Luciano Canfora – Leggere i classici ( INTERVISTA)

Luciano Canfora – Leggere i classici
pubblicata da Vladimir D’Amora su facebook il giorno giovedì 28 luglio 2011

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STUDENTESSA: Ringraziamo il professore Luciano Canfora
di essere qui al Liceo Umberto per discutere con noi dei
classici. Introduciamo l’argomento con una scheda filmata.
Ad Andrea Zanzotto, uno dei più grandi poeti italiani
contemporanei, è stata chiesta di recente qualche
indicazione di lettura ad uso dei giovani. “Tornerei ai
classici e senza esitazione – ha risposto Zanzotto -. La
lingua italiana è ormai minacciata. Salviamola
dall’estinzione leggendo i suoi grandi autori”. Quella
indicata da Andrea Zanzotto non è ovviamente la sola
ragione per tornare a leggere i classici, ma soprattutto
per chiedersi: che cos’è un classico? È un libro che ha
superato i confini della propria epoca, in grado dunque
di parlare con la stessa intensità a ogni generazione? E
il “Pinocchio” di Collodi o i romanzi di Emilio Salgari o
“La bella addormentata nel bosco”, “Cappuccetto
Rosso”, “Il gatto con gli stivali” o “Cenerentola”, tutte
favole di Charles Perrault, sono classici alla stessa
stregua de “La Divina Commedia” di Dante, de
“L’Orlando Furioso” dell’Ariosto o de “I Promessi Sposi”
di Manzoni? Sono più classiche le poesie di Foscolo o
quelle di Eugenio Montale? È più classico Giovanni Verga
o Carlo Emilio Gadda? Non è poi così facile rispondere a
queste domande. Potremmo dire che un classico,
nonostante il riconoscimento diffuso di cui gode, è un
libro che non si lascia facilmente collocare. A
caratterizzarlo è una particolare irrequietezza. Un
classico non sta mai là dove lo si mette e non finisce
quando lo si chiude con la sua ultima pagina, ma
accompagna il suo lettore nel tempo e, attraverso il
tempo, attraverso le diverse stagioni dell’esperienza
umana, nelle sue alternanze, nei suoi slanci e nelle sue
cadute. È comunque parola umana e dunque non parla
sempre e non dice tutto. “I classici – scrive Italo Calvino
– ci consentono di capire chi siamo e dove siamo
arrivati”. Ma “non si creda che i classici vanno letti
perché servono a qualcosa. La sola ragione che si può
addurre è che leggere i classici è meglio che non
leggere i classici”.
 
STUDENTESSA: Professore, che cos’è, a Suo giudizio, un
classico?
 
CANFORA: A rigore un libro di prima classe, visto che classicus è
una parola latina che vuol dire della prima classe, in opposizione
all’ultima, proletarius. E però è una risposta troppo semplicistica
questa. Classico si potrebbe dire è come un fatto storico. Tutti i
fatti sono fatti storici? Certamente no. Infatti gli storici scelgono
alcuni fatti, li mettono nei libri e questi costruiscono un racconto
di eventi storici. Tra le infinite cose che si scrivono e che sono
state scritte e che si scriveranno affiorano, come i fatti storici tra i
fatti comuni, i classici rispetto agli altri. Quindi è un concetto
mobile, è un concetto che va e viene, nessun classico resta tale,
per tutta l’eternità. Lo diventa. A un certo punto smette di
esserlo. E quindi è una realtà mobile quella che abbiamo davanti
coi libri, e tutto è in riferimento a noi. Siamo noi che li sentiamo
tali.
 
STUDENTESSA: Ci sono dei classici che possono essere
considerati essenziali ancora oggi, dei libri essenziali per la
formazione di un individuo, di un essere umano?
 
