fed la sala,CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL “DIRE DIO” OGGI.

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EVANGELO ED EVANGELIZZAZIONE. Perché Gesù parlava in parabole? Dietro la domanda, una questione attualissima e gravissima …
CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL “DIRE DIO” OGGI. Una sua lezione sulle “sorprese del linguaggio di Gesù” – a c. di Federico La Sala
“La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l’uomo (…)
sabato 1 settembre 2012.

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Federico La Sala

[…] quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta. Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi. Il mondo occidentale sente fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti e orizzontalisti, tradizionalisti e progressisti, si formulano giudizi che, alla luce del Vangelo, risultano perlomeno inadeguati.

Da qui il bisogno di approfondire, di mettersi alla scuola di Gesù, di lasciarsi guidare da lui alla ricerca di un linguaggio capace di «dire Dio» […]

Parabole. Le sorprese del linguaggio di Gesù

di Carlo Maria Martini (Avvenire, 27 febbraio 2011)

Gesù parlava in parabole. Basta scorrere le pagine dei Vangeli per averne la prova. E dobbiamo presumere che non lo facesse raramente, a giudicare dal numero di parabole che gli evangelisti ci hanno trasmesso. Alcuni passi inducono addirittura a pensare che Gesù non parlasse alla gente in altro modo che in parabole. Si ha l’impressione che Gesù considerasse questo modo di esprimersi come il più adeguato alla capacità di comprensione degli ascoltatori e quindi il più adatto a trasmettere efficacemente il suo messaggio.

Ma perché privilegiare questo tipo di linguaggio? Per quale ragione preferirlo al linguaggio diretto e esplicito? E quali sono le sue caratteristiche specifiche? Quali gli obiettivi che consente di raggiungere? Chi sono, infine, i destinatari di questo parlare in similitudini? Interrogativi come questi aprono la strada a una riflessione di ampio respiro. Noi ci limiteremo a suggerire qualche considerazione di carattere generale, alla luce dei testi evangelici.

Una cosa, in ogni caso, è opportuno precisare sin d’ora: quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta.

Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi. Il mondo occidentale sente fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti e orizzontalisti, tradizionalisti e progressisti, si formulano giudizi che, alla luce del Vangelo, risultano perlomeno inadeguati.

Da qui il bisogno di approfondire, di mettersi alla scuola di Gesù, di lasciarsi guidare da lui alla ricerca di un linguaggio capace di «dire Dio».

Come, dunque, Gesù parlava di Dio? E perché di solito ne parlava in parabole? Il fine ultimo del ministero di Gesù fu l’annuncio dell’evangelo del Regno, la manifestazione efficace della benefica sovranità di Dio, annunciata dalle Scritture, preparata dalla storia di elezione di Israele e destinata a tutte le genti.

«Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete all’evangelo» (Mc 1,15): con queste parole il Messia di Dio si presenta pubblicamente a Israele e al mondo.

Ci attenderemmo a questo punto una descrizione chiara, accurata, aperta, luminosa del regno di Dio e di Dio stesso. Come non ipotizzare una predicazione di Gesù esplicita, ordinata, strutturata e proprio per questo convincente?

La lettura dei testi evangelici non smentisce queste attese, ma neppure le soddisfa pienamente. Il modo con cui Gesù proclama l’evangelo agli uomini ci riserva qualche sorpresa. Anzitutto, la figura di Gesù appare caratterizzata principalmente dall’agire.

In primo piano stanno le azioni di Gesù, il suo operare efficace, potente, carismatico: pensiamo soprattutto alle guarigioni, agli esorcismi, agli interventi straordinari in favore di persone in difficoltà.

Il parlare di Gesù accompagna il suo agire e lo interpreta: la signoria di Dio è dimostrata attraverso le opere e illustrata attraverso le parole.

Quanto alla predicazione vera e propria, essa non è sempre diretta e chiara; al contrario, non di rado appare come velata. Il passo più sconcertante al riguardo è certo quello di Mc 4,11-12, in cui Gesù giustifica il suo parlare in parabole proprio con la necessità di nascondere la rivelazione del Regno, di impedire un accostamento immediato e diretto.

Più volte Gesù parlò in modo allusivo ed enigmatico, «non apertamente», attraverso il velo delle similitudini: egli diceva e non diceva, svelava e nascondeva, manifestava e occultava.

Questo è precisamente il punto che ci interessa: perché Gesù usava un simile linguaggio? Perché non era più esplicito, non diceva apertamente e accuratamente tutto quello che sapeva?

