vIVA LA SCUOLA,DIeci e una volta: buon anno scolastico!

dIeci e una volta: buon anno scolastico! Perché al popolo della scuola oltre all’attività fondamentale di insegnamento-apprendimento spetta difendere la scuola pubblica dalla débâcle a cui l’hanno condotta le politiche governative. Introdotti da Marina Boscaino, presentiamo 10 punti per cui battersi: se ne parlerà il 23 settembre a Roma. Ringraziamo per averli presentati per vivalascuola Anna Angelucci, Stefano Bonaga, Cosimo Forleo, Valerio Gigante, Luca Kocci, Roberta Roberti, Antonia Sani, Marcello Vigli, Giancarlo Vitali “Ambrogio”.

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Gridare il dissenso e pensare – e fare – un’altra scuola
di Marina Boscaino

Da quanti anni la scuola non trova pace? Considerando il tempo della mia vita professionale, siamo passati – dal concorsone di Berlinguer – attraverso le 3i di Moratti, il “cacciavite” di Fioroni, la “semplificazione e razionalizzazione” di Gelmini; attraverso, cioè, aberranti stravolgimenti volontari della funzione della scuola nel nostro Paese, che hanno fatto proprie una serie di “parole d’ordine”, etichette funzionali al traghettamento verso un sistema formativo che non fosse, come non è, strumento dell’interesse generale: autonomia, personalizzazione, dirigenza, merito, valutazione, competenze, accountability, Europa, modernità.

Il neoliberismo al potere, senza se e senza ma. Non si tratta di parole negative di per sé. Anzi. Alcune di esse, se usate correttamente e concretizzate con buona fede intellettuale, restituirebbero alla nostra scuola ruolo, funzione, centralità. Tuttavia, un uso improprio e spesso manipolatorio ne ha alterato significato, intenzionalità, producendo rifiuto e negatività tra chi dalla scuola è più direttamente coinvolto: insegnanti e altri operatori; studenti; genitori. E obbligando una parte del mondo della scuola a mobilitazioni che durano ormai da quasi 15 anni, senza soluzione di continuità. Certo, si dirà, altro è parlare di portfolio di Moratti, di diminuzione del tempo pieno, di rottura del team alle primarie, altro sono stati i tentativi rabberciati di Fioroni. Quello che però ha offeso una parte di noi è che, anche quando il governo era (sulla carta) “amico”, non si è stati capaci di rendere il tema della scuola dei diritti centrale nell’interesse e nell’investimento, sia economico sia culturale, di chi aveva la responsabilità di assumere scelte e decisioni.

Oggi dobbiamo fare i conti con la sobrietà (così dicono; ma sarà poi vero?) del ministro Profumo e del governo cui appartiene. Vi sembra sobrio – leggo da Repubblica, mentre scrivo – Un computer per classe entro giugno, mentre il 30% degli edifici scolastici non ha la certificazione di agibilità statica ed è pertanto a rischio di crollo? Mentre, addirittura, il sindaco di Campobasso, constatate le disastrose condizioni di alcuni istituti, rinvia l’avvio dell’anno scolastico? Una trasmissione di qualche anno fa, La scuola fallita di Riccardo Iacona, ci diede conto visivamente dello stato di degrado inaccettabile in cui versano molti edifici. Da allora le cose non sono cambiate: si è spostata l’attenzione su altro – meno impegnativo e di maggiore impatto mediatico – in attesa della prossima (macabra) documentazione dell’incuria nei confronti di chi deve crescere. Alla prossima ondata di indignazione collettiva e passeggera, dunque.

È davvero sobria l’eugenetica pedagogica da cui siamo sommersi noi docenti, selezionati in base non al merito, alle capacità, ai titoli, ma al certificato di nascita, in nome di uno strumentale quanto ambiguo inno alla giovinezza? È veramente sobrio il fatto di somministrare a persone con curricula e titoli culturali quiz demenziali (senza il contorno di ricchi premi e cotillons)? Infine, non è privo di qualsiasi sobrietà continuare a fare annunci vuoti, senza relazione con le necessità più concrete ed immediate, promettendo una scuola “più europea”, senza mettere minimamente mano ai gravissimi problemi che assillano il nostro sistema di istruzione?

Abbiamo pensato tutto questo e molto altro. Ci siamo interrogati e ci siamo confrontati: noi, movimenti, comitati, associazioni della scuola democratica, laica e pluralista, la Scuola della Repubblica.

Abbiamo invitato all’interlocuzione forze politiche e sindacati; alcuni hanno risposto, altri si sono sottratti. L’idea di creare un coordinamento nazionale, in un momento come questo, è nata dal bisogno di non rinunciare, in una fase di annacquamento delle coscienze e di annebbiamento degli obiettivi, ad esercitare il nostro diritto alla cittadinanza attiva, la nostra funzione di insegnanti, la nostra capacità critica e propositiva in un confronto necessario e diretto e in una volontà di tentare di portare avanti insieme la mobilitazione su finalità comuni. In un desiderio di distanziarsi da chi dice no, a prescindere; dal tentativo di vendere dissenso a basso costo, senza alimentare coscienza critica.

Tutto è iniziato a Firenze, in primavera, quando un gruppo di associazioni e tavoli regionali (quelli di Toscana e Lazio) per la difesa della scuola statale si sono incontrati per la prima volta dando vita a un documento che individuava 10 sì e 10 no per la scuola statale, di cui alcuni membri del coordinamento forniscono in questa puntata un’analisi e un’interpretazione.

Ci siamo dati poi appuntamento a Bologna, il 2 settembre. Dall’incontro e dal confronto è nata la necessità di concentrare la nostra attenzione e la mobilitazione su 4 punti che riteniamo prioritari per contrastare il declino della scuola pubblica, dando vita ad un coordinamento nazionale.

L’anno scolastico è iniziato all’insegna di due istanze completamente contrapposte: gli annunci del Miur – un Pc per ogni aula, il tablet per gli insegnanti del Sud, un concorso che inciderebbe in maniera sensibile e definitiva sull’efficacia dell’azione formativa, una scuola “europea” – e la triste e tristemente concreta realtà fotografata per l’ennesimo anno dalle meste cifre di Education at a Glance: penultimi nella classifica Ocse per la spesa pubblica nell’istruzione (il 4,7 per cento del Pil, contro una media del 5,8); i docenti della scuola (età media 50 anni) che percepiscono un reddito decisamente più basso rispetto a molti altri lavoratori con un’istruzione universitaria. E così via.

Una serie di indicazioni allarmanti, che sottolineano che una parte del declino italiano nasce a scuola: una triste rivalsa per chi ha parlato – per anni – di miopia e disinvestimento culturale ed economico. Una sconfessione esplicita di quanti si sono fatti carico della politica di “semplificazione e razionalizzazione”, che si è concretizzata in una razzia ai danni del sistema di istruzione statale, delle vite di molti lavoratori, del diritto allo studio degli studenti. Di questi giorni le notizie più varie e sconfortanti: il crollo notturno del tetto di una scuola a Pordenone, nella scuola dei tablet (solo promessi) e della carta igienica (effettivamente mancante). I collegi docenti si trovano a discutere di uno dei grandi proclami estivi: il registro (e la pagella) elettronici, annunciati nella spending review e irrealizzabili nelle scuole dell’amianto e della mancanza di prese nelle aule.

L’Europa ci chiede la generalizzazione della scuola dell’infanzia; e da noi l’istruzione dai 3 ai 6 anni non è nemmeno riconosciuta come scuola a tutti gli effetti. E, come dimostra la raccolta di firma per il referendum di Bologna, è ancora fortemente sottoposta alla gestione non pubblica. Profumo parla di “autonomia responsabile”; ed ecco il silenzio-assenso sull’avanzata antidemocratica del progetto di legge 953, ex Aprea, che spiana la strada – sottraendo una materia delicatissima al dibattito parlamentare – ad una soppressione degli organi collegiali, ad un potenziamento delle prerogative dei dirigenti scolastici, a un sistema di valutazione ridotto a variabile dipendente direttamente dall’Esecutivo, ad un’autonomia statutaria, che insidierà l’unitarietà del sistema scolastico nazionale, con prepotente ingresso dei privati negli istituti scolastici e potenziale attacco alla libertà di insegnamento: dalla scuola della Costituzione alla scuola aziendale e autoritaria. Intanto, imprevisto coniglio tratto da un imprevedibile cappello, Profumo e Rossi Doria ritirano fuori la possibilità di accorciare di un anno il percorso formativo degli studenti: ce lo chiede, ovviamente, l’Europa.

Sappiamo, per una consuetudine ormai decennale e per alcuni pluridecennale con il disinteresse della politica, dell’amministrazione e di molti cittadini rispetto alla scuola, che non possiamo contare su un consenso diffuso e su una partecipazione condivisa. Ma sappiamo, noi che insegniamo e che viviamo la scuola, della scuola e nella scuola da anni, che la necessità principale, oggi, è quella di svincolarci da qualsiasi sloganismo di maniera, dai no privi di capacità propositiva alternativa, per abbracciare una dinamica costruttiva, di edificazione concreta di alternative possibili. Di un’operatività che gridi il dissenso e, al contempo, funga da spinta di propulsione per pensare un’altra scuola. O, meglio, per cercare di riportare la nostra a quel modello di strumento emancipante per tutti i cittadini che la Costituzione ha previsto.

A Roma, domenica prossima, il giorno dopo la manifestazione nazionale dei precari, cui parteciperemo e che saranno con noi, ci riuniremo ancora, per proporre le azioni di mobilitazione sui punti che abbiamo individuati come fondamentali. Ma sappiamo anche, noi che abbiamo come fine la costruzione di identità culturali che convergano in un esercizio consapevole della cittadinanza, che senza studio non si progredisce; è per questo che affronteremo questa battaglia affilando le nostre armi attraverso l’approfondimento delle nostre competenze e conoscenze: attrezzatura imprescindibile per ribadire le nostre ragioni con dignità e consapevolezza, senza velleitarismi e frasi vuote.

Due giornate di studio, sulla riforma del Titolo V della Costituzione, l’autonomia e la valutazione concluderanno infatti in ottobre il ciclo dei nostri incontri e apriranno – dopo lo studio e la riflessione – la strada alla mobilitazione concreta. Per ribadire ancora una volta il nostro no all’incuria, al dileggio, al tentativo di manipolazione, al pensiero unico, all’attacco alla laicità e ai diritti inalienabili che – attraverso facce differenti – hanno inquinato, qualcuno pensa irreversibilmente, la scuola della Repubblica. Nostro scopo e nostra volontà sarà smentire questa opinione.