CANFORA: La domanda è bellissima, però è un po’ vaga. Per
esempio, per i Cinesi o per i Sudafricani o per i Brasiliani valgono
gli stessi classici che per i Francesi o i Norvegesi? Non faccio un
paradosso: voglio dire, come abbiamo detto poco fa, si tratta di
scelte che hanno a che fare con i bisogni dei lettori. Facciamo un
esempio pratico, concreto. Quando sono stati riscoperti i classici –
la prima significazione di classico è per gli autori antichi, i greci e i
romani – nella storia, quando nell’Umanesimo si sono riscoperti gli
antichi come più ricchi di contenuti, più belli formalmente, più
profondi, che non la letteratura medioevale. Sono stati sentiti
come più forti, più completi, più ricchi sul piano della forma, più
densi di contenuto. E quegli uomini – fra il Quattrocento e il
Cinquecento – hanno sentito questo bisogno di tornare a quegli
autori, li hanno sentiti come classici. Ma oggi siamo lontanissimi
da quella epoca e sono nati altri classici: Shakespeare, Tolstoj
per fare dei nomi. Si potrebbe aggiungere Thomas Mann e
Borges. E allora non c’è una ricetta, non c’è un elenco. Ci sono, in
una lotta dinamica tra i bisogni dei lettori, i problemi che la
quotidianità ci pone e la densità concettuale di questi libri. Non
darò un elenco quindi, ma dirò semplicemente che questa
schermaglia continua è ricca di frutti. Pensate a quel racconto di
Swift de La battaglia dei libri: i libri escono dagli scaffali e si
fanno guerra tra loro. È un racconto fantastico e scherzoso. E tra
i classici c’è forse inevitabilmente questo rapporto: un dinamismo
continuo. Probabilmente è un’idea forza quella dei classici, cioè
l’idea che un libro può diventarlo e risponde per un certo
ambiente, per certi uomini, per un paese, in un’epoca, per una
classe sociale, per una cerchia letteraria, a un bisogno fortissimo.
Quindi è difficile dire se ci sono degli autori senza dei quali siamo
fritti, a meno che non si voglia appunto sclerotizzarli e dire:
“Quelli per sempre”. Ma non appena diventano “autori per
sempre” cominciano a perdere desiderabilità. È quello che è
successo un po’ a un romanzo italiano grandissimo, quello di
Manzoni. Collocato stabilmente nell’ordinamento scolastico come
un passaggio obbligato, ha finito col perdere attrattiva per chi lo
leggeva. Se, per un bel po’ di tempo, venisse escluso dalle letture
scolastiche, comincerebbe ad essere desiderato e ridiventerebbe
un classico.
 
STUDENTESSA: Un libro di evasione oppure una fiaba
possono essere considerati dei classici?
 
CANFORA: Perché no? Il libro di evasione è in
antitesi al libro di detenzione, perché
l’evasione è il contrario della detenzione.
Scherzo. Apuleio, per esempio, è un autore
classico, con il romanzo Metamorfosi, meglio
noto come L’asino d’oro. Ne L’asino d’oro c’è
“Amore e Psiche”, che è una fiaba, è un
classico. La sua natura di classico non dipende
dal tasso di fantasticità o di realismo che c’è
dentro. Dipende probabilmente – torno a dire, come ho detto
poco fa – dal contenuto concettuale implicito o esplicito. Anche
una fiaba ha un contenuto concettuale e talora fortissimo,
complesso.
 
STUDENTESSA: Qual è il classico che ha avuto più
influenza nella Sua formazione?
 
CANFORA: La storia delle guerre civili di Appiano di Alessandria,
che appunto non si merita forse l’epiteto di classico, diciamo
correntemente. Appiano di Alessandria era un funzionario
dell’Impero Romano al tempo degli Antonini. Scriveva in greco,
perché, essendo di Alessandria, i colti di Alessandria, da tempo
immemorabile, dal tempo di Alessandro Magno e dei suoi
successori, scrivevano in greco. E quest’uomo ha scritto una
storia di Roma. L’ho incontrato – in senso ovviamente libresco –
quando facevo il Ginnasio. E in quel tempo succedeva che in
Francia era in atto una crisi politica fortissima, un colpo di Stato,
che portò al potere il generale De Gaulle, il quale era anch’egli un
classico, avendo scritto delle magnifiche memorie della sua vita,
vita movimentatissima peraltro. In quel libro, in cui si racconta la
storia delle guerre civili, io trovavo degli elementi molto vicini a
quello che succedeva in Francia. Poi quello che succedeva a
quell’epoca in Francia era come se succedesse in Italia: era
talmente sentita la politica di questo paese vicino, quasi come
fosse la nostra, che, per me, quel racconto antico era
straordinariamente ricco di riferimenti a quello che succedeva
intorno a me, mi colpiva enormemente. Le ho raccontato questo
fatto irrilevante, cioè come per una singola persona, scolarizzata,
che legge dei libri, un libro non usuale diventa una lettura
segnante, una lettura che segna, cioè un classico.
 