Potrà sembrare strano, ma per annunciare autenticamente il Vangelo è necessario in qualche misura velarlo. La constatazione che Gesù non facesse seguire alle parabole la spiegazione (solo i discepoli ne erano in alcuni casi beneficiati, ma sempre in privato) ci impedisce di considerare le parabole strumenti didattici, esempi che conducono l’ascoltatore a un insegnamento espresso poi in termini più concettuali.

La parabola di Gesù non sfocia in una spiegazione piana ed esplicita, magari introdotta dalla formula: «Questo racconto ci insegna che…». La parabola di Gesù mantiene tutta la sua carica di enigmaticità, lascia all’ascoltatore il compito di comprenderla, lo interpella e lo costringe a interrogarsi, lo coinvolge in prima persona e lo impegna alla ricerca del senso.

L’esortazione che spesso risuona infatti è la seguente: «Chi ha orecchie per intendere, intenda», cioè «chi è in grado di capire, cerchi di capire».

Gesù racconta parabole non certo obbedendo a schemi prefissati ma, al contrario, sull’onda della sua emozione interiore, sospinto dal bisogno di comunicare il mistero di Dio a coloro che gli stanno davanti.

Le parabole sorgono dal cuore di Cristo, dalla sua passione per Dio e dal suo amore per l’uomo, dal bisogno impellente di svelare adeguatamente il volto del Padre, il segreto della sua opera di salvezza, la potenza del suo Regno e le conseguenze per la vita degli uomini. Abbiamo così toccato il punto essenziale.

La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l’uomo. Nessuno più di lui è abilitato a rivelare il volto di Dio, la sua potenza, la sua volontà; ma come non tenere conto delle disposizioni d’animo di chi ascolta, della situazione personale degli uditori, della loro fatica a capire, della loro tendenza a fraintendere?

Quando consideriamo le circostanze in cui Gesù racconta le parabole, ci accorgiamo di quanto egli sia attento ai suoi uditori. Da un lato, dunque, le parabole sono un vero insegnamento; esse parlano di Dio, della sua opera, delle conseguenze per la vita degli uomini, della risposta che Dio si attende; dall’altro, le parabole sono un atto di cortesia, di rispetto della libertà degli uomini, di condiscendenza, quasi di tenerezza.

Gesù è un vero maestro anche per questo. Egli conosce il cuore degli uomini e perciò non ha fretta, sa adeguarsi al passo dell’ascoltatore, accetta anche che questi faccia fatica a capire, attende che si ricreda e che riveda alcune posizioni. Intanto si ingegna di offrire un insegnamento che per lo meno susciti degli interrogativi, che faccia breccia in cuori induriti e che dia un orientamento sicuro ai cuori incerti e smarriti; un insegnamento, insomma, che permetta di compiere un primo passo e disponga a un cammino successivo.

I ritmi della conoscenza che proviene dalla fede sono lenti. Per questo la rivelazione va anche nascosta, velata. La libertà dell’uomo non è in grado di reggere tutto il peso della rivelazione di Dio.

Così le parabole sgorgano dal cuore di Gesù sotto la spinta incalzante dell’urgenza dell’evangelo; esse sono spontanee, non artificiali, nascono dalla vita stessa.

Le parabole sono, in questa prospettiva, uno dei frutti più belli del mistero dell’incarnazione, la frontiera cui il linguaggio viene spinto dal Figlio di Dio, affinché risulti adatto a comunicare il mistero del Regno nel rispetto della concreta situazione dell’uomo.

MILANO, 2000: LAGER DI WIETZENDORF, 1944. Basilica di S. Ambrogio, Natale 2000: il Presepio degli Internati Militari Italiani. In memoria di Enzo Paci e a onore del Cardinale Martini.

“Potrei, per me, pensare un altro Abramo” (F. Kafka – da una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock, l’amico medico, che lo seguì sino alla morte).

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> CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL “DIRE DIO” OGGI. — E’ morto il cardinale Carlo Maria Martini. Nel 2002 si ritirò a Gerusalemme, tornò nel 2008.
1 settembre 2012, di Federico La Sala

  Morto cardinal Martini

  Nel 2002 si ritirò a Gerusalemme, tornò nel 2008 *
E’ morto il cardinale Carlo Maria Martini. Lo comunica l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola. Pochi istanti fa, dal cancello del collegio Aloisianum è uscito un anziano sacerdote, che non ha voluto rendere noto il proprio nome, e che però ha detto ai giornalisti che lo hanno avvicinato per chiedergli se sapesse qualcosa del Cardinale, “Martini è morto”. “Era un grande uomo – ha aggiunto l’anziano sacerdote – un grande studioso, ci ha lasciato tanti insegnamenti, era un uomo di Dio”. Poi si è allontanato in auto.
La camera ardente per Carlo Maria Martini, l’ex arcivescovo di Milano morto oggi a Gallarate, sarà allestita in Duomo dalle 12 di domani. I funerali saranno celebrati sempre in cattedrale lunedì alle 16. Lunedì a Milano sarà lutto cittadino.
Con il cardinale Carlo Maria Martiniscompare un protagonista degli ultimi decenni nella vita della Chiesa cattolica, che ha interpretato spesso posizioni ’avanzate’, non solo sui temi etici, e non di rado in contrasto con le linee ufficiali della gerarchia vaticana. Di lui si può parlare anche come di un “mancato Papa”, essendo arrivato al Conclave del 2005, quello che elesse Benedetto XVI, come uno dei “papabili”, sostenuto – si disse allora – dall’ala più progressista del Collegio cardinalizio. Già dal 2002 arcivescovo emerito di Milano, trasferitosi a Gerusalemme per riprendere i suoi prediletti studi biblici, in realtà – secondo le successive ricostruzioni – in quel Conclave Martini ottenne meno consensi del previsto e il duello nelle quattro votazioni si restrinse ai soli Ratzinger e Bergoglio.
Eccelso biblista, grande propulsore dell’ecumenismo tra le varie Chiese e confessioni cristiane, promotore del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, il gesuita Martini ha avuto più volte anche posizioni critiche su decisioni dell’attuale Papa, spesso ’scomode’, o comunque non in linea con l’ufficialità. Ad esempio, nel luglio 2007, con un’intervista al Sole 24 Ore, Martini criticò il ’motu proprio’ “Summorum Pontificum” con cui Benedetto XVI aveva liberalizzato la messa in latino col rito tridentino.
“Amo la messa preconciliare e il latino ma non celebrerò la messa con l’antico rito”, disse in sostanza il porporato, apprezzando comunque “la volontà ecumenica a venire incontro a tutti” mostrata dal Pontefice tedesco. Nel marzo 2010, poi, nel pieno dello scandalo pedofilia nella Chiesa cattolica, venne riportato un suo pronunciamento favorevole al ripensamento dell’obbligo di celibato dei preti. In un comunicato diffuso però dall’arcidiocesi di Milano, Martini smentì tali dichiarazioni, sostenendo anzi di ritenere “una forzatura coniugare l’obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi a sfondo sessuale”.
Ma è in particolare sui temi etici che le sue prese di posizione ha fatto più volte scalpore. Nell’aprile del 2006 avevano fatto molto discutere le aperture di Martini sull’uso del profilattico, indicato come “male minore” nel caso di prevenzione dal contagio Hiv. “Lo sposo affetto dall’Aids – spiegava in un dialogo per L’Espresso con il chirurgo Ignazio Marino, poi diventato parlamentare Pd – è obbligato a proteggere l’altro partner e questi pure deve potersi proteggere”. In quel dialogo, Martini manifestava anche prudenza nell’esprimere giudizi sulla fecondazione eterologa ed invitava ad approfondire la strada per l’adozione di embrioni, anche da parte delle donne single, pur di impedirne la distruzione. Disco verde veniva dato anche all’adozione per i single: in mancanza di una famiglia “composta da uomo e donna che abbiano saggezza e maturità”, anche “altre persone, al limite anche i single, potrebbero dar di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità”.
E sull’eutanasia: “neppure io vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo”. Tuttavia “é importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. E questi ultimi non possono mai essere approvati”. Tutti temi finiti anche nel recente libro “Credere e conoscere”, di Martini e Marino (Einaudi), in cui non mancano ’aperture’ esplicite su questioni come, oltre che il profilattico, le coppie di fatto, sia etero che omosessuali. A proposito di chi ha partner dello stesso sesso, ad esempio, Martini diceva che “tale comportamento non può venire né demonizzato né ostracizzato”.
Mentre, anche se la famiglia va difesa, “non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido – affermava l’arcivescovo emerito – le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili”. Anche se in contrasto con alcune delle posizioni di Benedetto XVI, comunque, Martini non ha mai fatto mancare il rapporto di vicinanza e fedeltà con l’attuale Papa, suo coetaneo, al quale, nell’ultimo incontro avuto a Milano il 3 giugno scorso, in occasione del Meeting mondiale delle Famiglie, ha espresso anche solidarietà per la vicenda dei documenti trafugati. “Ho voluto dire al Papa che accettare queste cose dolorose come dono è purificatorio. Lui soffre e noi soffriamo con lui. Ma la verità si compirà”, aveva commentato Martini all’indomani dell’incontro in Curia.
