan Illich è stato (…) un testimone e allo stesso tempo un critico radicale di ogni società «moderna».

Ma perché si dovrebbe leggere Illich oggi? È possibile rispondere sia in modo sintetico che in modo più ampio. Sinteticamente: Illich riflette sulla rivoluzione mondiale che ha trasformato la cultura agraria in società industriale. Infatti la morte delle culture contadine è stata – per dirla con Eric Hobsbawm – il sovvertimento sociale più drammatico della seconda metà del XX secolo, un sovvertimento che separa per sempre il mondo moderno dal passato. Esso ha segnato la fine di un’evoluzione culturale durata migliaia di anni, durante la quale la maggior parte delle persone viveva di agricoltura, di allevamento o di pesca. Una volta che i contadini giapponesi ed europei hanno smesso di coltivare la terra, negli anni sessanta il Sudamerica e gran parte dell’Asia ne hanno seguito l’esempio. Illich ha potuto toccare con mano questa rivoluzione: a New York era assistente parrocchiale degli immigrati caraibici, a Porto Rico era impegnato nel sistema educativo, in Messico visse la lotta per la sopravvivenza delle culture indigene; viaggi in pullman attraverso l’America Latina e traversate a piedi in Africa hanno posto davanti ai suoi occhi lo scontro delle epoche.

In questo sovvertimento è riuscito a vedere ben poco di quel progresso sostenuto dai teorici della modernizzazione. In questo modo – così pensava – veniva cambiata la conditio humana. Fino a quel momento, secondo lui, la storia dell’umanità aveva creato continue e opportune forme culturali, ma ora si era costretti a registrare la spietata superiorità di una megamacchina con pretese universali che mirava alla produzione di massa e alla pianificazione da parte di esperti di quasi tutta la vita . Così i bestseller mondiali di Illich come Deschooling Society (Descolarizzare la società) o Medical Nemesis (Nemesi medica) possono essere letti come una difesa di attività umane originarie come studiare, camminare, abitare, curare o divertirsi, e precisamente come una requisitoria contro la trasformazione di queste attività in merci prodotte in serie a opera delle scuole, dei sistemi di trasporto, delle città e delle sue periferie, degli ospedali e dei mass media.

Per usare un’immagine coniata da lui stesso: l’opera di Illich è un necrologio di grande portata per quel mondo di culture non-industriali che sta scomparendo. Ma Illich era ben lontano dal fermarsi all’espressione del dolore universale della perdita; preferiva passare all’attacco. Quindi, per rispondere dettagliatamente alla domanda sul significato odierno di Illich: egli affianca al necrologio delle culture non-industriali la prefigurazione di un mondo post-industriale che si eleverà bene o male dalle rovine dell’hybris industriale ed economica. Infatti egli lamenta il processo di modernizzazione non per nostalgia del passato, ma perché lo ritiene tutt’altro che adeguato al futuro. Nel frattempo questa diagnosi è diventata, in apparenza, consapevolezza comune: difficilmente si troverà qualcuno pronto a difendere a spada tratta il processo di modernizzazione nell’epoca del caos climatico, del peak oil o del deterioramento della natura. Si sollevano già le nuvole di tempesta del XXI secolo. Certo, per Illich, su un piano più profondo, la crisi della biosfera è solo un sintomo. Egli crede che essa affondi le sue radici nell’arroganza della dismisura, nel superamento di ogni limite. Nella prima metà della sua opera, egli attribuisce alle istituzioni moderne e ai loro esperti la resistenza a riconoscere i limiti del potere umano. E non manca di imputare al sistema scolastico, dei trasporti e sanitario il fatto di essere diventati già da tempo troppo soverchianti, disumanizzanti, controproduttivi. Nella fase successiva della propria vita, invece, pone l’accento sul fatto che l’illimitatezza è già introiettata nelle credenze comuni grazie alla trasformazione del significato di concetti come «sviluppo», «vita», «salute», in grandezze di sistema che prescindono dalle persone in carne e ossa. Così, ai suoi occhi i mezzi diventano più importanti degli obiettivi, non solo dal punto di vista materiale, ma anche spirituale.

Perciò, per Illich il problema non è solo la crisi della natura (ovvero il degrado dell’ambiente), quanto anche la crisi sociale ed etica. In altre parole non scompare solo l’ambiente naturale, ma con esso le condizioni nelle quali possono prosperare l’amore per il prossimo e la responsabilità personale.

Dopo aver constatato che supernazioni come la Cina e l’India si stanno muovendo, oltretutto con un’accelerazione che porterà pesanti turbolenze al mondo e al pianeta, conviene prendere con sé Illich come viatico per tempi più duri. Egli ci ricorda che non sono sufficienti le tecniche e l’economia verde, perché non si riuscirà a contenere la crescita a livello mondiale senza la garanzia di un impegno reciproco di ciascuno e senza un personale rispetto dei limiti. L’arte delle culture contadine consisteva nel rendere amabili i limiti; del resto è proprio questo che conta dopo il declino dell’industrialismo. Ai lettori dei suoi saggi Illich lascia tracce di ogni tipo affinché prendano gusto non solo a salvare il mondo, ma anche se stessi. Con la sua ricerca di una tecnica democratica e legittimata ha anticipato la miniaturizzazione tecnologica e il collegamento in rete, le sue riflessioni sull’amicizia dimostrano che cosa tiene unita nel profondo una società, la sua lode di uno stile di vita semplice è imperniata sulla formazione della persona e del carattere. Leggerlo non solo illumina, ma dà anche più forza.

(Da: Il Manifesto del 21 maggio 2011)

wOLFGANG SACHS,Ivan Illich, un testimone scomodo della modernitàultima modifica: 2011-05-22T16:29:14+02:00da mangano1
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