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SÌ all’incremento progressivo della spesa per la scuola (edilizia, organici, sostegno e scuola dell’infanzia), garantendo in tempi certi almeno il raggiungimento della media europea. NO alle spese militari per le cosiddette missioni di pace ed ai finanziamenti pubblici diretti ed indiretti alle scuole private, anche se paritarie.
di Luca Kocci

Decimo posto al mondo per la spesa militare, trentunesimo per la spesa per la scuola. Basterebbe questa istantanea ad indicare in che direzione vanno le scelte politiche ed economiche del nostro Paese: investimenti nel settore militare, per conquistarsi un “posto al sole” – che però assomiglia molto ad un piccolo ombrellone in quinta fila – nel nuovo scenario globale partecipando a tutti gli interventi armati neocolonalisti travestiti da “missioni di pace”, e finanziamenti alla mai sazia industria armiera, per soddisfare lobbysti, banchieri e generali, magari nel frattempo diventati ministri.

Allora non resta che rilanciare il grido del deputato socialista Andrea Costa che nel 1887, all’indomani della sconfitta dell’esercito del Regno d’Italia a Dogali da parte delle truppe etiopiche, ribadendo la sua ferma condanna del colonialismo italiano in Africa, alla Camera gridò: «Per continuare le criminose pazzie africane noi non daremo né un uomo, né un soldo». Ed è quanto mai necessario rinnovare la battaglia perché siano diminuiti gli investimenti per le Forze armate, le “missioni di pace” e gli armamenti, e invece siamo aumentati quelli per la scuola pubblica, soprattutto dopo la “cura da cavallo” imposta dal triumvirato disarcionato Berlusconi-Tremonti-Gelmini – meno 8 miliardi di euro in tre anni – e gli “interventi chirurgici”, meno cruenti ma non meno invalidanti, di Monti-Profumo-Bondi (Enrico, lo stratega della spending review).

Il Sipri (Stockholm international peace research institute) attesta che l’Italia si conferma al decimo posto fra gli Stati che più hanno speso per militari e armi. Il bilancio per la Difesa presentato al Parlamento prevede per il 2012 uno stanziamento di 21.342 milioni di euro, con un incremento di 785 milioni rispetto all’anno precedente, pari al 3,8%. Contestualmente l’Ocse, in un rapporto reso noto all’inizio di settembre, spiega che l’Italia è scivolata al penultimo posto tra i Paesi industrializzati per la spesa nella scuola: con una spesa per l’istruzione pari al 9% del totale della spesa pubblica, siamo scivolati al trentunesimo posto (su 32 Paesi presi in considerazione: solo il Giappone fa peggio di noi), contro una media Ocse del 13%. La spesa è inoltre in calo rispetto al 9,8% del 2000 e se rapportata al Pil è pari al 4,9% contro il 6,2% della media Ocse.

La rete di associazioni della società civile Sbilanciamoci, nella sua “contro-Cernobbio” del 7-9 settembre – il Forum per un’economia diversa – ha formulato una serie di proposte, che rilancerà nelle prossime settimane, durante la discussione della legge di stabilità e del bilancio dello Stato: cancellare il programma di acquisizione di 90 cacciabombardieri F-35 (risparmio: 8 miliardi di euro), ridurre di un terzo (cioè quasi 60.000 unità) gli organici delle Forze armate (risparmio: poco meno di 3 miliardi di euro), ritirare le truppe dall’Afganistan (risparmio: oltre 600 milioni di euro), ridurre gli altri programmi di grandi sistemi d’arma (fregate, sommergibili, ecc, risparmio: 600 milioni di euro), fermare l’approvazione della legge delega sul riordino della Difesa (che costerà nei prossimi anni oltre 120 miliardi di euro).

Con una piccola parte di questi risparmi non solo si potrebbe restituire alla scuola quello che gli è stato sottratto negli anni, ma anche rilanciare l’intero sistema statale di istruzione, per costruire realmente la scuola della Repubblica e della Costituzione che «ripudia la guerra», «promuove lo sviluppo della cultura» e «rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

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SI alla generalizzazione della scuola dell’infanzia pubblica, statale e comunale, per tutte e tutti sull’intero territorio nazionale. NO al finanziamento delle strutture private e all’appalto ai privati di parti essenziali dei servizi educativi.
di Antonia Sani

A volte la soppressione di un termine considerato superfluo in quanto ritenuto ovvio può dar luogo a interpretazioni del tutto divergenti. L’esempio è rappresentato nel caso di cui ci stiamo occupando – la scuola dell’Infanzia – dalla mancata esplicitazione del termine “statale”. Con nostra sorpresa stiamo notando che – ad es. nell’ambito del consiglio Comunale di Bologna – il concetto di generalizzazione delle scuole dell’Infanzia ha assunto il significato di “indifferenza tra scuole materne pubbliche e scuole materne private”. Entrambe poste sullo stesso piano, con buona pace dell’art. 33 della Costituzione.

Quindi, via libera ai finanziamenti alle scuole private, laiche o religiose che siano, poiché “sono la stessa cosa” e quindi via libera alle covenzioni che sollevano i Comuni dall’impegno oneroso di aprire sezioni di scuola dell’Infanzia in numero sufficiente per rispondere all’esigenza della popolazione locale.

A Bologna 13 associazioni si sono mobilitate con una raccolta di firme per promuovere un referendum abrogativo dei finanziamenti del Comune a scuole materne private. Sono alcune centinaia i bambini e le bambine che non trovano posto nella Scuola materna comunale. I genitori vengono dirottati verso le scuole private, dove sono accolti dietro il pagamento di una retta (forse ridotta grazie alla convenzione col Comune ma discriminante nei confronti di chi trova accoglienza nella scuola pubblica), ma, ciò che è più pesante, e lesivo della libertà di coscienza, sono costretti a sottoscrivere obtortocollo un progetto educativo di ispirazione religiosa che possono non condividere…

Le scuole private, ai sensi dell’art. 33 della Costituzione hanno diritto a un proprio progetto educativo ma “senza oneri per lo Stato”. Chi le sceglie si impegna a sottoscrivere, in quanto spinto nella sua scelta da una condivisione delle metodologie e degli obiettivi, il progetto di un determinato istituto privato.

Nel caso delle scuole materne convenzionate, la Costituzione è lesa due volte: primo, per la convenzione col Comune che fornisce denaro pubblico a scuole private; secondo, per la violenza sulla libertà di coscienza che obbliga dei cittadini – pena la non frequenza del proprio figlio alla Scuola dell’Infanzia – ad accettare un progetto educativo contrario a una visione laica dell’istruzione.

A questo punto, è indispensabile far percepire all’opinione pubblica il significato autentico del termine “generalizzazione”. Occorre fare un passo indietro, tornare al 1968, anno in cui la Legge 444 ha istituito la “Scuola dell’Infanzia statale”. Fu l’approdo di un lungo dibattito di enorme importanza, poiché toglieva la scuola materna dalla sua natura fin lì riconosciuta di “servizio sociale” per dare riconoscimento a quanto era stato fatto da decenni nelle scuole comunali per introdurre programmi pedagogici formativi che reclamavano un loro riconoscimento nell’ambito dei programmi svolti nel primo ciclo della scuola primaria.

Ma come spesso è avvenuto nel percorso delle innovazioni del sistema scolastico del nostro paese, la conquista non ha potuto godere, né ne gode a tutt’oggi , di tutta la sua forza innovativa.

Ancora oggi la scuola statale dell’Infanzia rappresenta più o meno un terzo delle Scuole Materne, un altro terzo è competenza dei Comuni, e un ultimo terzo è scuola privata. Certamente un ruolo considerevole in questa tripartizione lo hanno giocato da un lato il testo normativo del 1968, che per non urtare gli interessi delle scuole materne private prescrive che non vengano istituite sezioni di scuola materna statale in presenza di risposte al fabbisogno da parte di scuole private, dall’altro lato l’orgoglio di Comuni dell’Italia del Centro Nord, che avevano elaborato e gestito programmi di attività pedagogiche di una tale efficacia e rilievo da essere noti in Europa come esempio a cui attingere e che non volevano perdere la propria autonomia.

Oggi la situazione è mutata… I Comuni sono in grandi ristrettezze, e non solo da oggi, e riescono con grandi difficoltà a fronteggiare la domanda, che è in aumento. Rivolgersi alle scuole private mediante l’offerta di convenzioni è la via di uscita praticata più comunemente, ciò che noi ci sentiamo di contestare con la massima fermezza. Peraltro i NUOVI ORIENTAMENTI, l’aggiornamento e l’interscambio tra programmi della Scuola statale e comunale garantiscono la qualità dei programmi, non più limitati a poche isole felici come era negli anni ’60…

I tempi sono quindi maturi per una generalizzazione della Scuola dell’Infanzia che superi la dicotomia, spesso incomprensibile per i genitori, tra sezioni di scuola statale e sezioni di scuola comunale ospitate in un medesimo edificio. La scuola dell’Infanzia è scuola a tutti gli effetti (perfino ai fini dell’insegnamento della religione cattolica è stata considerata “scuola” con l’introduzione di due ore settimanali all’interno dell’orario, come avviene nella scuola primaria!!).

Se “scuola” è, lo Stato deve prendersi cura della sua istituzione e del suo finanziamento alla pari degli altri gradi e ordini di scuole, offrendo a tutti i bambini e le bambine il diritto alla sua frequenza, provvedendo a che essi non siano costretti a frequentare – contro la loro volontà – scuole private. Possiamo concludere riesumando uno slogan popolare negli anni ’70 che si batteva contro il finanziamento illegale alle scuole private – sia pure materne -: Scuola dell’Infanzia, finanziata dallo Stato, programmata dalle Regioni, gestita dai Comuni.

Un autentico modello di sussidiarietà verticale, il contrario di quella sussidiarietà orizzontale che ci viene propinata dalle regioni dopo la modifica del Titolo V della Costituzione… E’ un modello che risponde in pieno alle esigenze specifiche di questo particolare tipo di scuola.

Ci auguriamo che il referendum di Bologna promosso dalle associazioni riunite nell’ass. ”Art. 33” possa avere un buon esito e fare da apripista in Italia.

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SI all’estensione dell’obbligo scolastico fino al 18° anno di età con un biennio unitario. NO all’adempimento dell’obbligo nella formazione professionale e nell’apprendistato.
di Antonia Sani

Se domandiamo a qualsiasi persona quando termina a suo giudizio l’obbligo scolastico, ci capita non di rado di ottenere risposte incerte e divergenti: alla fine della Scuola Media, a 16 anni, a 18 anni. Risposte che riassumono le altalenanti vicende socio-economiche-politiche del sistema scolastico italiano in questi ultimi 50 anni.

I più anziani ricordano l’avvento della Scuola Media Unica nel 1962 che poneva fine al “doppio canale precoce” (Ginnasio-liceo e Avviamento al lavoro) che disciplinava l’obbligo scolastico fino a 14 anni a partire dal 1923. L’aspetto importante del provvedimento del 1962 non fu dunque l’estensione di un obbligo già vigente quanto l’estensione delle pari opportunità a tutti i ragazzi e le ragazze (art. 3 della Costituzione).

Nei decenni successivi fu possibile rendersi conto che la grande conquista era inficiata da un dato di fatto: la “canalizzazione”, debellata nella scuola primaria e secondaria di primo grado, era più che mai presente negli ordini di scuola di secondo grado. Infatti permaneva accanto agli altri ordini di scuola secondaria superiore con diploma quinquennale o quadriennale, un’Istruzione Professionale di durata triennale che terminava con un “diploma di qualifica”, alla cui assegnazione partecipavano (e partecipano) anche rappresentanti del mondo del lavoro. Si trattava comunque di situazioni al di fuori dell’obbligo scolastico, fermo dal 1923 a 14 anni , e lo Stato poteva sentirsi assolto per aver realizzato obbligo e pari opportunità in quegli “almeno otto anni” menzionati nella Costituzione.

Una scossa al sistema avveniva agli inizi e nel corso degli anni ’70 con l’entrata in funzione delle Regioni.

L’art. 117 della Costituzione assegna alle Regioni le norme legislative in materia di “istruzione artigianale e professionale”, e l’art. 118 delega alle stesse le relative funzioni amministrative, ma è importante rilevare che prima della loro istituzione formale, tutta la materia di “addestramento professionale” era stata affidata al Ministero del Lavoro. (Sulle prime, nel 1949, destinatari degli interventi erano stati gli adulti, ma nel 1951 i corsi di addestramento professionale erano stati estesi ai giovani – evidentemente agli studenti che avevano frequentato fino ai 14 anni le scuole di Avviamento al lavoro). Un ulteriore interessante passaggio si ha nel 1955 con la legge 25 che istituisce ufficialmente l’apprendistato. Riteniamo importante menzionarli poiché entrambi i provvedimenti aprono la strada alla Formazione Professionale Regionale rivolta ai giovani.

Intanto, sul versante del sistema scolastico, sulla spinta dei movimenti studenteschi e di chi nella sfera dei politici aveva a cuore l’attuazione dei principi costituzionali, si compiva un passo importantissimo: gli istituti professionali vengono portati alla quinquennalizzazione, con accesso universitario pari agli altri ordini di scuola secondaria superiore (1969).

Ma mentre la Repubblica poneva tutti gli ordini di Scuola sullo stesso piano per quanto concerne il raggiungimento del diploma, le Regioni davano vita a un nuovo “doppio canale” , quello della Formazione Professionale Regionale, su cui convergono interessi locali di varia natura: corsi pronti a sottrarre con prospettive di formazione al lavoro alunn* all’istruzione statale, soprattutto nelle fasce più deboli e meno motivate allo studio teorico dell’Istruzione Professionale. Le Regioni rivendicano il ruolo loro assegnato dalla Costituzione, come se nel frattempo l’istruzione professionale non fosse divenuta parte integrante del sistema scolastico nazionale.

Su questo terreno si gioca tutta la partita dell’obbligo scolastico nel nostro paese.

Nel 1999, con la legge 9 il ministro Luigi Berlinguer eleva l’obbligo scolastico a 15 anni (dovevano essere 16, ma uno viene eliminato per non danneggiare troppo la Formazione Professionale regionale), e si comincia a parlare di un “obbligo formativo” a 18 anni. “Obbligo formativo” che nella sua fumosità continua ad apparire come una via di uscita nei provvedimenti successivi che non vogliono entrare in conflitto con gli Enti regionali.

Nel 2003 la ministra Moratti sostituisce a “obbligo” la formula “diritto-dovere“, che disimpegna Stato e cittadini dalla fermezza dell’obbligo, termine definito retaggio ottocentesco che si oppone alle libere scelte. L’elevamento dell’obbligo scolastico viene abrogato, a favore di un “diritto di tutti all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni, o comunque fino al conseguimento di una qualifica entro il 18esimo anno di età”…

Il ministro Fioroni nel breve governo del Centrosinistra ripropone l’obbligo scolastico a dieci anni (in pratica al complemento del biennio della secondaria superiore, a 16 anni, ma non ha il coraggio di affrontare lo scontro con le Regioni… e resta la possibilità, almeno fino al loro previsto esaurimento (?) di assolverlo anche nei corsi sperimentali di formazione professionale regionale…

Ultimo capovolgimento: la finanziaria del 2008 abroga il provvedimento del precedente governo. L’obbligo scolastico torna di fatto alla fine della scuola media, poiché può essere assolto anche nella Formazione Professionale regionale e addirittura – dopo il Brunetta – nell’apprendistato. Resta – ovviamente – il diritto/dovere all’istruzione (obbligo formativo?) fino al 18° anno di età, dove, come, chi controlla, non si sa…

Ora l’attuazione del modificato Titolo V tenderebbe a riportare sotto l’egida delle Regioni l’istruzione professionale. Finora si è riusciti ad evitarlo. Ma siamo ben consapevoli che tutta la questione del raggiungimento dell’obbligo scolastico a 18 anni si gioca sul campo che abbiamo tentato di delineare.

Noi pensiamo e sosteniamo che l’OBBLIGO SCOLASTICO a 18 anni vada perseguito nella scuola per l’acquisizione non solo di competenze specifiche, ma di una formazione critica, consapevole, di tutte e tutti i giovani che vivono nel nostro paese. Indipendentemente da ciò che avviene in Europa, dove i sistemi scolastici differiscono da paese a paese pur prevedendo tutti un obbligo scolastico più elevato del nostro, noi pensiamo a un percorso in armonia con i principi della nostra Costituzione, di cui è possibile dare qualche segnale:

Una scuola, per essere inclusiva, evitare la dispersione e trattenere gli studenti fino al 18° anno deve:

prevedere un sostegno economico come reddito di cittadinanza ai giovani
prevedere una totale revisione dei curricoli, arricchendoli di proposte differenziate, anche laboratori con attività artigianali, di varia natura, che facciano comprendere il valore congiunto dello studio teorico, del lavoro manuale, della ricerca, non distinguibili in ordine gerarchico (e qui il supporto delle realtà regionali potrebbe essere fondamentale, ma tutto nell’ambito dell’istituzione scolastica, la sola istituzione cui è attribuito il conferimento di diplomi nazionali in conclusione del percorso scolastico, ossia a 18 anni). Alla Formazione Professionale Regionale il compito di predisporre corsi post-diploma.
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SI ad una politica per la lotta alla dispersione scolastica ed in primo luogo all’estensione del tempo pieno nella scuola primaria e media. NO ai progettifici selvaggi e talvolta clientelari.
di Roberta Roberti

Chi vorrebbe combattere la dispersione scolastica al biennio delle superiori o è un ipocrita o non sa nulla di scuola. Il disagio che conduce all’abbandono e al rifiuto della scuola tra i 14 e i 16 anni è frutto di un percorso, non è un evento improvviso ed inaspettato.

Abbiamo sostenuto da sempre la grande importanza della scuola dell’infanzia perché la dispersione scolastica comincia da lì. In Italia si sono sperimentati e realizzati i migliori asili nido e le migliori scuole dell’infanzia del mondo.

Il tempo pieno alle elementari e il tempo prolungato alle medie sono stati allo stesso modo il frutto di una sperimentazione sul campo, del lavoro di docenti e studiosi finalizzato a garantire il benessere a scuola dei bambini e dei ragazzi, la loro “competenza sociale” oltre che quella nelle diverse discipline. Il tempo pieno alle elementari ed il tempo prolungato alle medie erano uno degli strumenti più importanti per combattere l’abbandono. Perché con le compresenze e i tempi distesi consentiti dal rientro pomeridiano si potevano affrontare argomenti, fare progetti, fare recupero e sostegno, alfabetizzazione, laboratori… non esistono altri strumenti che una didattica attiva e partecipata per riconciliare alla scuola chi se ne sente escluso o disinteressato.

Questi modelli pedagogici e didattici imitati in tutto il mondo e sicuramente indispensabili ed efficaci per combattere la dispersione scolastica non li ha fatti il ministero, li hanno fatti gli insegnanti e i genitori che hanno creduto in una scuola delle relazioni e dei tempi distesi, secondo un progetto pedagogico accurato e uno spirito inclusivo. Ora, mentre si proclama la lotta alla dispersione scolastica, sono stati drasticamente ridotti i fondi per asili e scuole di ogni ordine e grado, sono stati cancellati il tempo pieno e prolungato.

Quanto poi agli interventi al biennio delle superiori per contrastare il fenomeno della dispersione, nulla si è più fatto, se non tagliare anche qui i finanziamenti, le compresenze, i laboratori e il tempo scuola, aumentare il numero di alunni per classe, sbandierare il rigore e la disciplina come soluzione e introdurre i quiz Invalsi come misuratore di qualità ed efficienza del sistema scolastico. Basti pensare, tra le altre cose, a come sono stati snaturati gli istituti professionali, che ospitavano la maggior percentuale di studenti a rischio di abbandono. La nascita delle qualifiche regionali ha di fatto tolto alle scuole statali il percorso di diploma triennale ed ha provocato l’intensificarsi dei progetti di collaborazione tra scuole ed enti di formazione professionale, spesso connessi strettamente agli enti locali (comuni, regioni, province). Ciò a cui si è assistito è stato il ritiro dello Stato, che ha di fatto trasferito ed esternalizzato una serie di percorsi di istruzione e formazione professionale dalla scuola ad altri soggetti, con personale precario e non sempre qualificato.

Ci parlano di abbandono… Ma come si può intervenire sull’abbandono scolastico in modo efficace, se si mettono in aule del tutto inadeguate 28 bambini/30 ragazzi, riducendo il tempo scuola, eliminando le compresenze e le ore di laboratorio, togliendo ore di sostegno e risorse per recupero e alfabetizzazione?

La politica scolastica degli ultimi 15 anni ha però anche un’altra grave responsabilità, cioè quella di aver imposto una serie di “riforme”, che hanno modificato talora anche profondamente i corsi di studio, in tutti gli ordini e gradi di scuola, ponendo “traguardi”, li hanno chiamati così, che costringono la didattica a piegarsi al nozionismo e al pensiero unico. La direzione nella quale ci spingono i test è opposta a quella che si dovrebbe prendere in una scuola che vuole davvero combattere la dispersione scolastica. Perché in una classe di 30 ragazzi, con meno ore settimanali, se il docente sa che la classe deve raggiungere i “traguardi” per superare i quiz, in modo da fargli fare bella figura (e magari un domani guadagnare anche di più) e far prendere tanti bei finanziamenti alla sua scuola, chi rimane indietro è una zavorra, fa perdere tempo ed energie. Nella scuola della competizione non c’è posto per uno sguardo altro, non c’è posto per lo scarto di senso che anticipa il genio, non c’è posto per il dubbio e la sfumatura, non c’è spazio per l’incertezza o la differenza: c’è solo un solitario, eterodiretto, preconfezionato e aggressivo percorso verso la meta.

Questi provvedimenti, che invece non sono stati progettati e scelti da docenti e genitori, ma imposti dal ministero, non servono a contrastare la dispersione scolastica. Ben altre sono le scelte da fare se si vuole davvero combattere l’abbandono scolastico.

Prima di tutto, mentre si afferma “Non uno di meno” si dovrebbe aggiungere “E non più di venti”. Questa è la prima ricetta per combattere l’abbandono scolastico: ridurre il numero di alunni per classe.

Successivamente si devono reintrodurre le compresenze per il tempo pieno e prolungato e per i laboratori in tutti gli ordini di scuola.

La politica per una efficace dispersione scolastica passa poi attraverso diversi altri canali: un rinnovamento ed una profonda revisione delle metodologie didattiche, col sussidio delle nuove tecnologie, autogestita dalle scuole attraverso percorsi di ricercazione e autoaggiornamento dei docenti, processi di autovalutazione delle scuole, organico funzionale; edilizia scolastica che tenga conto del fatto che uno spazio piacevole in cui stare aiuta moltissimo.

NO ai progettifici selvaggi e talvolta clientelari.
I progettifici sono stati una caratteristica del decennio 2000-2010: la didattica per progetti imperava nelle nostre scuole. Se da una parte in quegli anni si toglievano soldi e personale alla scuola pubblica, dall’altra si riversavano risorse talvolta ingenti per finanziare i famigerati progetti, e con il miraggio di recuperare fondi si allettavano le scuole, sempre più povere. In quegli anni, in tutti gli ordini le scuole si sono trasformate davvero in progettifici, e talvolta le aspettative di studenti, docenti e genitori sono state amaramente disattese, perché le ricadute di proposte, apparentemente molto interessanti, si sono rivelate poi scarse dal punto di vista didattico e relazionale. I finanziamenti per molti progetti erano condizionati al rispetto di determinati vincoli, tra i quali spesso figurava il partenariato con soggetti esterni, quali associazioni o centri di formazione professionale. Ciò ha sicuramente contribuito al radicarsi di un mondo parallelo a quello della scuola, cioè quello degli educatori, formatori, tutor, esperti, ai quali gli enti locali hanno demandato il compito di fornire servizi ad un’utenza cui venivano sottratti dallo Stato tempo scuola, insegnanti, personale ATA, insegnanti di sostegno e soldi e che poi magari arrivava a 15-16 anni ad essere espulsa o ad autoespellersi dalla scuola.

La drastica riduzione dei finanziamenti alle scuole negli ultimi 10 anni ha portato al graduale esaurirsi anche delle risorse per i progetti, anche se tuttora le scuole sono spesso caldamente invitate ad aderire a percorsi didattici in collaborazione con enti e/o associazioni, a volte difficili da integrare con il lavoro di classe.

Oggi, nel 2012, i soldi non ce li danno più neanche se facciamo i progetti. Oggi i progetti li fanno loro, sulla pelle di insegnanti, alunni e genitori, e pure gratis. Noi dovremo eseguire al meglio i loro ordini e loro ci daranno i voti e se saremo stati bravi avremo dei premi, sennò delle punizioni.

Resta però una buona pratica degli anni d’oro: gli enti locali, invece di destinare risorse alle scuole e farle loro autonomamente gestire, forniscono alle scuole servizi, svolti da soggetti privati (cooperative, imprese o associazioni) o da società partecipate miste pubblico-privato. Ad esempio, invece di dare soldi alle scuole elementari per arricchire l’offerta formativa, il Comune può decidere di fare una convenzione con una associazione o una cooperativa per fornire alle scuole il personale per l’assistenza durante le ore di mensa e dopomensa. Alle scuole non viene dunque offerto denaro, ma servizi gestiti da soggetti terzi. In questo modo si snatura un progetto pedagogico e didattico; si precarizza una parte del personale scolastico; si privatizzano pezzi di tempo scuola e il sistema delle clientele si consolida e prospera, perché ovviamente gli appalti sono sostanziosi e allettanti, specie in tempi di crisi e a risorse ridotte al lumicino.

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SI alla qualità ed alla sicurezza della scuola con la riduzione del numero di alunni per classe fino ad un massimo di 25 (ed in ogni caso nel rispetto della normativa per la sicurezza) e con gli interventi adeguati per il sostegno e per l’integrazione degli stranieri. NO alle classi “pollaio”, ai tagli al sostegno ed ai megaistituti scolastici ingovernabili e didatticamente inadeguati.
di Cosimo Forleo

Aule fatiscenti, palestre non a norma, attrezzature di laboratorio non adeguate, servizi igienici indegni, classi pollaio, etc etc: è la solita negativa e reale fotografia della scuola italiana di inizio anno scolastico divulgata dai media; ma nonostante i soliti buoni propositi del governo, la situazione continua, anno dopo anno, a peggiorare, soprattutto nel meridione; senza entrare troppo nell’analisi dei dati statistici, in Italia soltanto una scuola su tre è a norma! Infatti, solo il 45% delle scuole ha il certificato di agibilità statica, decisamente ultima in Europa, e tantissime sono quelle senza la certificazione igienico-sanitaria e/o mancanti del certificato di prevenzione incendi, e lo Stato non inverte la rotta nemmeno quando la realtà viene, con tutta la sua gravità, prepotentemente a galla, come nel caso della morte dello studente di Rivoli accaduto qualche anno fa; anzi a causa della “Spending review” questa inversione di rotta è ancora ben lontana dall’attuarsi per cui gli enti locali, Provincie e Comuni, non si sognano nemmeno di mettere qualche euro nel loro bilancio per definire un serio Piano di interventi sulla Sicurezza nelle scuole poiché non sono in grado nemmeno di provvedere alla manutenzione ordinaria!

Ho formulato alcune domande ad un esperto del settore e appartenente al Coordinamento nazionale USB dei Vigili del Fuoco:

Alla luce della nuova normativa, il d.lgs. 81/08, cosa è cambiato, in sintesi, rispetto alla legge 626?

La differenza più evidente consiste nel Documento Valutazione Rischi che era un tipo di documento necessario e già previsto nella precedente normativa in materia di sicurezza del lavoro, ma che nella nuova allarga il proprio campo: il datore di lavoro, per metterla a punto, dovrà considerare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. In particolare, dovrà tener conto dello stress da lavoro e dei rischi legati alle differenze di genere, all’età e alla provenienza da altri Paesi.

Quindi potremmo dire che tra il vecchio ed il nuovo, l’asse d’interesse si sposta notevolmente verso la formazione ed informazione di tutti i lavoratori (siano essi a tempo determinato che indeterminato, ecc); la vecchia normativa poteva essere vista come un semplice tentativo da parte del datore di lavoro di scaricare le proprie responsabilità da sé al lavoratore in genere.

In riferimento ai problemi con cui si ha a che fare quotidianamente, quali iniziative si sente di proporre perché si riducano i rischi e si migliori la sicurezza nelle scuole, allo stato attuale?

Quasi la metà delle scuole pubbliche sono state identificate dal Ministero delle Infrastrutture e dalla Protezione Civile come vulnerabili da eventi sismici e quindi da verificare. Perciò la situazione si deve affrontare dal punto di vista politico, in quanto diviene difficile riuscire ad arginare un problema come quello delle infrastrutture senza che i governi non mettano mano al portafoglio. Di scuola si discute ogni giorno. La ragione è molto semplice. I problemi della scuola interessano personalmente un grande numero di persone, gli studenti, i loro genitori, gli insegnanti. Interessano anche i pedagogisti e gli intellettuali, che ne discutono sui giornali e nei libri, e i politici, che ne fanno oggetto di interventi e riforme. Eppure, nonostante tutto questo discutere e intervenire, la società oggi dimostra una singolare impotenza a risolvere i “problemi della scuola“, tanto che questa sembra trovarsi in una sorta di crisi perenne da cui non riesce a uscire.

E rivolgendosi non solo ai legislatori ma anche a chi nelle scuole ci vive quotidianamente, in particolare al RLS?

Da non sottovalutare i rapporti e le responsabilità tra ente gestore ed istituto scolastico, e quindi escludere a priori che alcuni rischi specifici nelle scuole non esistano, come il rischio infortunistico dettato anche dalla semplice movimentazione manuale dei carichi; partendo sempre da un corretto uso della formazione ed informazione.

Quali sono le maggiori criticità nel campo della sicurezza?

La formazione sicuramente, che parte dalla scarsa comprensione del proprio ruolo all’interno della organizzazione della tutela sui luoghi di lavoro. Si tratta di un aspetto che deve essere visto indipendentemente da eventuali responsabilità legali. Per evitare gli incidenti, o per mitigarne le conseguenze, deve essere chiara la catena decisionale in modo che l’insieme delle persone direttamente coinvolte nella situazione critica operi in forma coordinata. Altrimenti le decisioni sbagliate o semplicemente contrastanti mettono in crisi l’intero sistema. La carente formazione genera la scarsa capacità da parte dei preposti di riconoscere il rischio e di valutarlo.

Qualche breve consiglio per una corretta gestione della Sicurezza nelle scuole?

Contattare altri enti e creare una rete di scambi d’informazione ed interazione in modo da affrontare il problema sicurezza scuola in modo globale, cioè visto come la scuola realmente è, quel luogo di incontro intorno al quale tutti ruotano. Principalmente iniziare un percorso di dialogo e interscambio con i vigili del fuoco e con la protezione civile oltre che con gli enti ospedalieri, in modo che la visione del lavoro non sia solo vista attraverso vecchi stereotipi che vedevano alcune professioni quasi esenti da tutti i danni che il mondo del lavoro in generis può presentare.

Un importante aspetto che riguarda la sicurezza ma che presenta ricadute negative sulla didattica è quello delle cosiddette “classi pollaio”; negli ultimi dodici anni gli alunni per classe sono aumentati di più del 20% e ciò sta diventando un vero ostacolo al diritto allo studio e causa di dispersione in età di obbligo scolastico: come si può pensare di riuscire a motivare allievi difficili e a seguirli nel loro percorso quando le classi, soprattutto le prime, sono di 30 e più ragazzi?

E’ bene ricordare la sentenza del Consiglio di Stato del 9.6.2011 che condannava il Ministro Gelmini a mettere in sicurezza le classi e quindi a non formare le stesse con più di 25 allievi, confermando così la sentenza del TAR del Lazio Roma sez. III bis n° 552 del 20/1/2011; il rispetto della sentenza dovrebbe essere il primo passo per l’emanazione da parte del MIUR, come richiesto dalla stessa sentenza, del Piano di Edilizia Scolastica previsto dall’art. 3 del dpr 81/09. Poiché a tutt’oggi non mi sembra che la situazione sia cambiata mi chiedo se il governo italiano è esentato dal rispetto delle leggi!

Che la scuola sia l’ultimo dei pensieri di questo Governo lo dimostrano i continui tagli allo stato sociale e al diritto allo studio, tagli che hanno colpito pesantemente il sostegno depotenziandolo di ben 65.000 docenti col risultato che tanti allievi disabili avranno loro assegnato un docente per sole quattro/cinque ore settimanali!

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SI alla stabilizzazione del personale precario ed all’organico funzionale di istituto e di rete, previa abrogazione dei limiti introdotti con il DL n. 112/08 ed al reclutamento, dopo l’esaurimento delle graduatorie esistenti, sulla base di concorsi trasparenti. NO alle assunzioni per chiamata in deroga alle graduatorie permanenti ed al principio costituzionale del concorso pubblico.
di Valerio Gigante

Quando ho deciso di insegnare l’ho fatto – come credo sia capitato a tanti – soprattutto perché l’esperienza della scuola era stata per me molto significativa. La scuola era stata la prima istituzione educativa diversa dalla famiglia che avevo incontrato nella mia vita. Ed in quel luogo ho imparato un pensiero diverso e più critico rispetto a quello recepito e assorbito nel contesto cui ero sempre vissuto. E a scuola ho incontrato insegnanti che hanno contribuito in maniera determinante alla mia crescita di uomo, ma soprattutto di cittadino.

Speravo quindi di poter essere almeno in minima parte per i miei studenti ciò che alcuni tra i miei insegnanti erano stati per me. È quindi facile immaginare come fosse alta, iniziando la mia prima supplenza, la mia aspettativa rispetto al mondo degli insegnanti. Pensavo di incontrare persone illuminate e disinteressate, comprese e coinvolte nel proprio ruolo, attive e partecipi dei problemi della scuola e della società. È successo. Ma ho incontrato anche moltissimi colleghi disillusi, stanchi, stressati, la cui passione nei confronti di ciò che facevano scemava e tanto più evidente era il loro chiudersi in se stessi, la loro minore volontà di confrontarsi con i colleghi ed all’interno degli organi collegiali, un sempre più spiccato individualismo.

Chiedendomi i motivi di questo fenomeno – e dopo aver decisamente scartato ogni ipotesi nostalgica (con venature reazionarie) del tipo: non c’è più la scuola di una volta, gli insegnanti non vivono più la loro professione come una “missione” (termine molto ambiguo e pericoloso), sono diventati egoisti e venali – ho preso progressivamente coscienza che il processo che aveva condotto a questi risultati era stato lungo ed articolato: c’era dentro lo svuotamento degli organi collegiali, che andava di pari passo alla gerarchizzazione dei ruoli e delle competenze della scuola; la proletarizzazione della professione che induce tanti insegnanti a farsi la guerra per poter ottenere qualche euro in più in busta paga tramite i progetti finanziati con il fondo di istituto o quelli incentivati; l’aumento esponenziale del numero di studenti per classe e le condizioni stesse in cui si svolge il lavoro quotidiano dei docenti. Insomma, tutto l’immiserimento morale, oltre che materiale, vissuto nell’ultimo trentennio e che inevitabilmente si riflette, e si riproduce, in chi nella scuola ci lavora.

Soprattutto, mi sono accorto che ad incidere sulla capacità dei docenti di progettare, discutere, lavorare insieme per una scuola diversa, ciò che impedisce di sentirsi realmente parte di una dimensione collettiva è stata la selvaggia precarizzazione del lavoro. Sapere di poter insegnare per un solo anno scolastico in un istituto, o peggio, per qualche settimana o mese; sapere che questa condizione non è transitoria, ma che si perpetuerà per anni e in qualche caso decenni, impedisce all’insegnante di sentirsi parte di un progetto educativo comune, inserito in un contesto professionale dove le sue qualità possono essere messe a disposizione di un gruppo.

Non riesci invece a progettare una didattica a medio lungo termine, a costruire un vero dialogo educativo con gli studenti che hai di fronte, ad inserirti nel vivo del dibattito della scuola dove lavori, ad occuparti delle questioni didattiche dell’istituto; men che meno di quelle politico-sindacali. Ci si sente come meteore, si vive una perenne condizione di estraneità, di “ultimi arrivati”, di anelli deboli della catena. Si è meno liberi, insomma. Soprattutto, meno liberi di insegnare, come pure garantirebbe l’art. 33 della nostra Costituzione.

Per questo oggi la battaglia contro la precarietà non è solo la sacrosanta battaglia contro una condizione esistenziale – oltre che professionale – che ci viene continuamente gettata addosso; ma è soprattutto, dentro la scuola, l’impegno per un insegnamento di qualità, capace di costruire relazioni qualificanti dal punto di vista didattico, educativo, professionale. Soprattutto oggi che si intende, di fatto, mettere a concorso il turn over. Niente nuovi posti di lavoro; solo il ricambio di chi va in pensione. I posti futuri verrebbero assegnati al 50% ai vincitori del nuovo concorso e al 50% agli aventi diritto secondo le attuali modalità. Meno garanzie ai precari, quindi. Coloro che hanno già vinto il concorso, e sono quindi in graduatoria in attesa che si liberi un posto, vedranno perciò ridurre le proprie possibilità.

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SI alla libertà di insegnamento ed alle forme di autovalutazione e di rendicontazione sociale. NO alle interferenze esterne di aziende private e degli esecutivi locali, regionali e ministeriali ed alle valutazioni condizionanti come i test INVALSI.
di Anna Angelucci

Nel film Monsieur Lazhar, attualmente in distribuzione nelle nostre sale cinematografiche, il protagonista è un uomo in fuga dalla ferocia del terrorismo (ha perso moglie e figli in un attentato), in attesa dello status di “rifugiato politico” in Canada. Insegna in una scuola media di Montreal, dove una docente assai amata e stimata si è impiccata in classe, in un mattino qualunque, poco prima del suono della campanella.

E’ un professore sui generis: privo di qualunque formazione didattica e pedagogica, non conosce e non comprende le regole del politically correct che gli impediscono qualunque contatto fisico con i suoi studenti; vorrebbe parlare con loro della morte della loro insegnante e non può farlo perché la scuola ha affidato questo compito a una psicologa che preferisce rimuovere la violenza di quel gesto; insegna la lingua in modo tradizionale, così come l’ha imparata lui, leggendo, dettando e chiedendo ai suoi studenti di coniugare verbi e scrivere temi, ma sperimentando, al tempo stesso, piccoli espedienti che migliorano l’attività didattica, appresi con l’osservazione attenta del lavoro altrui.

Il suo contegno, il suo portamento, la dignità del suo dolore lo accompagnano in un percorso di conquista empatica della fiducia e dell’affetto dei suoi allievi, profondamente turbati da un’esperienza di sofferenza che ognuno di loro vive in maniera diversa, sommandola alle proprie ferite personali e familiari, e alla quale ciascuno di loro, come può, cerca di dare quel senso che, tuttavia, nella morte non c’è mai.

L’elaborazione profonda e catartica del lutto avviene, la parola e la scrittura realizzano la loro funzione terapeutica sotto lo sguardo attento e partecipe dell’insegnante che vede in quei bambini i suoi figli perduti. Ma Bashir Lazhar perde il lavoro e, con lui, la direttrice della scuola che aveva assunto un “rifugiato politico” e non un “residente stabile“, come specificano quei genitori solerti (sempre professionisti inflessibili e istruiti, nella finzione artistica come nella realtà) che hanno indagato sul passato di un insegnante così “diverso” e che hanno il potere di farlo allontanare dalla scuola.

Ecco, io credo che la vicenda narrata in questo film ci dica più di mille parole cosa significano libertà d’insegnamento e scuola dello Stato: cosa significano, cioè, gli artt. 33 e 34 della nostra Costituzione.
La scuola è certamente il luogo in cui la nostra memoria culturale e storica viene trasmessa alle generazioni successive. Ma è soprattutto il luogo in cui docenti e studenti, insieme, vivono esperienze umane personali, sociali e culturali nella profondità e nella complessità di in una relazione che è affettiva prima ancora che educativa. E’ il luogo della costruzione della nostra identità di cittadini liberi e consapevoli, di individui dotati degli strumenti per esercitare conoscenza, coscienza e pensiero critico nell’interpretazione di noi stessi e del mondo. Di tutto questo solo lo Stato, nelle forme previste dal nostro ordinamento repubblicano, può essere eticamente e giuridicamente garante.

Libertà e responsabilità alimentano costantemente le nostre scelte di docenti nell’esercizio quotidiano della nostra professionalità. Libertà e responsabilità che non possono essere soggette ai vincoli di scelte educative patteggiate e imposte a livello territoriale, che non possono essere mortificate dalla contabilità del mercato locale o dalle mode imperanti del marketing didattico.

In questa cornice, valutazione e autovalutazione costituiscono una pratica di confronto, di riflessione e di autoanalisi, condotta attraverso la discussione e la rielaborazione costante delle nostre attività didattiche e dei nostri comportamenti. Essa si svolge democraticamente, attraverso gli organi collegiali, nella relazione e nel dialogo con tutti i membri dell’istituzione scolastica (docenti, non docenti, dirigenti, studenti, genitori, famiglie) in una dimensione olistica irrinunciabile, ontologicamente antitetica al regime nazionale di test che irragionevoli ministri dell’istruzione e Invalsi ci vogliono imporre.

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SI alla laicità della scuola ed al pluralismo culturale. NO alle ingerenze confessionali ed al preminente ruolo assegnato all’IRC ed a qualsiasi forma di discriminazione per motivi religiosi, razza e lingua.
di Marcello Vigli

Molto opportunamente il SI alla laicità della scuola ed al pluralismo culturale della scuola si coniuga con il NO alle ingerenze confessionali perché in verità nel nostro sistema formativo non si confrontano solo, come in tutti i paesi, orientamenti culturali e modelli educativi diversi, ma due soggetti distinti, Stato e Chiesa, entrambi legittimati dalla Costituzione, pur se implicitamente e a diverso livello, ad assolvere alla funzione educativa. Di qui la necessità che l’impegno per affermare la laicità della scuola statale in contrapposizione alla confessionalità della privata, si coniughi, da un lato, con l’affermarsi della laicità nella scuola dall’altro con la lotta contro i tentativi di confessionalizzarla.

Nella scuola statale, fondamento dei programmi e dell’impianto educativo deve essere, infatti, la cultura della laicità. Insufficiente è parlare di pluralismo culturale quasi che non esista un patrimonio comune al cui interno sono chiamate a confrontarsi le molteplici visioni del mondo e i diversi orientamenti culturali. Tale patrimonio si nutre della cultura della laicità. Questa, a partire dalla consapevolezza della storicità dell’animale uomo, riconduce ogni Assoluto alla fase storica in cui si è affermato e alla fede di chi lo proclama, garantendo il diritto a divulgarne la conoscenza ma senza privilegi e in dialettica con ogni altra visione del mondo. Essa così, oltre a garantire la tolleranza, impone il reciproco riconoscimento delle diverse esperienze culturali, come fondamento insostituibile della convivenza civile. L’affermarsi di tale cultura fa della scuola della Repubblica una scuola radicalmente diversa da quelle fondate sull’ideologia liberale e sulla dottrina fascista ma anche da quelle dichiaratamente confessionali, ponendo le basi per contrastare le strategie per la sua confessionalizzazione.

Parallelo, infatti, al processo di privatizzazione della scuola statale si è sviluppato il processo della sua confessionalizzazione attraverso il progressivo ridimensionamento del carattere facoltativo, che il Nuovo Concordato craxiano aveva attribuito all’insegnamento della religione cattolica nel confermare per lo Stato l’obbligo di mantenerlo. Per i suoi insegnanti, che continuano ad essere selezionati dalla gerarchia ecclesiastica ma pagati allo Stato, è stato per di più costituito un ruolo che nel garantire la permanenza in servizio, fin quando avranno il benestare del vescovo che li ha proposti, ha aumentato la loro influenza all’interno del corpo docente. Anche grazie alla loro intraprendenza, infatti, si sono moltiplicate le occasioni di partecipazione degli studenti a cerimonie religiose dentro e fuori l’edificio scolastico.

Non bisogna ignorare, però, che il rischio viene anche dall’attribuzione della piena autonomia alle singole scuole che tende ad assimilare il sistema scolastico statale a quello confessionale – anche questo negli ultimi decenni ha subito un processo di centralizzazione delle direttive e degli orientamenti pur mantenendo la specificità dei sistemi educativi dei diversi istituti religiosi che le gestiscono – favorendo il prevalere dell’influenza dei gruppi clericali organizzati, come Comunione e Liberazione e l’Opus Dei, che hanno fra i loro obiettivi la conquista dell’egemonia nella scuola statale.

Contro la progressiva integrazione di questi due processi, aziendalizzazione e confessionalizzazione, di cui non c’è traccia nel già asfittico dibattito preelettorale, è necessario che si sviluppi un’azione che affronti la complessità del problema in una prospettiva unitaria.

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Perché una scuola pubblica laica e plurale
di Giancarlo Vitali “Ambrogio” & Stefano Bonaga

La delicatissima questione del finanziamento pubblico delle scuole private è da tempo oggetto di dibattito politico, e riguarda in primis la sua coerenza costituzionale. Ma vorremmo sottolineare qui un aspetto non meno rilevante, e che per lo più è lasciato ai margini della discussione pubblica. Si tratta di ciò che potremmo definire come la posta in gioco della dualità dei modelli – pubblico/privato – in termini di impatto socioformativo.

La scuola privata soprattutto in Italia consolida le identità di censo, di ceto, di cultura e spesso di religione, mentre la scuola pubblica accoglie le specifiche differenze di censo, di ceto, di cultura e di religione in una esperienza comune che permette il loro confronto, scambio, sviluppo e maturazione.

Nel caso peculiare e diffuso delle scuole confessionali, l’assunzione di premesse indisponibili di tipo religioso confligge con l’ autonomia della Ragione nella sua funzione di critica di ogni premessa, che è ciò che distingue il sapere logicoscientifico dal pensiero dogmatico. Ma anche nel caso possibile di programmi laici nelle scuole private, esse rimangono il luogo di incontro di soggetti preselezionati in ragione di identità sociali precostituite, per lo più in base al censo e alle proprietà da esso derivanti.

Solo nella scuola pubblica il povero e il ricco, il bianco e il nero, il figlio di genitori colti e il figlio di genitori non colti, l’abile e il diversamente abile sperimentano l’incontro delle differenze in una comunità che invece di confermarle tende a trasformarle, rendendole fra loro compatibili e fertili in ordine a una vera maturazione civile e culturale.

Dunque la difesa a tutto campo della scuola pubblica non deriva semplicemente o formalmente dalla sua priorità costituzionale, ma è legittimata dalla sua specifica funzione socioeducativa che è tanto più rilevante quanto più la società complessa, differenziandosi, ha bisogno di contrastare lo sparpagliamento individualistico degli interessi costituiti e la resistenza delle identità stratificate verso nuove forme di identità funzionali, duttili, socialmente compatibili e dotate di un alto tasso di capacità cooperative.

L’attacco governativo alla scuola pubblica condotto attraverso un definanziamento inspiegabile dal punto di vista di ogni teoria del superamento della crisi economica, va analizzato anche dal punto di vista di una operazione ideologicamente pericolosa: essa costituisce un attacco reazionario alla mobilità sociale la cui compressione in Italia è rilevata da tutti i parametri internazionali e costituisce uno degli aspetti più retrogadi del nostro paese.

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SI al rafforzamento della democrazia scolastica sia a livello di istituto che nel territorio e nazionale del sistema scolastico statale ed al conseguente ridimensionamento del ruolo del D.S. e del Ministro. NO al processo di aziendalizzazione e di regionalizzazione, governato dai dirigenti scolastici e, con una commistione di ruoli, dagli assessori regionali e dal Ministro.
di Marcello Vigli

Con l’avanzamento della democrazia per la progressiva attuazione dei principi costituzionali nel nostro Paese, con l’avvento dei governi di centrosinistra dopo la svolta degli anni Sessanta e con la nascita della scuola media unica e l’avvio della scolarizzazione di massa, divenne più urgente il problema del governo del sistema scolastico, restato quello centralistico-ministeriale trasmesso al fascismo dallo stato liberale.

Con i cinque decreti delegati, n. 416-420, del maggio 1974 in attuazione della Legge delega del luglio 1973 numerose furono le novità introdotte, in particolare con il DPR 416 furono istituitii gli Organi collegiali per la gestione del sistema a tutti i livelli: Consigli d’Istituto, di distretto, provinciali e, a livello nazionale, un Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione. Nacque quella che fu detta la scuola dei Decreti delegati. Nei Consigli d’Istituto e nei distretti sedevano, oltre a rappresentanti di docenti, studenti e personale amministrativo, anche genitori e rappresentanti “della società civile”.

Ci fu entusiasmo e partecipazione perché, specie a livello di scuola, il sistema funzionò. Ben presto ne emersero i limiti per gli scarsi poteri e risorse a disposizione dei diversi Consigli. Hanno continuato a vivacchiare, finché con l’avvento dell’autonomia delle scuole e la trasformazione in Dirigente scolastico, direttamente dipendente dal Ministero, del Capo d’istituto, che in qualche modo era stato fino ad allora parte del corpo docente, si lasciò alle scuole solo l’autonomia di “arrangiarsi”. Fu finalmente chiaro a tutti che con la concessione dell’autonomia si era in realtà accentuato, come da sempre molti avevamo denunciato, l’accentramento del controllo all’interno di un decentramento puramente amministrativo. Concedendo l’autonomia alle scuole non si era, infatti, concessa l’autonomia al Sistema scolastico. Il Consiglio nazionale della Pubblica istruzione continuava ad essere presieduto dal ministro e aveva solo una funzione consultiva oltre che disciplinare per il personale scolastico. Divenne la sede in cui si intrattenevano i rappresentanti dell’associazionismo e del sindacalismo scolastico.

Una radicale riforma del governo della scuola deve perciò cominciare dalla riscoperta del ruolo che la Costituzione le attribuisce. Il sistema scolastico non costituisce un servizio ad una utenza; esplica invece una funzione istituzionale, sancita dall’art. 33 della Costituzione. Essa è finalizzata alla formazione dei giovani, alla realizzazione della loro personalità, all’acquisizione di competenze per contribuire alla costruzione di una società ordinata e solidale, all’esercizio di una cittadinanza attiva, partecipativa, inclusiva, laica e democratica.

La Scuola della Repubblica deve avere quindi un carattere nazionale ed essere gestita dallo Stato centrale, ma attraverso un sistema di autogoverno, in un articolato intreccio fra autonomia funzionale e autonomia territoriale, caratterizzato da Organi Collegiali autonomi, che interagiscono con le strutture amministrative centrali (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica) e locali (Assessorati regionali, provinciali e comunali).

Il fulcro di tale Sistema, pertanto, deve essere un Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI), sede di elaborazione degli indirizzi culturali, pedagogici e didattici, che interagisce con organi collegiali rivalorizzati, che non rappresenti solo gli operatori scolastici ma sia anche espressione della società civile, del mondo della cultura e interloquisca direttamente con il Parlamento, al quale compete la funzione di dettare le regole esercitando la funzione legislativa, al riparo, però, delle mutevoli maggioranze governative.

A questo nuovo CNPI dovrebbe far capo la definizione degli ordinamenti, dei programmi, dei criteri di reclutamento e formazione dei docenti, dell’obbligo scolastico, mentre la dimensione amministrativa resta affidata la Ministero.

Fondamentale è, infatti, la distinzione tra i ruoli specifici dell’amministrazione scolastica nei vari livelli, garanzia dell’unitarietà del sistema, e la funzione formativa del sistema di istruzione che troverebbe il suo punto di riferimento in questo nuovo CNPI. In questa prospettiva si devono ripensare costituzione e poteri degli OOCC a diverso livello soprattutto del Consiglio di istituto e di conseguenza le attuali figure del Dirigente scolastico e del Dirigente amministrativo.

Solo così si può pensare che si passi dalla Scuola del Ministero alla Scuola della Repubblica, autogestita e fondata su autonomie funzionali che, a integrazione del processo di attuazione delle autonomie territoriali, ponga la partecipazione dei soggetti che vi operano in qualità di cittadini al centro del governo delle istituzioni in cui operano, anche nel sistema formativo.

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SI al mantenimento del valore legale del titolo di studio a garanzia del principio costituzionale dell’uguaglianza e della scuola per tutti. NO alla privatizzazione del sapere che riprodurrebbe le differenze tra le classi sociali e vanificherebbe la funzione istituzionale della scuola statale.
di Marcello Vigli

Fra i “regali” che il governo Monti e il suo ministro all’istruzione Francesco Profumo hanno fatto alla scuola c’è la consultazione pubblica sul tema del valore legale del titolo di studio deliberata il 27 gennaio 2012. Dal 22 marzo, e fino al 24 aprile, è stato avviato il sondaggio internet da parte del Miur. I dati della consultazione non sono ancora consultabili in via ufficiale sul sito del Ministero, ma possono essere esaminati sul sito del Sole 24Ore che ne riporta le risposte a livello nazionale e regionale da cui è possibile capire qual è l’orientamento prevalente sull’abolizione del valore legale del titolo di studio.

Da tale analisi si evince che gli italiani che hanno partecipato al sondaggio sono quantomeno critici nei confronti della proposta implicitamente avanzata dal Governo di abolirlo. L’orientamento risulta confermato da un altro sondaggio, promosso dall’Assemblea Università Bene Comune nato dalla constatazione che le domande del sondaggio del Miur sono complesse e difficili, mirano a far cadere in contraddizione chi vi risponde e in molti casi indirizzano le risposte verso un’unica direzione che mira ad ottenere per il governo un vasto consenso attorno alla cancellazione del valore legale del titolo di studio. I risultati di entrambi i sondaggi, seppure con valori diversi, sembrano, dunque, indicare che una buona percentuale degli italiani tengono ancora al valore della laurea e che la reputano una certificazione importante per affacciarsi sul mercato del lavoro.

A dire il vero l’idea di fondo del Miur era quella di trasformare la consultazione in un percorso, che consentisse al Governo di rilanciare il dibattito sul valore legale del titolo di studio che negli ultimi anni ha coinvolto istituzioni, forze politiche e larghi strati dell’opinione pubblica, a livello nazionale e, prima ancora, europeo.

La questione fu posta già dal 1959 da Luigi Einaudi con una critica radicale alla sua esistenza ben sintetizzata in una delle sue Prediche inutili intitolata Scuola e libertà. Da allora periodicamente Il tema è tornato di moda in momenti diversi ma sempre in una prospettiva critica della funzione della Repubblica nell’ambito della formazione dei cittadini.

Alla sua presenza si attribuiva finanche il nozionismo vigente nella scuola: gli insegnanti sarebbero occupati principalmente a fornire nozioni funzionali al superamento dell’interrogazione al momento degli esami di stato!!!

Di questo dibattito dà conto il Dossier n. 280/2011 su Il valore legale del titolo di studio – Contesto europeo ed elementi di legislazione comparata, pubblicato dal Senato della Repubblica arricchito dall’analisi dei diversi aspetti di una questione che resta complessa, giungendo a darne una definizione di istituto giuridico che va “desunto dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico“.

Da essa emerge in primo luogo la distinzione fra valore scolastico e valore extrascolastico del titolo di studio: nel primo caso consente di regolare i diversi passaggi all’interno del sistema di istruzione ai suoi diversi livelli, elementare medio, universitario, nell’altro diventa necessario per accedere ai concorsi per gli uffici pubblici e agli esami di Stato di abilitazione a diverse professioni.

E’ necessario pertanto aver ben chiaro che la proposta di abolire il valore legale titolo di studio concerne questa seconda funzione, per di più distinguendo se si tratta di accesso alle professioni o inserimento nel pubblico impiego, e che non serve a far chiarezza l’assenza di una disciplina normativa organica dell’istituto.

Schierarsi per la conservazione del valore legale assume quindi una valenza politica come fu chiaro nel dibattito alla Costituente quando si attribuì allo Stato una funzione preminente nei processi formativi finalizzandoli all’interesse collettivo prima che individuale. Hanno il compito di promuovere il formarsi di una società di eguali, condizione prima per un regime democratico. Uguali non si nasce, si diventa acquisendo pari diritti e pari opportunità: il sistema formativo aperto a tutti, anzi in parte obbligatorio, è riconosciuto dalla Costituzione come strumento primario per tale scopo. La frequenza scolastica o universitaria non può certo colmare differenze, per diversi motivi ben radicate, ma garantire pari opportunità con il valore legale del titolo rilasciato al termine dei diversi ordini di studio. Garantisce al tempo stesso a imprenditori privati e uffici pubblici che il candidato al “posto” ha acquisito il livello di formazione corrispondente al titolo acquisito.

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La settimana scolastica

In tutte le regioni italiane le scuole riaprono con i tanti problemi irrisolti e con i rituali disagi di inizio d’anno. Quasi la metà delle scuole pubbliche – 22.858 su circa 42.000 – sono identificate dal Ministero delle Infrastrutture e dalla Protezione Civile come vulnerabili da eventi sismici. Anche l’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) denuncia l’emergenza perenne, confermata da una ennesima tragedia sfiorata alla scuola elementare di Cordenons (Pordenone). A cui si aggiungono altre emergenze: in Emilia nell’area colpita dal sisma 200 plessi scolastici sono parzialmente o totalmente inagibili per circa 60.000 alunni e studenti, i quali dovranno affrontare forti disagi con il nuovo anno scolastico; il sindacato, il ministro promette.

Numerose le cattedre scoperte al suono della campanella, come, per fare qualche esempio su e giù per l’Italia, in provincia di Milano, dove, a fronte di un aumento degli studenti di circa 3000 unità, mancano all’appello almeno 2000 insegnanti; 5.000 docenti mancano in Campania: in particolare a Napoli, dove asili nido e scuole dell’infanzia che ospitano ben 9000 bambini dispongono di 37 incarichi annuali a fronte di un fabbisogno che supera le 300 unità; a Caserta, dove le convocazioni per l’assegnazione delle cattedre residue, non potranno avvenire – è la previsione dello stesso Usp – prima del 18 ottobre. Più tablet e meno insegnanti anche in Sicilia.

E poi bisogna fare i conti con i tagli di risorse che rischiano di compromettere il regolare inizio dell’anno scolastico. Sempre più le scuole pubbliche devono ricorrere alla richiesta di contributi alle famiglie, tanto che Mila Spicola commenta:

“Tempi in cui le scuole dello Stato ormai funzionano con oneri privati e le scuole private con oneri pubblici“.

Infatti, mentre non si lesinano finanziamenti alle scuole private, le scuole pubbliche registrano la mancanza di risorse per le attività extracurricolari, per l’integrazione di allievi stranieri, i tagli al sostegno degli alunni disabili, l’aumento delle tasse universitarie, i tagli alla ricerca, le prevaricazioni contro i docenti precari a Mantova, le disposizioni inserite nella Spending review fortemente penalizzanti per le scuole.

Ad esempio quella per cui i docenti dichiarati per motivi di salute inidonei all’insegnamento e gli ITP (insegnanti tecnico pratici) C999 e C555 saranno adibiti a lavori di segreteria o nei laboratori: il che vuol dire, come osserva Anna Maria Villari, ignorare che

Nelle segreterie delle scuole si svolgono attività molto complesse, anche di carattere amministrativo, si devono conoscere procedure e leggi, basti pensare alla materia pensionistica, ci si occupa di gestione del personale e degli alunni…Per questo lavoro sono richieste competenze e professionalità specifiche. Ora, al posto dei tanti assistenti amministrativi qualificati ma precari che in questi anni hanno coperto i posti vacanti andranno circa tremila ex docenti che, pur armati di tanta buona volontà e voglia di fare, saranno nel migliore dei casi un intralcio al lavoro, anche perché non è prevista per questi alcuna formazione o riconversione professionale.

Per la Uil costringere inidonei e ITP a passaggio ruoli ATA è la peggiore soluzione. Più di 4.000 tra docenti inidonei e Itp c999 e c555 saranno soggetti alla mobilità coatta e 1.000 di essi potrebbero esseri inquadrati in classi inferiori con ricadute sulla progressione di carriera e sullo stipendio. Flc Cgil e Anief minacciano ricorsi.

Intanto arrivano i dati dell’ultimo rapporto Ocse «Education at a glance», secondo cui l’Italia spende per l’istruzione dei suoi cittadini più giovani solo il 9% del totale della spesa pubblica, piazzandosi al 31° posto in una classifica di 32 paesi, contro una media Ocse del 13%. Uno scivolone inevitabile, dopo il calo dal pur modesto 9,8% registrato nel 2000. In termini assoluti, la spesa media per studente in Italia non si discosta molto dai livelli Ocse – 9.055 dollari rispetto ai 9.249 dollari medi – ma è distribuita in modo molto diverso tra i vari gradi di istruzione. Si conferma l’eccellenza nelle prime fasce scolastiche, dall’asilo alle elementari, che ci vede addirittura sopra la media Ocse – pari al 93% e al 97% contro rispettivamente il 66% e l’81% – e si confermano le criticità progressive in quelle superiori, tanto che all’università il differenziale con le altre nazioni industrializzate sfiora i 4.000 dollari – 9.562 euro a fronte dei 13.179 medi.

Il rapporto «Education at a glance» ci dice anche che la percentuale di persone che hanno conseguito una laurea in Italia resta tra le più basse dell’area Ocse, pur essendo cresciuta nell’arco degli ultimi trenta anni: il 15% delle persone tra i 25 e i 64 anni contro il 31% delle nazioni più industrializzate e il 28% della media Ue (in Francia la quota è del 28%, in Gran Bretagna del 38% e in Germania del 27%).

Sotto la media sono anche gli stipendi dei docenti, che in Italia arrivano al top del salario dopo 35 anni di carriera, ovvero alle soglie della pensione. Anche raggiunto l’obiettivo si resta sotto la media dei colleghi esteri: 39.762 dollari in Italia, oltre 45.000 mediamente negli altri paesi. L’Italia è prima imvece per i professori più anziani dell’area Ocse, il 58% di quelli della scuola secondaria ha più di 50 anni, e solo il 10% ne ha meno di 40. Gli insegnanti under 30 sono meno dello 0,5%.