* ANSA, 31 agosto 2012
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> CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL “DIRE DIO” OGGI. — L’ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?» (di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri)
1 settembre 2012, di Federico La Sala
L’ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»
intervista a Carlo Maria Martini
a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri (Corriere della Sera, 1 settembre 2012)
Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l’8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».
Come vede lei la situazione della Chiesa?
«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (…) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».
Chi può aiutare la Chiesa oggi?
«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?
Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (…) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (…). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.
Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (…).
L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: “Signore non sono degno…” Noi sappiamo di non essere degni (…). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
Lei cosa fa personalmente?
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».
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> CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL “DIRE DIO” OGGI. — Chi è stato Carlo Maria Martini? (di Vito Mancuso – Un uomo di Dio)
1 settembre 2012, di Federico La Sala
Un uomo di Dio
di Vito Mancuso (la Repubblica, 01.09.2012)
Chi è stato Carlo Maria Martini? Si può rispondere dicendo un cardinale per lungo tempo papabile, l’arcivescovo per oltre vent’anni di una delle più grandi diocesi del mondo, il presidente per un decennio del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee. Un biblista all’origine dell’edizione critica più accreditata a livello internazionale del Nuovo Testamento (The Greek New Testament), il rettore di due tra le più prestigiose istituzioni accademiche del mondo cattolico (Università Gregoriana e Istituto Biblico), un esperto predicatore di esercizi spirituali a ogni categoria di persone, un gesuita di quella gloriosa e discussa Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, un autore con una bibliografia sterminata in diverse lingue, e altre cose ancora.
Ma la risposta che coglie la peculiarità della sua persona si ottiene dicendo che fu un uomo di Dio. Il tratto essenziale della sua persona e del suo messaggio è tutto contenuto nel titolo del primo documento programmatico che egli indirizzò alla diocesi di Milano all’inizio del suo episcopato nel 1980: La dimensione contemplativa della vita.
A questo obiettivo egli ha educato con i suoi insegnamenti, e ancor più con tutta la sua persona, con la voce, lo sguardo, il portamento. Accostare Martini significava infatti intravedere quanto di più alto può dimorare nel petto di un uomo, ovvero l’intelligenza che serve incondizionatamente il bene e la giustizia e che non cessa mai, neppure di fronte alle assurdità e alle tragedie del vivere, di nutrire una singolare speranza nel senso e nella direzione della vita. Se l’espressione “nobiltà dello spirito”, tanto cara a Meister Eckhart e a Thomas Mann, significa qualcosa, questo è il tentativo di descrivere l’esperienza suscitata dall’incontro con persone come Martini, profondamente uomini ma anche così diversi da ciò che è semplicemente umano, del tutto trasparenti ma non privi di silente mistero.
Martini è stato tra gli esponenti più significativi di ciò che viene solitamente definito cattolicesimo progressista, quell’ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo. In questo egli ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere.
Ora che egli è morto, quella stagione si allontana sempre di più e si fanno sempre più rare, nel mondo cattolico italiano, le voci profetiche. Ma proprio a proposito di profezia, è necessario sottolineare la sua libera autodeterminazione di affrontate la morte in modo del tutto naturale, senza sondini nasogastrici o altri apparecchi del genere messi a disposizione dalla tecnica, nella piena fiducia di chi sa che sta per entrare in quella dimensione eterna che la fede chiama “casa del Padre”.
Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva risplendere nella mia giovane mente di liceale l’ideale cristiano. Ciò che mi conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio. Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che sapeva far percepire un altro mondo senza essere “dell’altro mondo”.
Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per se stesse, per far colpo sull’uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne percepivo dentro di me l’autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi sentire che c’era veramente qualcosa di sacro nell’esistenza concreta degli uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga vita.

fed la sala,CARLO M. MARTINI E IL PROBLEMA DEL “DIRE DIO” OGGI.ultima modifica: 2012-09-02T16:25:07+02:00da mangano1
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