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Riflessioni Intorno Al “Secolo Breve” Di Eric Hobsbawm
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All’interno del dibattito storiografico che la fine del secolo (e del millennio) ha alimentato, è doveroso partire dalla imponente sintesi di Eric Hobsbawm (E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, Rizzoli, milano, 1995)

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Egli vede il Novecento come “secolo breve”, diviso in tre fasi. La prima, dal 1914 al secondo dopoguerra, viene definita l’età della catastrofe, caratterizzata dalle immani tragedie delle due guerre mondiali, dal crollo del liberismo e del mercato mondiale, dalla crisi delle istituzioni liberali e dall’affermarsi di sistemi politico-ideologici ad esso alternativi come il comunismo e i fascismi. La seconda fase è definita l’età dell’oro, ovvero un trentennio di crescita economica e di trasformazioni sociali di intensità senza precedenti. La terza parte del secolo, dall’inizio degli anni ’70 all’inizio dei ’90, è definita la frana, ovvero una nuova epoca di incertezza, di crisi, e senz’altro disastrosa per larghe parti del mondo come l’Africa, I’URSS e gli altri paesi socialisti dell’Europa orientale. Prima di individuare i temi-chiave ricavabili dall’opera, mi soffermerò brevemente sulla prospettiva interpretativa dell’autore sottesa alla periodizzazione e alla scelta stessa dei temi-chiave.

Sono due i binari sui quali verte la riflessione di Hobsbawm: il ruolo del progetto socialista e quello del mutamento economico; mentre la periodizzazione si articola in tre grandi blocchi: l’«Età della catastrofe», che va dal 1914 al 1945 (con al centro la grande crisi economica del 1929), l’«Età dell’oro», che comprende gli anni tra il 1945 e l’inizio degli anni ’70, il periodo della «frana», che racchiude gli anni che vanno dalla crisi economica degli anni ’70 al crollo dell’URSS nel 1991. Il secolo breve di Hobsbawm può essere allora considerato un “sandwich storico” in cui due epoche di crisi contengono un periodo segnato da una lunga e intensa crescita economica e dall’innalzamento degli standard di vita. Ma le due crisi sono molto diverse tra loro, perché mentre la crisi del 1929 esplode dopo un decennio (quello seguito alla fine della prima guerra mondiale) di sostanziale stagnazione, dominato dal tentativo di restaurare lo stato di cose precedenti, la crisi degli anni Settanta viene dopo un ventennio di sviluppo economico, sociale e tecnologico di portata assolutamente inedita e anzi rappresenta il prodotto di alcune contraddizioni insite in quel processo stesso.

Egli indica esplicitamente, come elementi a suo avviso caratterizzanti il Novecento, tre tendenze di fondo:
1) la fine dell’eurocentrismo;
2) il carattere sempre più unitario del mondo (e quindi, necessariamente, dell’approccio con cui leggerne la storia);
3) la disintegrazione dei vecchi modelli di relazioni umane e sociali e la rottura dei legami tra le generazioni, specie nei paesi avanzati; forse è legato a questa terza tendenza il carattere violento, “barbarico” (cioè regressivo sul piano morale e della civiltà), che a più riprese Hobsbawm sottolinea come tratto distintivo del Novecento rispetto al secolo che l’ha preceduto.
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Per capire l’approccio di Hobsbawm dobbiamo tenere conto, oltre che di queste tre tendenze di fondo, anche delle gerarchie tra i vari temi-chiave. Su questo, notiamo in lui una certa oscillazione prospettica. Egli afferma che, quando guarda “da lontano” il secolo, non esita a considerare come “la più grande questione del ventesimo secolo per gli storici del terzo millennio I’età dell’oro che va dal 1947 al 1973, la più rapida e fondamentale trasformazione economica sociale e culturale che la storia ricordi, perché è venuta al termine la lunga era nella quale la stragrande maggioranza del genere umano è vissuta coltivando i campi e allevando gli animali. Paragonato a questo cambiamento, il confronto tra capitalismo e socialismo sembrerà assai meno interessante dal punto di vista storico, qualcosa di paragonabile, nel lungo periodo, alle guerre di religione o alle crociate”.

Però, quando guarda il secolo più “da vicino”, è lui stesso a riconoscersi tra “coloro che sono vissuti durante il secolo breve, per i quali quel confronto tra capitalismo e socialismo ha significato ovviamente qualcosa di molto importante. Quel confronto assume un grande rilievo anche in questo testo, dal momento che il libro è stato scritto da uno storico vissuto nel ventesimo secolo per lettori che vivono alla fine del secolo”. Certo è che nel libro il tema di fondo del secolo breve, che ne determina anche gli estremi cronologici, è il confronto-scontro tra capitalismo e socialismo: “Il mondo che è andato in frantumi alla fine degli anni ’80, con la fine dell’URSS, era il mondo formatosi a seguito dell’impatto della rivoluzione russa del 1917”. A fronte di questo, anche il fenomeno dei fascismi appare secondario e parentetico. A suo avviso, infatti, “il decennio ’35-’45 ha un carattere eccezionale e transitorio, la cui politica internazionale può essere meglio compresa come una guerra civile ideologica internazionale che come una lotta tra stati: una guerra civile tra i discendenti dell’illuminismo settecentesco e i suoi oppositori, una guerra civile perché l’opposizione tra forze fasciste e antifasciste era interna a ogni società, e l’alleanza coi nemici del proprio paese, in entrambi i fronti, era diffusissima”.

