Ennio Abate.Quattordici tesi per una poesia esodante

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CARENA Felice, 1879-1966, l’esodo

 

 

 

Ho tentato varie volte negli ultimi anni a lato dell’attività del Laboratorio Moltinpoesia di Milano di definire cosa intendere per poesia esodante. L’ho fatto partendo da alcune mie poesie, e in particolare da un testo, Ultimo dialogo tra il vecchio  scriba e il giovane giardiniere (2002-2009)[1], dove ho fissato il passaggio dal mio giovanile, fiducioso, accostamento alla cultura umanistica (unica stella osservabile e accostabile allora per me dal Sud d’Italia) a una fase successiva di contestazione delle idee ricevute e di ricerca poi di un tipo di poesia che tenesse in conto l’esperienza “demitizzante” fatta da immigrato in una città moderna e industriale come Milano (e la sua periferia). Potrei riassumere il percorso come un passaggio da una  (istintiva) poetica dell’io a una (meditata) poetica dell’io/noi.

Oggi chiamo questa ricerca con un nome  un po’ complicato: «esodante» (da ‘esodo’, che  fa riferimento sia al libro della Bibbia sia al dibattito sul concetto di esodo, sviluppatosi in Italia attorno agli anni ’80-’90 del Novecento, condotto con varie sfumature da autori che andavano da Walzer a Negri, a Virno a De Carolis e che ho seguito dalla mia collocazione di “intellettuale periferico”). Potrei  più semplicemente dire, per farmi intendere dai veri ingenui (non dai falsi ingenui): esodo come fuoruscita dai discorsi da cui si proviene; e, nel campo di cui ci stiamo occupando, poesia che non si ferma alla poesia.

In successive altre poesie e riflessioni ho tentato poi, dopo lo shock di quello che ho chiamato immigratorio,[2]di elaborare quello delle nuove guerre “umanitarie”, tenendomi a distanza sia dal dogma dell’autonomia della poesia sia da certa “poesia civile” o “avanguardista” a mio parere standardizzatesi. Ho ridotto il tasso di liricità (senza mai abolirlo, però) e assunto  i temi di un noi o, più precisamente, di un inquieto io/noi  permeabile all’orrore della storia e delle società e in distacco crescente dalle tradizioni culturali del periodo storico in cui mi sono formato (che possono indicare sempre coi nomi comuni e ideologici di destra/sinistra  e cattolicesimo/comunismo). Con l’occhio a questo mio percorso esistenziale, poetico e intellettuale,  propongo qui, schematicamente, queste definizioni-tesi  sulla poesia esodante:

1. La poesia esodante, essendo scritta in Italia, dunque in città occidentalizzate, si sofferma per forza di cose sull’ovattato orrore quotidiano (di “pace”, parcellizzato, quotidiano, normale), ma si sporge  sull’orrore storico del mondo, quello passato e  quello presente e si sofferma sulla politica dei potenti, su guerre,sofferenze, fatti di sangue.

2. La poesia esodante  si sforza di destarsi dal sogno della poesia. Almeno un po’. Ma questo po’ conta. (Perché una certa poesia ha messo radici nel sogno e là vuole unicamente o soprattutto  permanere).

3. La poesia esodante è tentativo di rompere gli steccati (tutti e non solo quelli che comodamente attribuiamo agli altri) in cui oggi sta una certa poesia (minimalista, orfica, formalistica, verginale, adamitica, fatua o agghindata di tecnicismi e manierismi). E rimettersi a contatto con la realtà  e i conflitti sociali, come fecero a suo tempo le avanguardie, i neorealisti e più di recente le neoavanguardie.

4. La poesia esodante rifiuta la netta distinzione tra poesia e politica (pur sapendo i pericoli di una cattiva mescolanza tra le due attività,  non evitati dai sunnominati movimenti: surrealisti, neorealisti, neoavanguardie). Non chiede ai poeti di tramutarsi in politici o di  mescolarsi con loro, ma di maneggiare la politicità del linguaggio (anche di quello poetico) e farla incontrare con quella di veri costruttori di polis.

5. La poesia esodante abbandona l’oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia. Che non esiste. Che è un’ideologia della poesia, non dissimile dal vischioso petrolio di brutti pensieri-teorie-ideologie –  prodotto a barili dagli specialisti dell’orrore del mondo e della storia.

6. La poesia esodante mira a ciò che la poesia migliore – che parta dall’io lirico  o da un noi epico – ha sempre fatto: pensare l’orrore del mondo e della storia. Non ha cambiato il mondo, ma la testimonianza dell’orrore l’ha sempre data e in modi spesso più penetranti di altri saperi. La poesia esodante non cambierà il mondo? E con questo? Può però pensarlo. Non ha armi per rivoltarsi assieme ad altri? Forse, ma  sa che nel passato ci sono stati poeti capaci di  pensare, poetare e anche agire con altri, molti altri e non con le solite élite dei potenti.

7. La poesia esodante è quella di poeti che sanno di non essere liberi. Che non cercano nella poesia compenso individuale alla illibertà crescente delle società. Che non coccolano una loro presunta libertà,  che consisterebbe (come fossimo ai tempi della Controriforma) nello scrivere al di fuori delle “precettistiche”. Visto che il vero, unico, Precetto, cui siamo tutti  sottomessi, anche quando scriviamo poesie, anche quando assaggiamo un pizzico di “felicità” in poesia, è quello del Capitale, un Padrone e Nemico che pochi tra noi oggi sanno nominare, riconoscere e contrastare.

8. La poesia esodante sa che la bellezza, quella che ancora può esserci anche in poesia, è segnata dall’orrore e vi convive. La bellezza non è tutto, non viene neppure «innanzitutto»; e, se la si indaga senza innamoramento estetico, non può che mostrare anch’essa l’orrore del mondo e della storia. È segnata da quello. Gronda, pur essa, di «lagrime e sangue», che non si vogliono vedere. Lo sapeva bene, perché l’orrore storico stava per ghermirlo e la bellezza non gli fu scudo sufficiente dai colpi mortali in arrivo, Walter Benjamin. Affermare, come alcuni insistono a ripetere, l’inscindibilità di  poesia e bellezza è  non tener conto che la poesia, se copre con la bellezza l’orrore, di esso si nutre e si fa complice. Meglio che la poesia esodante sappia mostrare la fragilità e la forza dei desideri umani senza ricorrere al feticcio della Bellezza.

9. La poesia esodante non liquida la domanda fondamentale su quali siano i modi con cui la realtà può entrare in poesia. Sa che essa  “così com’è” non entra nelle parole della poesia come in una scatoletta preconfezionata. Come del resto non entra in una formula matematica o chimica o in un concetto filosofico. Sa che la realtà sfugge alla forma. Sa che la forma (e la forma in generale, non solo la “bella forma”) è in sé  già distanziamento (problematico), se non repulsione (problematica) della realtà.  Fortini ricordava che la forma è segnata dal marchio secolare dei dominatori. E lo stesso marchio segna pure la “non forma” (variante in effetti della forma), adottata da quanti (le avanguardie) hanno creduto così di aver trovato una scorciatoia per trasgredire e aggirare il potere della forma (che è potere,  da alcuni secoli, del Capitale).

10. La poesia esodante riconsidera dal suo punto di vista i tentativi sia dei poeti fedeli alle forme della tradizione, che  in quelle vecchie botti immisero nuovo vino sia dei poeti che hanno voluto slogare le forme tramandate facendosi camaleonti  e mimi di quelle caotiche o mostruose o “patologiche” accumulatesi in epoca moderna e postmoderna. Pensare in poesia l’orrore del mondo non può significare cedere a tale orrore, al  Niente, all’«enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano e postumano, dove tutto è in metamorfosi» (Berardinelli),  che troppi vedono scorrere e gonfiarsi nel fondo dell’abisso storico degli ultimi secoli o  di tutti i secoli. Non ne verrebbe un linguaggio (indispensabile approdo per il poeta) capace diaccogliere in sé  la “forma informe” o «senza limiti e senza confini» del mondo, ma la resa ad esso e la negazione del fare poesia.

