da Ennio Abate: interpretazione queer dei Promessi sposi di Giartosio

 da Ennio Abate:  interpretazione queer dei Promessi sposi di Giartosio
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Segnalo ai moltinpoesia che sul sito LE PAROLE E LE COSE  c’è stata una continuazione della discussione su cui li avevo implicati.
Segnalo pure ad altri amici/che invitando alla lettura del saggio in due puntate di Giartosio, facilmente recuperabile scrivendo ‘Giartosio’ in ‘Cerca’ sulla colonna di destra.
 Ciao
 Ennio

Tommaso Giartosio
9 aprile 2012 alle 23:52
Grazie a Ennio Abate. Quanto mi incuriosisce questa “discussione abbastanza accesa”. E poi, più in particolare, la questione dell’eventuale antistoricità del saggio (o dell’approccio). Mi piacerebbe saperne di più. Anche per imparare.
Ennio Abate
13 aprile 2012 alle 00:20
@ Tommaso Giartosio
Sulla “discussione abbastanza accesa” con amiche e amici della mia mailing list non ho molto da aggiungere. Non sono persone che frequentano LPLC e diffidano degli “intellettuali”. Come detto, le loro reazioni sono state di generico apprezzamento (“ben scritto”) ma in fondo di irritazione e chiusura (“Manzoni non si tocca”; la psicanalisi è pan-sessismo, pseudoscienza, riduce l’Uomo alle sue “distorsioni sessuali”).
Niente di interessante per gli agguerriti e navigati redattori e commentatori di LPLC. Ma, nella mia ottica di “contrabbandiere” che si muove tra livelli culturali ormai congelati (alti,medi, bassi) e reciproci snobismi (“dal basso”, “dall’alto”), ho voluto segnalare nella mia cerchia il suo saggio “provocatorio” e a voi di LPLC le reazioni di un campione – credo rappresentativo – del buon senso comune culturale “non universitario” con cui dovreste fare di più i conti.
In merito all’accusa di aver prodotto un testo “antistorico”, preciso che non veniva da me. Comunque non nego le mie perplessità su problemi non del tutto chiari che il suo saggio mi pone e provo a passare dal generico e iniziale elogio ad alcuni ragionamenti.
La sua è una (legittima) lettura “filtrata” dei personaggi manzoniani: isola, cita, dispone in un’altra cornice (interpretazione) aspetti che un lettore ingenuo o distratto o tradizionale non ha mai isolato e stenta o non metterebbe nella cornice psicanalitica.
Colpisce anche per questo: ha il rigore unilaterale e coerente del procedimento “scientifico” applicato al romanzo manzoniano. E si colloca nel solco di una ricerca che ha già autorevoli precedenti: Pasolini e Arbasino ( ma anche Gadda), da lei citati. Ci aggiungerei anche Zanzotto, che in «Fantasie di avvicinamento» vedeva di buon occhio «quella lettura psicanalitica (ecc. ecc.) di Manzoni che è appena iniziata [è un’intervista del 1973] e che ha un valore ben altro che propedeutico».
Non ho nulla in contrario a questi “filtraggi” di un classico, nel caso dei Promessi sposi.
È chiaro, però, che il suo “filtraggio” queer esclude dai Promessi sposi una quota consistente di elementi (religiosi, politici, ideologici, descrittivi, ecc.). E vorrei capire se temporaneamente o in maniera definitiva. Perciò le chiederei di spiegarmi: per lei la lettura queer del Promessi sposi dovrà sostituire le altre o vuole aggiungere la dimensione queer (per tutto un periodo impensabile e poi magari – diciamo dall’avvento della psicanalisi – occultata o non indagata) alle altre più note interpretazioni del romanzo manzoniano?
Un secondo problema riguarda proprio lo scarto tra l’ottica “queer” (direi americanizzante, postmoderna, da movement) e l’ottica cristiano-patriottico-familistica ottocentesca di Manzoni.
Anche se lei ha riportato le dicerie di Carlo Dossi, la satira collegiale del giovane Alessandro, la denuncia di Cesare Beccaria contro i collegi in cui finirà il nipote Manzoni, resta il fatto che quello era sì «un mondo che conteneva anche l’omosessualità, e ne parlava molto più di quanto si creda, da Parini a Beccaria, da Alfieri a Monti, da Belli a Leopardi», ma – semplifico – la viveva in una cornice culturale che non è assimilabile a quella del mondo d’oggi, che almeno nella parte “americanizzata” o “radical” “contiene”, sì, l’omosessualità ma in modi profondamente diversi. Forse è un’osservazione banale. Ma l’omosessualità dei tempi del Manzoni non era in evidenza nel dibattito culturale d’allora com’è oggi. È una differenza non da poco. (Ricordo che lo stesso Foucault aveva sottolineato l’elefantiasi dei discorsi sulla sessualità nel mondo d’oggi).
Quindi un tale scarto fa problema. Se in teoria o per gioco qualcuno proponesse oggi un eventuale “riassunto queer” dei Promessi sposi e scegliesse i brani o i capitoli dove la lettura queer è più plausibile e convincente, il romanzo si ridurrebbe davvero, che so, a un sedicesimo di quello scritto. Susciterebbe curiosità e interesse in certi ambienti. Ma si perderebbero aspetti STORICAMENTE E POLITICAMENTE importanti. E forse si smarrirebbe la stessa *distanza* che rende i Promessi sposi un classico per quanti ancora riescono a leggerlo. Le dico anche che io non mi sentirei di sbarazzarmi a cuor leggero – tanto per fare un esempio – di certe letture più “tradizionali” dei Promessi sposi. Tanto per fare un esempio, quella che ne ha dato il già da me citato Zanzotto, pur apertissimo alla psicanalisi (rimando a A. Zanzotto, Manzoni tra “Inni Sacri” e “I Promessi Sposi”, in «Fantasie d’avvicinamento», pp.211-212, Mondadori, Milano 1991). Né vedo che collegamenti si possano stabilire tra quelle riflessioni e la sua lettura queer.
A questo punto, le faccio – non maliziosamente, ma col massimo di apertura e la voglia io pure d’imparare da uno studioso giovane come lei, due domande:
1. Dopo questo lavorio di Pasolini, Arbasino su Manzoni, il nuovo discorso queer sui Promessi sposi dove mira, dove ci porta?
2. Cosa illumina della storia dell’Italia risorgimentale questa lettura?
A me pare di capire – e qui forse siamo vicini – che lei valorizzi la carica anticlericale di Manzoni: «I Promessi sposi, al di là delle vicissitudini del loro autore, si inseriscono in una polemica illuminista e ne declinano la critica anticlericale in una direzione nuova, romantica e risorgimentale». Ma poi mi pare che lei approverebbe – ipotizziamo che fosse stata possibile – un’Italia della braveria al posto dell’Italia che poi si è imposta, quella dei «buoni padri» cattolici che si permettono allo stesso tempo una critica e la celebrazione del patriarcato. Braveria contro matrimonio? Braveria meglio del matrimonio dei promessi sposi, dunque?
E poi, se dobbiamo interrogarci «sull’inconscio politico post-unitario che ha eletto i Promessi Sposi a libro per tutti» (Balicco), vorrei che i risvolti politici della sua lettura queer fossero più evidenziati. Forse non è LPLC la sede per gli opportuni approfondimenti. Ma a me pare che in questo saggio lei si limiti ad affermare la funzione ambivalente ma benefica svolta dal Manzoni artista (anche su questo concordo) mentre sfugge a una sua valutazione PIENAMENTE politica e pubblica.
Quando poi delinea quella che potrebbe essere la “morale alternativa” che trae da Manzoni:
«Forse oggi Manzoni potrebbe insegnarci – una volta invertite le valenze etiche presenti negli Sposi – a pensare di nuovo le omosessualità come pratiche virali, diffuse, disseminate. Il mondo leather dei bravi potrebbe essere oggetto di una “lettura riparatrice” che recuperi il potenziale liberatorio di quella che era originariamente una icona omofobica»
uno come me non sa fare a meno di rilevare l’insufficiente legame tra questa auspicata «“lettura riparatrice”» e la realtà della lotta politica (passata e odierna), che purtroppo ha dinamiche ben più complesse e neutralizza o sottomette ad altri scopi «il potenziale liberatorio» legato all’eros.
E perciò quando, alla fine, lei eleva a «zio nobile del posizionamento queer, che appunto intende smarcarsi da ogni inquadramento identitario», la figura di don Abbondio, mi viene spontaneo farle notare che don Abbondio resta comunque – politicamente parlando – un personaggio da «zona grigia» che, come tanti (etero, omo o trans gender) sta con i dominanti. E questa rivalutazione proprio non mi garba.
Daniele Lo Vetere
14 aprile 2012 alle 00:51
Avevo adocchiato il saggio di Giartosio già all’uscita, ma, vista la sua lunghezza e densità, ho dovuto aspettare di avere tempo e concentrazione per leggerlo decentemente (è una semplice forma di rispetto per chi compie la fatica di scrivere). Premettendo che, per fare considerazioni fondate e operare riscontri su saggi documentati come questo bisognerebbe rileggere con eguale attenzione e con gli stessi “occhiali” i testi citati – ma significherebbe dover ogni volta rifare il percorso critico altrui: cosa impossibile –, durante la lettura alcune osservazioni, spero non inutili, mi sono venute in mente.
Prima osservazione. Direi che sono abbastanza d’accordo con Scaramouche. Il rischio di deriva dell’interpretazione mi pare ci sia. Per non addentrarsi in questioni a lungo dibattute (sinteticamente, après Eco: interpretazione e uso), mi limito a dire che non so quanto sia criticamente produttivo introdurre le categorie di omosessualità, omoerotismo, omosocialità, nella lettura di un testo che evidentemente è nato per tematizzare altro. Allora, si ribatterà, si può far critica solo delle intenzioni esplicite dell’autore e non si deve leggere ciò che nel testo è preterintenzionale, o è detto a dispetto della stessa volontà autoriale, o si annida nell’ombra delle parole? No, certo, per il semplice fatto che un artista non controlla fino in fondo tutte le rifrazioni e gli echi contenuti nella sua opera: l’arte non parla il linguaggio dei concetti, dove il recinto semantico è sempre chiuso e il suo terreno ben circoscritto – dove il significato è univoco e controllabile – e un critico intelligente può portare alla luce molto di giovevole (penso a una frase di Montale, in cui diceva di leggere i suoi critici per capire cosa aveva inteso dire nella sua poesia: frase significativa anche se fosse ironica, giacché riconosce alla critica una ufficio diverso da quello della lirica, quello di parlare una lingua più denotativa). Tuttavia ciò che Giartosio legge nei Promessi sposi è qualcosa che, se sta lì, dentro quel dispositivo narrativo, è per influenza di ciò che sta fuori di esso: dell’ideologia, dell’etica, del linguaggio, dei valori, del tempo di Manzoni. D’accordo, non c’è traccia di psicanalismi nel suo saggio: non l’autore interessa, ma il testo e ciò che in esso è ravvisabile. Eppure ho lo stesso l’impressione che egli finisca per dissertare non del testo in sé, ma del contesto, perché essi sono diventati poco distinguibili: infatti il primo non può che essere intessuto dei valori del tempo cui appartiene, che nel testo naturalmente si inscrivono. Ciò mi pare che abbia come conseguenza principale che il suo discorso sia pertinente soprattutto in ambito di storia della cultura, anche in senso sociologico, più che in ambito di critica letteraria.
Seconda osservazione. A dispetto del relativismo culturale dal quale nascono, mi pare che una caratteristica tipica dei gender studies (e il discorso sarebbe applicabile latamente a tutti i cultural studies) sia che in essi si nasconde, paradossalmente, una impercepita e strana metafisica, per la quale maschio e femmina, omo e etero, diventano categorie eterne, ipostatizzate.