STUDENTE: C’è un modo per accostarsi ai classici? È
necessario un filtro critico, oppure nel rapporto tra lettore
e testo non ci devono essere degli intermediari?
 
CANFORA: Sono vere tutte e due le cose, che non è una risposta
ipocrita che serve a tener contenti tutti. È vero che un autore
scrisse per essere letto e non per essere commentato dai critici
letterari, che di solito sono dei parassiti – nel senso etimologico
del termine – la cui parola nasce dalla parola di quell’autore, le
vive addosso, come il muschio su una pietra. Scrissero per essere
letti dal maggior numero di persone simpatetiche, che sentono
alla stessa maniera. E quindi sono anche esposti al
fraintendimento. Uno legge, capisce il trenta per cento, gioisce
ugualmente, fantastica su quello che ha letto, avendolo capito
male, poi lo rilegge e lo capisce in altro modo. E questo è il vero
uso dei classici, libri aperti. Poi è ovvio che ci si arriva anche
attraverso una strada colta. Cioè, se io leggo Guerra e pace, il
grande romanzo di Tolstoj, sono preso dal racconto, perché è un
racconto potente, ricco, coinvolgente, ognuno si sente coincidere
con il personaggio che gli piace di più, col quale cospira. Però poi,
se io so che l’esperienza napoleonica ha segnato l’Europa, che il
giacobinismo, attraverso Napoleone, è arrivato anche nel paese
dell’autocrazia, cioè la Russia, che però lì ha determinato reazioni
singolari, singolarissime, una reazione nazionale in cui Tolstoj si
identifica, e che quindi il giacobinismo ha avuto un momento di
crisi, se io penso a tutto questo e rileggo Tolstoj, lo capisco
meglio. Tutte e due le letture sono necessarie.
 
STUDENTESSA: Secondo Lei, la scuola è in grado di
comunicare il valore di un classico, oppure ci allontana dai
grandi libri?
 
CANFORA: La scuola è l’unica istituzione che non dovrebbe mai
perire. Possono cambiare tutte le strutture, tranne quella
scolastica. Del resto esiste, da tempo immemorabile, e
continuerà ad esserci. Dove ci sono due persone, dove una sa di
più e l’altra ha voglia di sapere, là c’è già la scuola. Quindi non è
in discussione. Credo che sia un luogo ideale per la lettura. È il
luogo dove quel che si fa, si fa in modo disinteressato. Quando si
sta a scuola, non c’è nessuna ragione esterna all’insegnamento e
all’apprendimento che porta quelle persone a stare lì. E quindi è il
luogo ideale per leggere i classici, i quali richiedono disinteresse.
Non appena subentra un elemento esterno, un elemento
empirico, pragmatico, una finalità, lì il classico comincia a
soffrire. E il rapporto fra due persone che si parlano e si spiegano
l’un l’altro che cosa hanno capito in un testo, si appassisce. E
quindi credo che la scuola sia il luogo giusto. Però ho della scuola
un’idea vasta. La scuola c’è dovunque.
 
STUDENTESSA: Ci sono dei classici che nel tempo sono
stati dimenticati o magari altri che oggi sono
sopravalutati?
 
