Augusto GUGHI VEGEZZI, Dare un senso all’assurdo

Dare un senso all’assurdo

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Un signore alla porta chiede di René. Chi sarà? Incuriosito e perplesso, il ragazzo lo raggiunge nell’atrio, sotto gli affreschi del Ghittoni, che celebrano l’ideologia della famiglia: l’Industria e l’Agricoltura, basi della Prosperità, del Capitale. E’ il padre di Umberto. Un attimo di esultanza, subito dissolta da un viso devastato.
Umberto sta male. E’ all’ospedale e vuole vederlo. Quando? Meglio presto, meglio subito. La madre acconsente, impietosita, preoccupata.
Un’ora dopo sono all’Ospedale nella stanza dell’ammalato. Irriconoscibile. Smunto e pallido, respira a fatica. Una scheletrica ombra dell’atletico centravanti di un tempo. Emaciato. Il viso divorato da occhi grandissimi, che non vedono, smarriti nel vuoto.
Il ragazzo non si dà pace. E’ arrivato tardi. Torna ogni giorno. Niente. Solo dolore e ancora dolore. Seduto al capezzale, si sente ogni volta più amico e più disperato. Più inutile. Che fare? Si ripromette ogni volta: ‘Oggi mi riconoscerà.’ Poi se lo ripete, accanto al sofferente.
Fuori uno splendido sole infiamma il crepuscolo. Il gelo di gennaio morde nel profondo il respiro. Un sudore freddo imperla la fronte di René; lacrime velano le gote. Chissà perché si ricorda: Stiff the upper lip, l’esorcismo inglese della disperazione. Stringe i denti, all’italiana. Non è così semplice.
Sul letto Umberto, l’amico di sempre, perduto e ora ritrovato, ansima geme rantola. Sempre più evanescente, una rada peluria sul cranio nudo, le labbra secche, gli occhi nel vuoto, geme flebile, come un cucciolo inerme.
Un devastante tumore ha invaso la sua bocca: gonfiori, pustole, piaghe, emorragie. Non riesce a mangiare, nemmeno a bere. Anche la saliva si trasforma in dolore … E ha sete e ha fame …
Da settimane giace smarrito nel grande letto. Un magro focherello appena attenua il freddo della stanza … Ma il gelo nell’animo non ha rimedio.
Gemiti, singhiozzi. Suoni inarticolati. Sempre così. No. René ascolta intensamente, gli sembra di cogliere: ‘Ahahah … fffff … aaam … eeeeee… aaa … mmm … cooo.’ Decifra: … fame…amico.’ Decifra? Forse inventa? O intuisce? Chissà.
‘Evviva. Non è del tutto perduto. Mi deve aver riconosciuto. ’ Con le gote rigate dalle lacrime, René gli bacia lieve la fronte, madida di sudore ghiacciato.
Singhiozzi, gemiti. Ancora suoni. Ancora: ‘Amico fame sete ….
‘Che cosa posso fare? Avvicina un bicchiere d’acqua alle labbra screpolate. Un sorso … Un urlo straziante di dolore e un rigetto immediato. Un altro tentativo … un altro urlo … un altro rigetto. In due settimane Umberto ha perso metà del suo peso.
‘… fame … sete … amico.’
Quanta dolcezza in questa frase che morde nel profondo e strazia come una coltellata al cuore. Non è rimprovero, anche se René la sente rimprovero e se ne dispera.
Non ci sono cure, soccorsi, interventi, sollievi, evasioni. Uno strazio insensato. Non c’è nulla da fare. Il medico, lo specialista, il professore, il primario, tutti hanno allargato le braccia, con diverse inflessioni e sensibilità, tutti si sono arresi. Questione di giorni. Di settimane. Massimo due mesi.
‘Forse qualcosa di più. La speranza è l’ultima a morire!’ Ha concluso il re dei chirurghi, con un inconsapevole sarcasmo. Addirittura di più! Non c’è salvezza. La medicina non può fare più nulla. Un destino di assoluto, insensato, feroce dolore.
Il malato ha pause di silenzio … Sembrano momenti di tregua … No. Sono solo brevi svenimenti. Il tormento continua ininterrotto a mordere la carne innocente; e la consapevolezza non si spegne mai.
Ogni giorno la stessa scena, la stessa tragedia. … I rantoli … I gemiti … I singhiozzi … I suoni che sembrano comporre lo stesso lancinante messaggio. Solo René lo decifra. Nessun altro capisce: Fame … Sete … amico.
E quello sguardo sbarrato nel vuoto. Nel vuoto, ma non vuoto. Uno sguardo che non vede, ma … parla, anzi urla. Nel fondo dell’animo René sente il messaggio e l’urlo forti come il tuono … Un urlo … nello spazio … nel mondo … L’urlo del dolore del mondo. Perché? Perché? Nessuno risponde. Nessuno si fa carico. Nessuno fa niente.