Se la cifra fondamentale del secolo è il confronto capitalismo-comunismo, la conseguenza un po’ paradossale è che, quando ancora dobbiamo varcare le soglie del ventunesimo secolo, il ventesimo ci appare già un passato remoto: ovvero, esso si chiude azzerandosi, senza che il suo tratto saliente lasci tracce significative sul futuro. Ciò è parzialmente temperato dal fatto che sotto la contrapposizione tra capitalismo e socialismo, Hobsbawm ne sottolinea un’altra, emersa negli anni trenta e di forte attualità: quella tra i seguaci del liberismo puro, ovvero della sacralità del mercato autoregolato, e i sostenitori dello stato sociale, o comunque di un intervento dello stato sull’economia con finalità redistributive. La seconda guerra fredda, afferma ad esempio Hobsbawm, ben più che contro “l’impero del male”, è stata nell’America della Reaganomics una crociata contro l’eredità di Roosvelt.

Avendo chiari questi presupposti, possiamo ricavare facilmente nell’opera i temi-chiave di un possibile curricolo scolastico sul Novecento, magari con alcune avvertenze: la prima è che su alcuni temi Hobsbawm abbandona con estrema libertà le periodizzazioni che si è dato, preferendo trattarli su scansioni temporali più lunghe; la seconda è che oltre alla successione temporale, anche la struttura spaziale del suo Novecento è ternaria, in quanto egli considera come soggetti non i singoli stati, ma le grandi aree geo-politiche, ovvero il Primo, il Secondo e il Terzo Mondo: è indubbio però che la conoscenza e la chiarezza di analisi sul Terzo Mondo non è pari a quella che dimostra verso i primi due, e che all’interno del Primo Mondo lo spazio riservato all’Italia può apparire a noi italiani un po’ sacrificato, e lo è certamente in una prospettiva di storia insegnata.

E’ appena il caso di aggiungere che quest’ultima carenza è facilmente colmabile, e che semmai la preoccupazione in proposito, nella progettazione del curricolo, dovrebbe essere quella di mantenere l’impostazione di fondo di Hobsbawm, cioè di fare sempre precedere al caso nazionale il contesto più generale entro cui va collocato. Passo dunque a proporre una possibile trasposizione scolastica, ricavando dall’opera una sequenza di temi sui quali organizzare un curricolo di storia sul Novecento.

Il «secolo breve», in definitiva, ha conosciuto dei processi che lo differenziano drasticamente dall’epoca precedente: innanzitutto il fatto che il mondo non sia più eurocentrico. Il Novecento ha segnato il “collasso” dell’Europa, ancora egemonica all’inizio del secolo. Le grandi potenze del 1914, tutte europee, si sono ridotte al rango di potenze regionali, con la possibile eccezione della Germania. Anche se questo dato non va enfatizzato, perché risulta meno rilevante se si considerano i mutamenti nella configurazione economica, intellettuale e culturale del mondo. In realtà, benché si sia registrata l’ascesa di altri paesi, le nazioni che conobbero l’industrializzazione nel corso dell’Ottocento hanno conservato la più grande concentrazione di ricchezza e di potere economico e le cui popolazioni godono a tutt’oggi degli standard di vita più alti.

La seconda trasformazione decisiva è stata secondo Hobsbawm la grande integrazione del mondo, da cui deriva una delle questioni più scottanti della fase attuale e cioè «la tensione che sussiste tra un processo sempre più accelerato di globalizzazione e l’incapacità delle istituzioni pubbliche e dei comportamenti collettivi degli esseri umani di accordarsi ad esso». Il «secolo breve» ha lasciato in eredità un sistema internazionale meno strutturato di quanto non lo sia mai stato in duecento anni, che deve affrontare i pericoli derivanti dal degrado ecologico e dalla crescita demografica sempre più incontrollabile.

Infine, la terza e “più inquietante” trasformazione è stata, secondo Hobsbawm, la disintegrazione dei tradizionali modelli di relazioni umane e sociali e, di conseguenza, la rottura dei legami tra le generazioni, cioè del «rapporto tra passato e presente». Un mutamento che è, a suo giudizio, avvertibile soprattutto nei paesi più sviluppati del capitalismo occidentale, dove si sono affermati, soprattutto a partire dagli anni ’60, con una brusca accelerazione nel corso degli anni ’80, i valori di un «individualismo asociale assoluto».

khayyamsblog,Riflessioni Intorno Al “Secolo Breve” Di Eric Hobsbawmultima modifica: 2011-06-25T14:45:01+02:00da mangano1
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