CANFORA: Ma sì, certamente. Anzi, come dicevamo all’inizio, il
meccanismo è quello lì. Si diventa, si cessa di essere e si torna
ad essere classici; è come per le onde del mare: c’è un continuo
movimento. Quando si dice: “Si è riscoperto quell’autore”, non è
che si è riscoperto. Era forse nell’ordine delle cose che prima o
poi ritornasse. E si torna per ragioni diverse. Per esempio: la
passione per i poemi cavallereschi, certamente è un po’ ridotta
nel tempo nostro che non al tempo di Torquato Tasso o di
Ariosto. Ma questo non significa che leggere l’Ariosto perda
attrattiva per il fatto che noi, rispetto alla vicenda di cui lui ci
parla o ai costumi di cui lui ci parla, siamo molto più freddi che
non i nostri antenati di vari secoli addietro. Quindi sottovalutare
vuol dire semplicemente che altre ondate di interessi sono
subentrate e hanno conquistato per un periodo di tempo
l’attenzione. Molto dipende dalla lingua. Ecco, se si perde il
contatto con la lingua in cui è scritto un testo, allora i rapporti
con quel testo cominciano a indebolirsi. Questo succede un po’,
per esempio, agli antichi, perché è fatale che gli antichi non siano
letti usualmente nella loro lingua, ma anche i romanzi russi,
tranne per i pochissimi che sanno il russo – beati loro –
ovviamente si usano le traduzioni. E le traduzioni sono già un
filtro micidiale. Se uno legge Omero nella traduzione di Monti,
deve tradurre poi l’italiano del Monti nel nostro italiano. Ma se
legge Esiodo nella traduzione di Cesare Pavese la sente come una
parola vicina anche nel tempo. Ecco la traduzione è spessissimo il
vero veicolo, è lì il segreto certe volte del destino di alcuni autori.
 
STUDENTESSA: Queste riscoperte dei classici possono
anche essere solamente individuali, quindi soggettive?
 
CANFORA: Leopardi si chiedeva: “Che cosa vuol dire massa, se
non un insieme di individui, i quali appunto hanno ciascuno un
loro bisogno, una propria storia, un proprio desiderio?”. È difficile
che scattino idee collettive. Non so: in gruppo vogliamo leggere il
Tasso. Non è normale. La somma di tanti desideri individuali
determina anche delle mode. Ma questo poi ha a che fare, nel
tempo nostro, con dei fattori esterni, per esempio il potere
televisivo, il potere dei giornali, il potere di questi veicoli che
formano la mente delle persone, la influenzano, la dirigono. Non
necessariamente in modo negativo. Per la televisione si potrebbe
dire che spesso è in modo negativo, perché è soverchiata di cose
inutili, ma già la radio o i giornali sono meglio. I giornali hanno
questo di bello, che sono fatti di tante pagine, di cui quasi
nessuno legge tutto. Ogni pagina ha un suo destinatario. Le
cosiddette “pagine culturali” dei giornali – la parola che può
sembrare antipatica – sono stracolme di cose interessanti e
determinano il gusto, suggeriscono una lettura, un libro, fanno
vedere che di un certo libro è uscita una traduzione splendida.
Ecco, questo influenza quelle che appaiono le scelte individuali e
che non sono mai individuali. Nessuno è solo nel deserto; ognuno
di noi è il frutto dei fattori che ci determinano, più o meno
visibilmente.
 
STUDENTESSA: Secondo Lei, quali libri degli ultimi decenni
possiamo già considerare classici, oppure i classici
appartengono inevitabilmente a un passato lontano?
 
CANFORA: Lei si riferisce all’Italia o all’Europa?
 
STUDENTESSA: In generale all’Europa, ma anche all’Italia
degli ultimi decenni.
 
CANFORA: E quindi uno scrittore argentino come Borges, non me
lo vuole considerare.
 
STUDENTESSA: Se devo essere sincera, non lo conosco.
 
CANFORA: Borges è un personaggio attraente al massimo e, se
dobbiamo usare questo criterio, questa parola impegnativa, è un
classico. Credo che non sia mai riuscito a avere il
Premio Nobel, se non ricordo male, e questo dimostra
che non è un criterio quello del premio, ma è un
criterio quello della qualità narrativa. Tante sue
formule, idee, concetti, suggestioni, la biblioteca
come labirinto universale, per dirne uno che è
diventato famosissimo, partono dai suoi racconti,
racconti spesso ai limiti del surreale, geniali. L’idea,
per esempio, che c’è un luogo, più o meno immaginario, dove i
sentieri continuamente si biforcano, che sta a significare che
ognuno di noi ha sempre due strade davanti. Ad ogni passo
siamo dinanzi a scelte, eccetera, ecco, è entrato nel modo di
pensare, di esprimersi. È diventato un classico, forse senza che
ce ne accorgessimo. La sua autoironia poi, era tale da rendere
meno evidente questo processo. Leonardo Sciascia, un classico
della narrazione che conquista il lettore, che banalmente viene
definita poliziesca o di indagine. Ma, da ultimo, dei critici
cominciano a dire: “No, per carità, è solo un tecnico della
narrazione”. Si continua a leggere con passione straordinaria.
Quindi resiste nella sua funzione di classico, nonostante alcuni
professori hanno deciso che non lo è. E parlo di persone che sono
state vicine a noi nel tempo e forse addirittura direttamente
conosciute. Quindi un limite cronologico direi che non sussiste.
Quando uscì La montagna incantata di Thomas Mann, per
esempio, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, fu subito un
classico, fu una rivelazione, parlava del presente. Io, se posso
osare di dare dei suggerimenti, questo libro lo vedrei volentieri
nelle Vostre classi; è lo scontro tra due figure, Nafta e
Settembrini. Ecco, questi due rappresentano metà di noi stessi.
Noi conteniamo dentro noi stessi quei due personaggi, anche se
non lo sappiamo. E quello è un segno che abbiamo davanti un
classico. Poi naturalmente è un classico naturalmente anche il
Machiavelli. Dei politici come Gorbaciov, per esempio,
sicuramente non avevano letto Machiavelli; e infatti Gorbaciov
alla fine ha avuto dei guai.
 
STUDENTESSA: Secondo Lei oggi che valore possiamo
attribuire al passato e alla memoria? La memoria può
essere ancora considerata necessaria al tempo di
Internet?
 
CANFORA: Diceva Leopardi che tutto quello che sappiamo lo
sappiamo a memoria. E, se Lei ci pensa, è vero. Non nel senso
che uno mnemonicamente mette in fila delle parole con le
notizie, ma tutto quello che resta nella testa sta aggrappato alla
memoria. Poi, ogni tanto si usa questa parola, che Lei appunto ha
adoperato: Internet, che è un po’ l’abracadabra del tempo
nostro, che è uno strumento, un oggetto straordinariamente
utile, che ha un solo rischio, quello di essere considerato un
sostituito del cervello. E siccome per ora, per fortuna, nessuna
scienza ha osato mettere qualcosa al posto del cervello umano,
noi dobbiamo tutti sperare che Internet non abbia invece questa
ventura e questo destino. È un nostro oggetto, un oggetto da
piegare ai fini della intelligenza, non è un sostituto, né
dell’intelligenza, né della memoria. E il più grande possesso che
noi abbiamo è la memoria. Quando una persona comincia a
decadere – si dice che comincia la senescenza – qual è il primo
segnale? Comincia a perdere la memoria. Quindi direi che è uno
strumento da tenere in esercizio, continuamente!
 
STUDENTE: Per capire il presente, per vivere meglio il
presente, conviene leggere più un classico del Novecento
europeo o una tragedia greca?
 
CANFORA: E perché Lei fa questa alternativa fra il classico – non
so bene se un prosatore o un poeta – e la tragedia greca ? Perché
allora Le potrei dire che il mio contemporaneo più vicino nel
tempo, col quale passeggio spesso, si chiama Tucidide, che è uno
storico, un politico innanzi tutto, realista al massimo,
disincantato, la cui lettura gioverebbe, forse più che quella di
Machiavelli. È nato circa nel 460 avanti Cristo, ma è come se
fosse un candidato nelle nostre elezioni politiche. Cioè è
veramente un nostro contemporaneo. La distanza bisogna
saperla percepire, si capisce. Ecco, senza una cultura storica si
perde molto nell’apprezzare un testo. Ma l’idea che la distanza
temporale renda monumenti giganteschi gli antichi o
rimpicciolisca i nostri contemporanei o viceversa, è un’idea
completamente sbagliata.

Luciano Canfora – Leggere i classici ( INTERVISTA)ultima modifica: 2011-07-29T10:28:30+02:00da mangano1
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