Renè piange senza lacrime. Vorrebbe essere lontano. Vorrebbe assumere questo strazio. Vorrebbe farsi del male. Vorrebbe morire.
Non è possibile. Non è giusto. Non ha senso.

Sono passate due settimane. Umberto soffre e geme sempre. Respira e rantola; rantola e respira. Un cerchio ossessivo, scandaloso.
René è di nuovo là, seduto in un angolo. Si sente guardato. E’ il malato, che lo fissa? Gli occhi come caverne. I bellissimi occhi chiari, inermi nel viso emaciato. Uno sguardo che lo ferisce come una condanna. Umberto lo guarda. Lo guarda? Il respiro sibila sempre più flebile. Lo guarda… e poi guarda la finestra? E poi lo guarda di nuovo?
No, il poveretto non riconosce più nulla. Forse nemmeno è cosciente. Forse non sente più nemmeno dolore. Vuoto come una pagina bianca.
René vorrebbe morire. Umberto lo guarda e guarda la finestra. Vorrebbe fuggire. Lo guarda di nuovo e di nuovo guarda la finestra.
Vorrebbe non essere nato.
‘Non mi vede.’ si dice ‘E’ incosciente. Non percepisce, non guarda, non vede.’
Eppure si sente guardato. Ascolta sempre più fioco il lamento, che ora si alza, ora si perde, ora riprende.
‘Dicono’, René si consola, ‘che un grande dolore ottunde la sensibilità, anestetizza la coscienza, accende fantasie.’ Vorrebbe crederci. Vorrebbe morire.
Ora Umberto, l’amico ritrovato, lo guarda fisso. Certo che lo vede. Certo che lo riconosce. Certo che gli chiede qualcosa … Forse vorrebbe morire?
’Io nelle sue condizioni … vorrei morire.’
No. E’ incosciente. Deve essere incosciente.
‘Fa’ qualcosa, René’.
No, Umberto non ha detto niente. No, René non ha sentito niente. Certo ha immaginato.
Gli occhi chiari sbarrati nei suoi, una serie di gemiti, di rantoli … quasi. Di nuovo la finestra. Di nuovo lui. Controvoglia, René sente ancora … o capisce: ‘Fa qualcosa, amico. Fallo!’
La finestra. Forse l’aria è viziata? René la apre e inspira a pieni polmoni. Il gelo quasi gli blocca il respiro. La radio aveva parlato di venti gradi sotto zero. Gli occhi spersi nel nulla, il cuore spezzato, accosta le ante della finestra, gira la maniglia e fa per voltarsi. L’ingranaggio è difettoso e il gancio non ha fatto presa.
‘Se tutto è Caso, se decide il Caso oppure se tutto è Provvidenza, se decide la Provvidenza, chi sono io per interpormi, correggere o cancellare un corso delle cose che è quello giusto?’
Un turbine di pensieri inquietanti e di emozioni esasperate si cristallizza in una scelta irrevocabile di non interferire.
‘Tutto normale, René?’ Dalla soglia Angelo M., il dottore buono, lo scruta con occhi interrogativi.
‘Tutto orribile, dottore.’
‘Appunto. Questo volevo dire. Hai capito bene. Andiamo avanti così. Coraggio.’
‘Dottore, non ce la faccio più. Il mio amico soffre in modo orribile … senza colpa, consapevolezza, scopo … Per niente! E tutti restiamo a guardare. Uno spettacolo atroce. Nessuno se ne prende carico. Nessun medico, nessun uomo. Nessuna donna. Nessun dio. Lo abbandoniamo al caso … Dov’è finito il senso di responsabilità?’
‘Cominciamo a cambiare quest’aria viziata.’ Il dottore apre la finestra e, respirando con forza, riprende a parlare: ‘Che meraviglia questo cielo, che pace in queste stelle pulsanti. Caro giovane filosofo, la morte è la nostra unica certezza. E la vita è continua lotta per ostacolarla, ritardarla, rimandarla … Una guerra infine sempre persa. Tutto ciò che nasce, subito comincia a morire. Così la Storia è un tragico Tritacarne che ingoia tutti. Una generazione dopo l’altra. Quante dall’Homo sapiens sapiens a noi? Panta rei. Tutto scorre. Questa è l’assurda, spietata nostra realtà, da oltre duecentomila anni. Chi ha costruito questa trappola? Il caso, la natura, l’evoluzione, la creazione intelligente, gli dei, un dio? Chissà. Il responsabile non dovrebbe esserne orgoglioso.
Insomma vivere è non arrendersi alla fatalità della morte ma cercare felicità bellezza e amore contro il caos, il caso e la morte. Talvolta basta il battito d’ali di una farfalla per produrre una catastrofe; o è un piccolo gesto di un piccolo uomo a capovolgere il cieco dominio del fato.’ S’interrompe per chiudere la finestra, poi continua:
‘Noi medici siamo impegnati a favore degli uomini, a guarire malattie e lenire sofferenze. Con il nostro povero sapere. Umilmente, come meglio riusciamo.
