Ora che di Lucio Magri, dopo anni di sostanziale lontananza dalla scena politica, si torna a parlare per la tragica conclusione della sua vicenda umana (con il suicidio assistito in Svizzera) molte sono le associazioni mentali, involontarie e forse improprie, che viene di compiere. Viene da ricordare, con emozione, che anche Langer se n’è andato, tragicamente, di sua scelta. Togliendosi la vita proprio a Firenze. L’ultimo saluto gli fu dato in quella Badia Fiesolana dove, fino a pochi anni prima, padre Balducci aveva predicato la sua utopia planetaria. Sul suicidio di Langer sono state fatte, come non si dovrebbe, molte illazioni. E ne sono state cercate le ragioni di fondo nelle delusioni patite o nei conflitti interiori derivanti dall’ infrangersi di un orizzonte di rinnovamento politico delle relazioni umane. Anche in relazione alla scelta consapevole di intraprendere (letteralmente) l’ultimo viaggio da parte di Lucio Magri si sono spese molte parole. Dicendo della sua incapacità di accettare la fine della “narrazione” comunista della storia e di confrontarsi con il fallimento (com’era intitolato il suo ultimo libro) del “Sarto di Ulm”.
Ma ci sono dimensioni estreme, che riconducono ad una riposta curvatura esistenziale, rispetto alle quali assai più delle esternazioni è appropriato il silenzio.
Suona, in qualche modo, stonato anche il riproporsi degli opposti partiti (pro o anti eutanasia), rianimati dalla scelta dirompente dell’ex esponente del “Manifesto”. Il tema del suicidio, del resto, va distinto da quello della “dolce morte” talora rivendicata in caso di condizioni di grave sofferenza o di malattie incurabili. Esso evoca, piuttosto, l’antico orizzonte “stoico” della più generale libertà di por fine alla propria esistenza quando essa non è più configurabile come “buona vita”. Un orizzonte che dalla chiesa e dal cristianesimo è sempre stato considerato inaccettabile. Un tempo ai suicidi erano interdette cerimonia religiosa di commiato e sepoltura in terreno consacrato. “Di un suicida non hanno pietà”, cantava De Andrè. E’ stato il clima post-conciliare a far prevalere l’idea pietosa che anche il suicida dovesse essere, prima di tutto, affidato alla misericordia divina. Ed era ancora il poeta-cantore De Andrè, cui si deve l’abbattimento di molte barriere fra cultura “alta” e cultura “bassa”, a rivolgersi direttamente a Dio, nella bellissima “Preghiera in Gennaio” scritta in memoria di Luigi Tenco, chiedendogli di ascoltare una voce che “ormai canta nel vento”. Sono temi ardui e difficili. L’uomo fatica, soprattutto nel tempo del giovanilismo imperante e dell’efficienza obbligata, a porsi in rapporto con la propria fragilità e finitezza.
Si dice che una volta avessero chiesto ad un teologo progressista, attendendosi una risposta di forte impronta sociale, chi fossero i poveri. “Tutti siamo poveri, perché tutti dobbiamo morire”, fu invece la risposta. Proprio per far prevalere le ragioni della vita e della dignità umana, è tempo che tutti, credenti e non credenti, con tale dimensione torniamo a confrontarci.
Severino Saccardi