11. La poesia esodante non  è surrogato o ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia. Guarda con rispetto a quelle esperienze, le difende dalla denigrazione degli odierni revisionismi, però non si fa riassorbire in quelle poetiche. Per la semplice ragione che sono venute meno tutte le condizioni sociali e culturali che negli anni del secondo dopoguerra e attorno al biennio ’68-’69 le permisero e sostennero. A riproporle artificiosamente (come si è tentato di recente con l’antologia «Calpestare l’oblio») si svela presto l’equivoco di ogni rifondazione. La poesia esodante sa  che la sua eticità e politicità sono da costruire e da controllare su un terreno più ignoto, non su quello di una qualche rassicurante tradizione.

12. La poesia esodante si distanzia sia dal formalismo (o estetismo) sia dal contenutismo (spesso mera propaganda dell’ideologia del Noi dominante). Il contenuto, però, va giudicato anche quando ben formalizzato! Contenuti che, con  i saperi in nostro possesso, giudichiamo nichilistici, prevaricatori, individualisti, antisemiti, razzisti, anche se raggiungessero in poesia una forma esteticamente originale o persino sbalorditiva, pur essendo de-realizzati (una cosa è ammazzare, altra rappresentare un omicidio) non diventano “altra cosa”, non vengono mai del tutto “sublimati”; e non devono pertanto sfuggire  a una verifica  critica rigorosa. La loro messa in forma  non li “riscatta” dalla melma storica. Restano latenti con la loro carica positiva o negativa (o ambigua) nell’opera. Tra tirannide e libertà, dominio e  lotta per liberarsi dal dominio (o ridurlo) il contrasto è ineliminabile (e storicamente irrisolto). La poesia lo può attenuare, svelare (Foscolo), occultare ma lo può anche sottilmente esaltare, non essendo mai del tutto neutra. La poesia esodante, dunque, è sempre accorta alla doppia faccia della poesia: oggetto estetico con un suo particolare fascino; grumo di contenuti storici conflittuali mai del tutto spenti.

13. La poesia esodante  resta poesia e si muove all’interno del discorso dell’«ambivalenza». Non è discorso diretto, ma indiretto. Non può essere mai immediatamente discorso politico (anche se – ripeto – è in rapporto con la politicità innanzitutto del proprio linguaggio). E non può essere neppure discorso immediatamente corporeo, emotivo, vitale.  Può muoversi in una zona definibile lirico-politica o dell’io/noi.  È/potrebbe essere poesia esodante quella che rivela  una sua politicità, anche quando parla di una rosa (Celan per tutti). O  quella che ha una sua liricità, anche quando  parla di un orrore storico ben preciso e nominabile con altri saperi. Riconosce che anche nell’io isolato ci può essere non solo  universalità generica ma politicità. E sa pure che il noi non è sempre e solo ideologia, negazione della individualità, comunitarismo più o meno fusionale e tribale.

14. La poesia esodante è critica continua, intelligente, tenace, di  tutto quanto ci impedisce di accedere a una maggiore comprensione della realtà (e della poesia e delle forme e delle tecniche per dir meglio e con più efficacia quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo). Tale critica è in parte accompagnamento (musica di sottofondo) dell’atto poetico e in parte svolta proprio tramite esso.  La poesia esodante non si dà perciò un fine astratto da raggiungere (fosse la bellezza, la morale, l’impegno politico o altro)  Essa  critica di fatto  i Valori se si presentano come astrazioni pericolose, ideologie, impedimenti della stessa ricerca poetica. Per poesia esodante non s’intende  la propaganda di un valore qualsiasi, né una forma  laico-borghese di religione o un’autoterapia o un’autoconsolazione. S’intende, invece, un’attività intuitiva-pensante in sintonia per quanto  è possibile (come accade anche per le scienze e altre forme di conoscenza) con le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed esterno; soggettivo e oggettivo).

 

[1] Ultimo dialogo tra il vecchio scriba e  il giovane giardiniere

 
Vecchio scriba –

 
I particolari del nostro incontro sui banchi di scuola o in fredde sagrestie del sud contano poco ora. E pure le ragioni del distacco. Il tempo che spendesti in mezzo a noi fu però di buona semina. Ti prendemmo sul serio. Ti demmo pensieri e sensi ordinati non solo divieti. Poi trasgredisti, ci odiasti e dovemmo precluderti i nostri cenacoli. Nulla nel loro corporeo conflitto con la Parola risolvono le rivolte affascinate dal disordine dell’infida parte di tutti noi che per sempre o a lungo resterà oscura. Da solo o con altri tu pure ne hai saggiato il grumo viscido. Esploralo quanto vuoi, se insoddisfatto dalle marmoree distanze delle nostre grammatiche e retoriche, ma non trascurare l’umano, cui in forma semplice mirò la nostra scrittura. Anche dopo il nostro naufragio non dimenticare i forzieri conservati nei nostri inabissati vascelli. Altri mondi sconvolti ti hanno attraversato e invaderanno. Ma scrivi sulle orme del nostro antico e logico disegno. Evidenziale, anneriscile, se hai solo il nero. Preziose sono anche le residue ombre.

 
Giovane giardiniere –

 
Il mondo-presepe contadino si sconnetteva e carbonizzava in simboli oscuri già mentre m’allontanavo dal vostro giardino di parole. Del mondo moderno, dai vostri seminari non previsto o temuto, spiavo in pochi libri forme, sintassi e ritmi irregolari. Parevano più vicini ai moti del mio corpo, al mio respiro affannato dalle corse. Ne divenni ladro studioso e ingordo. Fatti adulto! Fatti artista! Fatti politico! Fatti pratico! – ingiunsero poi voci autorevoli da accademie, partiti e università al giovane magro e silenzioso in fuga, che solerte tutte le ascoltava e teneva a bada pensieri di bimbo ingabbiato, reliquie di preti e professori di liceo, languori e pene di periferia. Accumulai appunti di parole d’amore e livore, grafismi di fiabe e carnevali pezzenti. Ma se scrivo di te, di voi miei lontani o vicini maestri, intendo subito ora addentro alla carne delle vostre parole le punte di complicità col discorso d’ignoti nemici. Non sbagliai perciò ribellione quando ne addentai con sarcasmo certi suoni soavi e interrogai diffidente quelle sincopi improvvise, quei crescendo crepitanti di Valori. Quell’umano ideale e il vigore ambiguo della vostra stretta autorevole discendevano da materiali e potenti domìni, da timori quanto e più dei miei arcaici di fronte ai Velati della Parola cortigiana e solo in apparenza clemente; e non dalle celesti Figure che predicavate. Sbagliai, invece, ad implorare ancora da voi e con ghigni da escluso la restituzione del tempo che pensai catturato e custodito nelle vostre sacrestie e biblioteche, nelle preghiere, nelle formule metriche apprese e che oggi vagamente ricordo. No, voi avevate giudicato trascurabile lo scarto tra il vostro educandato e le mie ansie predatorie, nessun ascolto deste alle memorie del dialetto o all’odio per la servitù subìta in nome dell’angelicata Fraternità che plasmaste. Il vero d’infanzia e gioventù lo ritrovai, assieme alle catene, negli anni della rivolta e poi della solitudine. Deperito ora lo shock del moderno, resisto senza la vostra antica Parola al mondo dell’Istante replicato in orride serie. Una più subdola e mondiale impostura viene impressa a sbalzo su noi tutti e ridimensiona pure il vostro potere di declassati signori di una volta. Sulle vostre orme e ombre ho scritto e a volte riapro i telematici forzieri dove seppelliscono, antiquaria mercanzia, la Parola e l’Uomo. Ma so che esse non sfamano i profughi e i migranti, che nella mente clandestina ho accolto. Né i pani e i pesci del vostro privilegiato convivio si moltiplicheranno per i molti reietti che incalzano. Altri immigratori ci attendono. Non comunità dialoganti. Dietro il simulacro dell’Uomo da voi indagato ben più ampio del prevedibile è l’orrore da pensare e scalzare.

 
[2] Vedi Ennio Abate, Immigratorio,  Edizioni CFR, Piateda 2011

Ennio Abate.Quattordici tesi per una poesia esodanteultima modifica: 2012-09-15T12:06:03+02:00da mangano1
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