Goffredo Fofi,Vittorio De Seta e il suo mondo perduto

Vittorio De Seta e il suo mondo perduto

di Goffredo Fofi

29 novembre 2011 da L’UNITA’

Unknown-1.jpeg

Vittorio De Seta (Olycom)
De Seta ha diretto pochi film, sempre in difficoltà con il mondo circostante, scontento ed esigente, ma alcuni dei suoi lavori sono in assoluto tra i massimi capolavori della storia del cinema, non solo italiano. Penso in particolare alle meravigliosa serie dei documentari (a colori e senza commento parlato, contrariamente alle convenzioni di allora e di sempre).

Tra Sicilia, Sardegna e Calabria, egli si dedicò al cinema subito dopo il ritorno dalla prigionia, e documentò tra il 1954 e il 1959 “il mondo com’era”: la pesca e l’agricoltura, le zolfatare e la pastorizia, il rapporto con la fatica quotidiana e con la natura: mare e terra, in pace o in fermento, poiché la natura è amica e ci nutre ma può essere anche nemica, illuderci, opprimerci.

Allievo indiretto del grande Robert Flaherty, fu all’altezza del maestro in molti perfetti gioielli del cinema documentario-poetico, non di denuncia, di constatazione: Il tempo del pesce spada, Isole di fuoco, Solfatara, Contadini del mare, Parabola d’oro… Esordì nel lungomentraggio con un capolavoro (1961: Banditi a Orgosolo), in anni che per il cinema italiano furono ricchi di capolavori e di esordi memorabili (Pasolini, Olmi, Petri, i Taviani). Il suo secondo film a soggetto fu molto diverso, un’intensa autoanalisi “borghese”, Un uomo a metà, che sconcertò molti critici ed entusiasmò Pasolini.

Nel 1956 avrebbe dovuto esordire con un film sul giovane sindacalista di Sciara ucciso dalla mafia, Salvatore Carnevale, un’idea che ripresero più tardi i Taviani per il loro esordio nel lungomentraggio. Lo conobbi nel ’56, venuto in visita durante la preparazione di questo film da Danilo Dolci, presso cui lavoravo, ed era il primo regista che io conoscessi, un incontro per me memorabile. Tanti anni dopo ci frequentammo assiduamente, con alti e bassi per via del suo carattere molto ombroso. Nobiluomo siculo-calabrese, inquieto e talora ossessivo, ebbe un’ultima grande occasione, quando la sua opera venne riscoperta e apprezzata da schiere di giovani documentaristi di tutto il mondo (un suo sponsor accanito fu negli anni novanta Martin Scorsese) con un film che ha parti bellissime (in particolare il primo e l’ultimo terzo del film), Lettere dal Sahara, tra i primi esempi di un cinema italiano infine alle prese con il tema centralissimo delle nuove immigrazioni.

Formidabile era stato il suo contributo alla televisione, un modello che la tremenda televisione degli ultimi decenni ha combattuto e fatto dimenticare, in particolare con il Diario di un maestro, che mescolava con estrema abilità e serietà la presa diretta e la ricostruzione, i personaggi reali e gli attori.
L’interesse della sua opera va oltre il cinema e si riallaccia idealmente a quella dei grandi meridionalisti del dopoguerra, di cui fu spesso amico, come Gaetano Salvemini e Carlo Levi, Manlio Rossi Doria e Rocco Scotellaro, Ignazio Silone e Tommaso Fiore, Angela Zucconi e Danilo Dolci. Quando io e Franca Faldini lo intervistammo per L’avventurosa storia del cinema italiano negli anni settanta riassunse in modo struggente il suo lavoro di documentarista: “La pesca del pesce spada andava avanti così da duemila anni quando io l’ho girata. Ci sono vasi fenici che la illustrano, e le immagini sono le stesse del ’54.

Chi poteva pensare a cosa sarebbe successo dopo in Italia, con gli anni Sessanta? Chi poteva pensare, nel ’54, che pochi anni dopo, di colpo, questo tipo di pesca sarebbe finito? Le miniere di zolfo? Finite. La pesca del tonno? Finita. La mietitura del grano? Finita. I riti della Pasqua? Finiti…”
Grazie a De Seta, di questo mondo che sembrava eterno ci restano immagini di assoluta p

Goffredo Fofi,Vittorio De Seta e il suo mondo perdutoultima modifica: 2011-12-01T12:19:59+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo