Ennio Abate,La poesia passata a contrappelo

commento nel postPER UNA POESIA ESODANTE,Ennio Abate,La poesia passata a contrappelo.,Un nodo: Montale-Fortini-Mengaldo
cANE GRANDE CON PICCOLINO9.jpg
immigratorio05 luglio 2012
Ennio Abate:

Cerco di spiegare come io vedo la dialettica io/noi.
Innanzitutto un po’ diversamente da Gianmario. Sì c’è il piano esistenziale e anche quello pratico (e poi storico, filosofico, sociale, politico, giuridico, affettivo-amoroso, etc.). Ma io mi vorrei muovere su quello poetico. Come si pone qua questa dialettica? E magari nello stesso rapporto che ho proposto in questo post, quello Fortini-Montale.
Se rileggete con attenzione la sintesi che ho fatto di questo rapporto dal punto di vista di Fortini (non ho idea sufficiente di giudizi di Montale su Fortini, se non da accenni indiretti trovati negli scritti di Fortini…), mi pare chiaro che l’’io’ di Fortini si rapportasse a un ‘noi’ storicamente preciso e rimasto sempre lo stesso nel periodo storico che gli toccò di vivere (1917-1994).
Posso dire che nella vita di Fortini il ‘noi’ (un ‘noi’ con cui si è identificato o che ha scelto come riferimento pratico e ideale al tempo stesso importante, anche quando l’identificazione piena era problematica come nel caso del comunismo, che ai suoi tempi era dominato dallo stalinismo) può essere indicato con nomi abbastanza precisi: la sua famiglia (padre ebreo, madre cattolica), i valdesi, la resistenza antifascista, il partito socialista, la “sinistra” (e poi già dai primi anni Sessanta i gruppi intellettuali che animeranno la “nuova sinistra”), la cultura marxista critica europea che si batteva per il comunismo (da Marx, a Lukács, ad Adorno, a Mao, ecc.).
Ed in poesia questo ‘noi’ Fortini l’ha fatto entrare in modi riconoscibili sin nelle scelte lessicali e metriche, senza timore di passare per ideologico o moralista. (Sulla presenza dell’ideologia anche in poesia forse non la penso come Gianmario. Mi pare che egli creda che la poesia ne prescinda o debba prescinderne al massimo. E possa riuscirci. Più sarebbe poesia e più non avrebbe dentro di sé ideologia. Io credo, invece, che l’indeologia vi si insinui sempre, in modi anche surrettizi; e che la forza del poeta non sta nel mascherarla o spiattellarla in faccia alla gente che legge le sue poesie, ma nell’essere abbastanza consapevole di quella che “ci mette” dentro consapevolmente… poi ce n’è sempre una parte inconscia che gli sfugge; e magari la troveranno gli altri e a distanza di decenni o di secoli…).

[Continua 1]

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immigratorio05 luglio 2012 23:35
Un ‘noi’ diverso è quello che potremo rintracciare nella biografia di Montale: un antifascismo liberale e un’adesione ad una “aristocrazia dello spirito” (quel «ciascuno riconosce i suoi»…). E che entra anch’esso, in poesia, ma in modi che egli crede non di parte («non è lume di chiesa o d’officina/ che alimenti/ chierico rosso, o nero»), non storici (il riferimento svalutativo alla storia che è al massimo «sterminio di oche» da guardare con pietà mista a disprezzo), genericamente universalistici (la condizione umana, per cui “umano” sarebbe solo amare, morire, essere uomini o donne o omosessuali o giovani o vecchi, credere in Dio e non anche produrre, pensare, distruggere, costruire, etc. ).
Sarebbe interessante approfondire la dialettica di questi due ‘io’ nei confronti dei rispettivi ‘noi’ di riferimento ( e nei confronti del ‘loro’- nemici, estranei, lontani; ma anche nei confronti dell’«Altro», verso il quale l’ ’io’ fortiniano si dispone, ancora una volta, in modo diverso da quello di Montale, come mostra l’accusa di pseudo religiosità che egli muove a Montale).
Non posso farlo io qui. Ma potremmo pensarci in prossimi post.