C’è una staffetta tra generazioni, una melanconica corsa a turni verso l’abisso. Il testimone è ora nelle nostre mani … Non preoccuparti. Passerà a voi. Verrà presto il vostro momento. Voi poi lo lascerete ad altri … Un’inesplicabile staffetta di disgraziati. Ora torna a casa. Notte, caro.’
‘Buona notte.’
Sotto un cielo terso dove milioni di stelle pulsano meravigliose René è furibondo e frustrato; cammina, si agita, pensa, prende a calci un muro. Si fa male, una brutta storta al piede. Sta per arrendersi alla trappola soffocante del labirinto. Resiste. Rimane lucido. Ripercorre il dialogo con Orlando sulla vita e la morte e sull’eutanasia. La conclusione era sibillina. No. Era ellittica ma chiara: Fa quel che devi.
Ripercorre il monologo del dottore buono: rigoroso, sconcertante … e sibillino. Quante cose importanti e sconvolgenti sulla vita aveva prospettato… Forse aveva intuito la sua scelta tremenda di farla finita?
Il ragazzo continua a passeggiare, ripetendosi: ‘Il cielo stellato sopra di me. La legge morale in me. Cosa intendeva il dottore? Sibillino? Ellittico? Anche lui è affascinato dal firmamento e sente l’imperativo: Fa quel che devi. Una bizzarra coincidenza. E l’accenno al testimone. Cosa significa esattamente?’
Come una ciliegia chiama un’altra, un ricordo un altro ricordo. ‘Aspatùm ch’al dutùr al vèra la finéstra.’ Quante volte l’aveva sentito, quasi un proverbio enigmatico della tradizione popolare, una metafora vernacola, come questione di lana caprina, figura del cioccolatino, menar il can per l’aia. Ora ne capisce il senso realistico … di unica inevitabile via di uscita.
Il tempo scandisce inflessibile i minuti… Dieci minuti? Un’ora? Due ore? Chissà. Forse più ancora.
Una ventata possente piega fino a spezzarsi le cime dei larici e subito uno spaventoso fragore di vicine esplosioni rompe il silenzio. Vetri infranti tintinnano frammentandosi sul suolo.
Il ragazzo sibila: ‘Come speravo, i ribelli delle Squadre di azioni patriottica hanno colpito anche stanotte. Occasione sprecata. Comunque non mi arrendo.’
Quasi congelato, ricapitola:
‘Se un ragazzo è condannato innocente a uno strazio senza fine né senso e nessuno fa nulla, nessun uomo o nessun dio fa quel che può e deve fare, allora… non c’è ordine, civiltà, giustizia. Né umanità né divinità. Il cosmo s’infrange in mille frammenti impazziti e in conflitto; si rivela assurdo, senza senso, caos, oppure casuale, caso. Il mondo e i cieli sono vuoti, il regno del caso, del caos, del nulla. Caso il gancio falloso, caso l’opportunità, caso l’intervento di Angelo M., caso le esplosioni, caso il fallimento.’
Mille pensieri vorticano nella sua mente affranta.
‘Quanto tremenda e icastica la filosofia della storia del dottore buono. La metafora del Tritacarne. Sconcertante. Povera umanità. Anche quest’orrenda guerra mondiale al paragone rimpicciolisce, un’accelerazione temporanea, un tritacarne minore che, secondo le statistiche, ogni giorno sevizia e assassina almeno diecimila esseri umani, pieni di vita e innocenti, scelti per caso o dal caso. Ecco la tremenda responsabilità dell’uomo: costruire il suo ordine, la sua giustizia, la sua bellezza, la sua felicità. Homo faber fortunae suae et mundi sui.’
René riflette ancora … verifica … e decide, straziato nell’animo, che tornerà all’ospedale e farà quel che deve. Risoluto, zoppicando, rientra nella camera.
Umberto non rantola e non respira; è livido, rigido, immoto.
‘Ha cessato di soffrire.’ René in lacrime e singhiozzante si ripete più volte senza alcun conforto. Improvvisamente si sente pervadere da un’atroce sensazione di gelo. Con sconcerto scopre che la finestra è spalancata e il focherello spento.
René bacia Umberto sulla fronte ghiacciata e madida di sudore, chiude la finestra, assicurandosi che sia ben agganciata, esce nella notte. Non può, non vuole pensare, ipotizzare, sapere. Certo la tragedia si è conclusa. Eppure nessuna consolazione. Nessuna catarsi.
‘Il cielo … ‘ Gli mancano le parole. Le stelle non palpitano più, forse anch’esse agghiacciate nel cielo limpido. Si sente naufragare nelle proprie tenebre; il suo animo è vuoto, un abisso di dolore e angoscia, senza conforto, alibi, rimedio.

Augusto GUGHI VEGEZZI, Dare un senso all’assurdoultima modifica: 2011-06-21T11:27:34+02:00da mangano1
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