Ma vorrei dire che Giartosio va oltre quella “metafisica”. Ho trovato infatti, nascosta in una nota, un’osservazione assai interessante: “ancora oggi molti non cattolici, e tra loro molti psicoanalisti, pensano l’omosessualità (ma non, per esempio, la relazione eterosessuale con connazionali o correligionari) come rifiuto della differenza”. Qual è il peccato degli psicanalisti? Non vedere altre forme di rifiuto della differenza oltre a quella latente nell’omosessualità. Forse che allora la categoria di differenza (e il necessario correlato dell’identità), sono categorie più radicali, originarie, di quelle di omo ed eterosessuale? Forse che, infatti, le categorie di identità e alterità non soggiacciono a buona parte del nostro sapere (e possono essere, e lo sono state, riformulate in mille modi diversi: io e non-io, soggetto e oggetto, hic et ibi, nunc et tunc, …)? Mi pare che sarebbe più interessante e produttivo che la critica si occupasse di questo, che è un problema ontologico e linguistico, piuttosto che non applicare categorie evidentemente politiche come quelle di genere, di etnia, … alla letteratura.
Credo infatti che la patente di nobiltà di quest’ultima e della critica consista soprattutto nel loro essere trascrizione di un’esperienza esistenziale e speculativa radicale (e tentativo di interpretazione di quella trascrizione), che fa perennemente i conti con tutto l’universo e la vita nella sua integralità: credo insomma che esse debbano continuare a ricercare, per quanto ci è dato, un po’ di natura, sottraendosi all’infinito alle gabbie sempre risorgenti della cultura e del linguaggio, piuttosto che analizzare come queste gabbie operino nelle pieghe dei prodotti testuali, inscrivendo in essi il discorso di potere di un genere o della biopolitica (anche ante litteram): «La naturalezza io la devo riconquistare continuamente, perché tutto va contro di essa: la convenzione, l’artificio, il patteggiamento conscio, inconscio, l’istituzione; tutto va contro, l’innaturale si ricostruisce di continuo e io devo continuamente demolirlo, di libro in libro. Devo riconquistare la naturalezza. Se no va all’aria tutto» (Mario Luzi).
Mi rendo conto, però, di partire da un retroterra estetico e critico assai lontano da quello di Giartosio, e in queste faccende contano anche il gusto personale e le predilezioni, indiscutibili, e i progetti culturali. Però non può bastare dire: ognuno resti dov’è, allora. Per questo ho fatto queste mie osservazioni, sperando sempre che non si parlino lingue del tutto diverse.
Tommaso Giartosio
16 aprile 2012 alle 15:56
Ringrazio molto Ennio Abate e Daniele Lo Vetere e provo a rispondere sui vari punti sollevati fin qui.
1. In Italia gli studi gay e lesbici e la teoria queer hanno incontrato resistenze fortissime e si fanno strada con grande fatica. Credo che in parte questo derivi da un problema di linguaggio critico troppo specialistico, che nel mio saggio ho cercato di aggirare. Ma mi sembra difficile fare maggiori concessioni a quello che Abate chiama il buon senso comune              culturale “non universitario”. Non si può continuare a annacquare una prospettiva critica; a un certo punto occorre mantenere le proprie posizioni intellettuali e difenderle, contando sul fatto che possano farsi spazio per il loro valore intrinseco.
2. Penso la lettura queer come un complemento importante di altre letture, che possono restare valide. (Su questo, e su tutta la questione della critica gay-lesbica e queer, mi permetto di rimandare al mio Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli 2004, in particolare i capp. 6-7.) Però sappiamo che le letture adiacenti non si ignorano mai, anzi interagiscono, si influenzano a vicenda, per competere con altre letture forti cercano appoggio in letture che parevano ormai obsolete, ecc. Chi può prevedere cosa accadrà quando si modifica l’ecosistema delle interpretazioni attive di un dato testo? Ed è un processo che si rinnova costantemente.
3. Certo, “l’omosessualità dei tempi del Manzoni non era in evidenza nel dibattito culturale d’allora com’è oggi”. Ma tutta la storia della ricerca sull’omosessualità è segnata dalla scoperta che gli archivi nascondono molto più di quanto si creda, dalla scuola perugina di poesia stilnovista omosessuale ai matrimoni gay nella roma del Seicento. E soprattutto, i              segmenti in ombra di una cultura possono essere profondamente significativi, perché la loro oscurità non nasce dall’irrilevanza ma dalla censura. Per lo stesso motivo si studiano in modo approfondito certe forme di rappresentazione e autorappresentazione femminile in epoche ben precedenti a una reale problematizzazione della condizione della donna.
4. Alle due domande che Abate mi pone in modo esplicito è difficile per ora rispondere: mi chiede dove va un work in progress, ed è presto per dirlo. Ma per esempio, sul piano politico mi sembra che Manzoni (faccio riferimento al mio capoverso sui “capponi”) voglia liquidare come “braveria” delle pose eroiche gotico-romantiche che lui trova inquietanti su un piano inscindibilmente erotico e politico. Ecco, questa fusione dei due piani è oggi al centro dell’interesse critico (se ne è occupato ad esempio Belpoliti in relazione a Pasolini) e me ne aspetto grandi cose. Per esempio, non mi stupirei se saltasse fuori che la lotta politica non ha dinamiche “ben più complesse” dell’eros, ma procede in tandem con esso.
5. Don Abbondio. Non ho detto che sia un esempio valido per l’oggi, ma che incarna un’esperienza importante nella lunga storia dell’omosessualità italiana: quello di chi non ha una posizione dignitosa da occupare (perché il suo tempo gliela nega completamente) e dunque cerca di occupare come può uno spazio necessariamente equivoco. La storia della (r)esistenza gay e queer – su questa distinzione il discorso sarebbe lungo – è spesso fatta di questi “silenzi” e “tradimenti”, generati da una Norma sessuale molto più paralizzante di qualsiasi processo repressivo politico o religioso. Recuperarli, valorizzarli senza eroicizzarli, è un compito delicato e cruciale.
6. Del Vetere scrive che finisco per parlare non del testo in sé, ma del contesto, e dunque non di critica letteraria ma di storia della cultura. Capisco la sua impressione: credo che nasca dal fatto che non disponiamo (che io sappia) di analoghe letture per altri testi italiani coevi: perciò può sembrare che, poniamo, la visione dell’omosocialità come una minaccia anticristiana non sia un carattere degli Sposi ma di tutta la cultura del tempo. Questo però andrebbe verificato su altre opere. E sappiamo che almeno alcune di esse non si pongono affatto in questa prospettiva. E’ ancora il discorso dei “capponi”: nell’Ortis, per esempio, l’omosocialità eroica che lega Jacopo, Lorenzo, Parini, Alfieri è un’opzione ben più elevata dell’eterosocialità borghese; un discorso simile vale per Nievo; in Belli invece l’omosocialità è corrotta, ma caratterizza proprio la Chiesa; ecc.
7. L’essenzializzazione della differenza di genere può ben essere presente nei gender studies, non certo nei queer studies che sotto questo punto di vista stanno agli antipodi, e forse essenzializzano anche troppo poco.
8. Alla nota che cita Del Vetere io davo un significato diametralmente opposto: ritengo che l’omosessualità non sia una forma di rifiuto della differenza, come non lo sono le altre forme di relazione che ipotizzavo (tra correligionari, tra connazionali, ma anche, poniamo, tra persone che hanno lo stesso orientamento sessuale!). In realtà penso che l’unica eventuale forma di rifiuto della differenza sia la non-relazione, e che vedere la relazione omosessuale come “tra uguali” (o addirittura narcisistica) sia un riflesso omofobico non dissimile dal riflesso razzista di chi dice che i cinesi sono un po’ tutti uguali. Dunque ben venga riflettere in generale sulla natura dei rapporti tra io e non-io. Che questa riflessione, però, debba sostituirsi a un’indagine (meno grossolana di quella degli psicoanalisti a cui mi riferivo nella nota) sulle identità e identificazioni “storiche”, mi sembrerebbe una forma di benaltrismo. Ma Del Vetere ha ben capito che la categoria stessa di “natura” non mi sembra molto produttiva e che temo venga spesso invocata quando si ha a che fare con pezzi di “cultura” sgraditi. La letteratura fa i conti con la vita nella sua integralità, ma lo fa proprio perché passa attraverso specifiche circostanze: per questo è bello che per capire Dante noi dobbiamo conoscere la politica dei comuni toscani del Trecento. Ma nessuno rimprovera il critico che percorre questa strada, mentre guai allo studioso che avvicina Dante attraverso una riflessione sull’omosessualità nel Trecento.

da Ennio Abate: interpretazione queer dei Promessi sposi di Giartosioultima modifica: 2012-04-17T12:14:27+02:00da mangano1
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