Cerco di spiegare anche come io veda la faccenda della piccola borghesia, su cui insiste Giorgio.
Direi, innanzitutto, che c’è piccola borghesia e piccola borghesia. Sono contro ul’assolutizzazione della categoria ‘piccola borghesia’.
Montale e Fortini sono sicuramente dei piccoli borghesi per nascita, per estrazione sociale. Ma a me pare evidente che la consapevolezza di questa loro collocazione ( oggettiva e soggettiva) nella società (capitalistica) da parte di Fortini e da parte di Montale era guidata da scelte e riferimenti (torna ancora il ‘noi’ a cui ho accennato sopra) diversi e contrapposti.
Semplificando, da «Satura» in poi è evidente in Montale non più soltanto il suo penoso e sofferto “neutralismo” liberaleggiante, che lo portava a guardare con sospetto (e a disprezzare) «chierici» rossi e neri, ma il desiderio di piacere e integrarsi con la cultura alto borghese o radical-aristocratica. (O, come dice Giorgio, « si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da “Satura” (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese»). Mentre è evidente in Fortini (e documentata in moltissimi scritti e prese di posizione) la scelta di un ‘noi’ da parte di un ‘io’, che si riconosce come piccolo borghese (per condizione sociale e anche come “dimensione culturale di partenza”) e si allea con quelli che “stanno in basso” piuttosto con quelli che ‘stanno in alto”: operai, poveri, oppressi dai colonizzatori europei e statunitensi poi; con quelli che lottano contro altri che li dominano e vogliono tenerli sottomessi; e che contestano per questo lo Stato o gli Stati; e non credono di appartenere alla «condizione umana» per il fatto di vivere in condizioni che umane non sono.
Persino nella polemica contro la massificazione o i mass media o l’industria culturale di massa
la posizione del piccolo borghese (ma marxista) Fortini è ben diversa da quella del piccolo borghese (ma liberale) Montale. Le parole che usano per dire la loro ostilità e il loro rifiuto verso la massificazione o il linguaggio dei mass media sono diverse, perché diverse sono le ragioni dell’ostilità e del rifiuto. (Non posso qui esemplifificare, lo farò in altre occasioni).

Giorgio [Linguaglossa] sbaglia, secondo me, nel parlare in maniera generica di un emergere della piccola borghesia in Italia.

[Continua 2]

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immigratorio05 luglio 2012 23:37
Ennio Abate (continua):

Innanzitutto perché – come ho detto – non distingue chiarezza i comportamenti diversificati e persino contrapposti dei piccolo borghesi alla Montale dei piccolo borghesi alla Fortini.
Allora la categoria ‘piccola borghesia’, che ha un preciso significato, se usiamo un’analisi marxista ( è la classe che sta in mezzo alle due, che Marx riteneva fondamentali – la borghesia e il proletariato – e che sarebbero andate allo scontro fondamentale, disgregando la piccola borghesia che passava o con l’uno o con l’altro dei contendenti fondamentali e producendo il passaggio dal capitalismo al comunismo); che ne ha un altro se usiamo l’analisi sociologica ( è il “ceto medio”), rischia di diventare una categoria moralistica con una connotazione negativa, come accadde ad es. in Berardinelli. (O com’ è accaduto – in questo caso con una connotazione positiva – anche per gli operai o la “classe operaia”, ritenuta in blocco “rivoluzionaria”, mentre gli operai sono stati sia con i comunisti sia con i fascisti o i nazisti.
Né si può identificare la piccola borghesia esclusivamente con alcuni partiti. Non si può dire che la piccola borghesia dal dopoguerra in poi abbia avuto dei suoi partiti ( manco l’”Uomo qualunque” la raccolse per intero). O che i suoi partiti per eccellenza fossero il PCI e la DC, che erano partiti di massa ed ebbero, sì, al loro interno e magari in posizione di comando moltissimi piccolo borghesi, ma erano partiti con una dimensione “popolare” e “operaia”, da cui le scelte dei gruppi dirigenti non potevano prescindere. Almeno fino agli anni Settanta del Novecento.

È vero, invece, che i problemi di stile (come quelli di lingua) sono il sintomo o l’indice di problemi politici.
Ma cos’è e da dove nasce questa « corsa sfrenata verso la piccola borghesia»? E chi corre verso la piccola borghesia o i modelli di vita “piccolo borghesi”?
Non certo i borghesi, ma i figli dei contadini e degli operai (di solito tra più benestanti o qualificati o specializzati, meno tra i più poveri o proletarizzati o al rischio di sottoproletarizzarsi) che, tramite la scuola di massa, trovano il modo d’infilarsi nella piccola borghesia delle professioni, dell’insegnamenti, degli impieghi statali.
E perché rincorrono il diploma, la laurea, l’ingresso a un qualche livello nei mass media (radio, cinema, TV, ecc.)?
Perché in Italia si ha tra anni ’50-’60 un passaggio del Paese da agricolo a industriale e c’è domanda crescente anche di forza lavoro qualificata e intellettualizzata o, come si dice oggi, di “lavoratori della conoscenza”.
E quando questa rincorsa diventa “di massa”?
Quando l’agricoltura s’industrializza e i contadini diminuiscono di numero e i più poveri di loro (braccianti, etc) devono emigrare al Nord e trasformarsi in operai o andare all’esterno. E si ha “la morte del mondo contadino “ e la sua “apocalisse”, studiata da Ernesto De Martino.
O quando la “classe operaia” che pareva in crescita e vincente e potesse portare al governo i “suoi” partiti, finì sonoramente sconfitta alla Fiat nel 1980 dalla piccola borghesia (dei capetti, dei dirigenti, etc.) e poi perse i “paesi allegorici” o “comunisti” (Vietnam, Cina, Urss) a cui aveva guardato con speranza.

[continua 3]

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immigratorio05 luglio 2012 23:37
Ennio Abate (continua):

Da qui in poi avanza quella crisi che Giorgio definisce « di STAGNAZIONE e RECESSIONE» e che, sul piano poetico-stilistico avrebbe imposto il « paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico».
A me pare che questo paradigma non ci sia. Ci sia invece un pluralismo confuso, un caos stilistico, un epigonismo delle posizioni del passato, che certamente si sono imposte in ambito letterario in seguito alle lotte tra tradizionalisti e modernizzatori o neoavangurdie; e hanno poi avuto un’amplificazione tramite i mass media o hanno informato anche la produzione e gli stili dei linguaggi massmediali.
Ma non credo che il piccolo borghese Fortini, che criticava «Satura» e il messaggio poetico- stilistico e politico del piccolo borghese, camuffato da alto-borghese, Montale, potesse far di più. Potesse, cioè, fare quella «riforma del linguaggio poetico» auspicata da Giorgio; ed evitare così la valanga dei “quotidianisti”montaliani in proprio o quello che a lui appare oggi come un «stato di sopore».
Perché Fortini, secondo me, aveva ragione: una riforma del linguaggio poetico avviene solo in sintonia con profondi sommovimenti economici e sociali.
Come accadde con le avanguardie d’inizio Novecento. L’altra “riforma” – quella possibile, quella che è stata fatta approfittando della rivolta del ‘68’69 – camiffata da “rivoluzione” del linguaggio ( non solo poetico) fu quella della neoavanguardia. Quella, sì, ha cercato di essere o ha finito per essere il « paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico». (E manco di tutta… i piccoli borghesi Fortini, Zanzotto, Giudici ecc e le loro aree di riferimento hanno seguito altre vie e sono stati ostili alla neoavanguardia).
Mi fermo qui, anche se vorrei affrontare molti altri spunti ( positivi e negativi) presenti negli interventi di questo post.
[Fine]

Ennio Abate,La poesia passata a contrappeloultima modifica: 2012-07-06T18:04:48+02:00da mangano1
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