Ma l’anno scolastico 2012-2013 si apre all’insegna dei concorsi. Innanzitutto c’è il concorso per i dirigenti scolastici che, dopo essere stato molto discusso, oggi agonizza e il cui futuro appare ancora incerto, anche a operazioni concluse, per via di contestazioni e ricorsi presentati in molte regioni. Ad esempio in Lombardia il Tar ha accolto il ricorso presentato da un centinaio di aspiranti dirigenti scolastici perché le buste contenenti i dati dei candidati sarebbero state trasparenti tanto da consentire di leggere senza difficoltà i nominativi e non garantire l’anonimato. Col risultato che le immissioni in ruolo dei nuovi dirigenti sono state bloccate, mentre le scuole senza dirigenza in Lombardia quest’anno saranno circa 600.

C’è poi il concorso per reclutare i nuovi docenti: come annunciato dal ministro dell’Istruzione sarà reso pubblico il 24 settembre. Il Ministero ha inviato al CNPI il documento di bozza con la tabella di valutazione titoli e le prove d’esame, di cui si può prendere visione qui. Unanimi le reazioni dei precari della scuola: vedi qui, qui, qui, qui, qui, qui.

Una delle prime questioni che si è posta è stata: che fine faranno i docenti precari già abilitati per aver superato un concorso o per aver frequentato la Siss? “Mai più graduatorie. Da adesso in avanti avremo vincitori pari ai posti disponibili” aveva detto il ministro Profumo a la Repubblica. Unanimi le reazioni dei sindacati. A fronte di tali critiche il ministro è intervenuto per chiarire che

“le attuali graduatorie dei precari della scuola non si toccano: non saranno cancellate e verranno man mano esaurite. Si svuoteranno man mano perché il 50% dei posti sarà coperto attingendo da lì e un altro 50% attraverso il concorso“.

Ma quanti parteciparanno al “concorsone”? Ci ragiona su Salvo Intravaia:

“Secondo il ministero potrebbero essere 300 mila… Ma saranno i requisiti di ammissione a determinarne l’esatto numero. I soli abilitati inclusi nelle graduatorie ad esaurimento sono 200 mila, cui occorre aggiungere gli abilitati negli ultimi concorsi che non hanno intrapreso la carriera del precariato: un numero non facilmente quantificabile. Ci sono poi gli eventuali semplici laureati – per le classi di concorso con pochi abilitati – che potrebbero essere ammessi alle prove.

Solo in Lettere e filosofia, dal 2000 al 2012 si sono laureati… 206 mila studenti. Mentre in Matematica, Fisica e Scienze naturali sono 123 mila i giovani usciti dagli atenei italiani. In tutto, nei 13 anni di vuoto concorsuale, i laureati del vecchio ordinamento e “quinquennali” che l’istruzione universitaria italiana ha partorito ammontano un milione e 560 mila. Pertanto, la platea di interessati potrebbe essere di gran lunga superiore alle 300 mila ipotizzate dal ministero“.

Lo stesso Intravaia calcola che

I posti del concorsone nella scuola, annunciato dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, andranno soprattutto al Sud e alle regioni dell’Italia centrale… Una circostanza confermata dalle cosiddette “cessazioni” – così si chiamano in gergo burocratico i pensionamenti e le altre uscita dal lavoro – relative all’anno scolastico appena trascorso: 11.360 (il 54 per cento) dei 21.094 pensionamenti registrati in Italia nel 2011/2012 sono stati a carico degli insegnanti in servizio nelle otto regioni meridionali.

Quanti saranno i posti disponibili? 11.892 i posti in palio “in tre anni: 6 mila nel 2013, 3 mila nel 2014 e un po’ più di 2.500 nell’anno successivo“. “Meno assunzioni della Gelmini” constata Alessandra Ricciardi in un articolo intitolato “La gara delle beffe“. Già con la media attuale di circa 20.000 assunzioni all’anno, osserva Francesco Scrima, servirebbero vent’anni per svuotare le graduatorie, alle quali già tocca, per legge, il 50% delle disponibilità.

In discussione anche i costi del “concorsone“: come dice Fausto Chiarioni della Flg-Cgil

“In un contesto di spending review prevediamo che costerà tra i 120 e i 240 milioni, spesi in un’operazione di reclutamento numericamente contenuta: è uno spot elettorale, siamo al milione di posti di lavoro di Silvio Berlusconi”.

Altro tema che fa discutere è chi potrà partecipare al concorso. Esso verrà bandito su base regionale esclusivamente per i posti disponibili e avrà durata triennale. Per la scuola media sarà bandito solo per le classi di concorso A028, A030, A033, A043, A059, A245 e A345. Per le scuole superiori sarà bandito nelle classi di concorso A017, A019, A020, A025, A029, A034, A036, A037, A038, A047, A049, A050, A051, A052, A060, A246, A346, C430. Per la scuola primaria e dell’infanzia potranno partecipare alla selezione gli abilitati, i laureati in Scienze della formazione e anche i diplomati entro l’anno scolastico 2001/2002. Per la scuola secondaria di primo e secondo grado, l’accesso alle prove sarà riservato a coloro che sono già in possesso di un’abilitazione all’insegnamento e ai laureati in possesso di un titolo di studio del vecchio ordinamento: conseguito entro l’anno 2001/02, per i corsi di studio quadriennali, 2002/03 per quelli quinquennali e 2003/04 per quelli di sei anni di durata.

Insomma, non è assolutamente un concorso per giovani, per neo-laureati, visto che con questi requisiti l’età media dei partecipanti non sarà inferiore ai 35 anni. I concorrenti saranno al 99% gli stessi che stanno nelle varie graduatorie: al più cambieranno di posizione.

Critiche al concorso emergono anche per le modalità del suo svolgimento:

Emerge con chiarezza la vecchia idea di docente erudito fino all’inversimile (si pensi alle domande poste nei test per l’accesso al cosiddetto TFA), riverniciato con un po’ di informatica e di lingua straniera. Il Test preselettivo, poi, non è finalizzato ad intercettare i migliori, bensì a “scremare” la platea di concorrenti… basta leggere l’ art.23 del CCNL 26-5-1999 (poi ripreso da tutti i contratti successivi) che riportiamo per chi l’avesse dimenticato “il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica“. (Ivana Summa)

Stesso discorso critico va fatto per i TFA, che le università dovrebbero attivare a novembre, per sfornare nuovi abilitati l’estate del 2013, in tempo per partecipare al nuovo concorso che dovrebbe essere indetto la primavera del 2013. Anche in essi l’età media dei partecipanti è di 35 anni. Dopo che gli aspiranti hanno dovuto pagare quote di iscrizione tra i 100 e i 150 euro, si scopre che i quiz sbagliati in un caso su 5, domande assurde, che fanno scrivere a Luciano Canfora:

«È immorale che il destino di persone che hanno studiato per affrontare una prova da cui dipenderà la loro esistenza sia nelle mani di onnipotenti analfabeti».

Bisogna poi parlare, sempre a proposito dei Tfa, di selezioni al limite della credibilità (una media del 70%, con il caso di limite di Psicologia, in cui ha passato il test preselettivo solo il 3% dei partecipanti), il risultato finale che un posto su 5 non sarà coperto. A ottobre si svolgeranno gli orali, chi otterrà la facoltà di iscriversi ai TFA, dopo questa corsa a ostacoli organizzata e gestita male, dovrà pagare una quota intorno ai 2500 euro. Per poi poter lavorare? No: dopo una laurea, una abilitazione, un TFA, solo per avere diritto a partecipare a un concorso…

“La scuola è un disastro, io ci rinuncio” conclude di fronte a questo quadro la scrittrice Silvia Avallone. Comprensibile. Anche se siamo più dell’idea di Giuseppe Zucco:

“Il verbo che non possiamo più permetterci oggi è abdicare. Altrimenti, a furia di rinunciare, spegnendo poco per volta quanto riteniamo prezioso e duraturo, un giorno neanche tanto lontano finiremo per abdicare a noi stessi“.

Test in primo piano anche nelle università, dove vengono impiegati come selezione delle iscrizioni. L’On. Manuela Ghizzoni sceglie il giorno dei test per l’ingresso nel mondo universitario per porre l’accento su un aspetto spesso trascurato:

“I test di ingresso sono la copertura per non risolvere alla radice alcuni i problemi dell’università e scuola. È da quest’ultima, infatti, che dovrebbe arrivare l’indirizzo all’orientamento sulla scelta universitaria”.

Luca Spadon, portavoce di Link Coordinamento universitario, che ha organizzato flash-mob e contestazioni a Roma, Bari, Padova, Milano, Pisa, Siena, constata come

“A fronte di una diminuzione delle immatricolazioni dell’8% nell’ultimo anno e a un tasso di laureati pari solamente al 20% degli studenti universitari, oggi assistiamo ad un aumento ingiustificato dei corsi a numero chiuso. Oramai un corso su due prevede il superamento di test d’ingresso a sbarramento. Ci domandiamo che senso abbia continuare a bloccare l’accesso all’università quando invece gli stessi parametri europei ci impongono di raggiungere il 40% dei laureati entro il 2020″

Flash mob organizzati anche dall’Udu, che con il coordinatore Michele Orezzi dichiara:

“Oggi migliaia di studenti affronteranno i test d’ingresso e solo uno su otto potrà realizzare la propria aspirazione. Non solo non saranno liberi di poter scegliere il loro futuro, per giunta dovranno sostenere una prova che da anni si mostra fallace sia nel metodo che nei contenuti”.

Eppure già nel 2009 il rapporto Eurydice evidenziava che solo l’Italia usa i test per valutare alunni, scuole, docenti e dirigenti e usa il metodo del valore aggiunto.

E ai vecchi problemi già noti, come il blocco degli scatti di anzianità, il mancato riconoscimento dei diritti acquisiti al pensionamento degli insegnanti della classe del 52, quelli della valutazione della ricerca e della valutazione delle scuole, l’avanzata del progetto di legge 953, ex Aprea, se ne aggiungono di nuovi. Una bozza del Decreto Innovazione che sarà messo in calendario per le prossime riunioni del Consiglio dei Ministri prevede che nei piccoli comuni siano abolite scuole e docenti e la didattica sia svolta con l’e-learning «sotto la vigilanza di un tutor nominato dall’istituzione scolastica di riferimento, in locali messi a disposizione dal Comune». Mentre proprio in chiusura di settimana arriva una notizia destinata anch’essa a fare discutere. Diploma a 18 anni e non più a 19, come già annunciato nel gennaio 2012. Secondo indiscrezioni fornite dal Sole24Ore il Ministro starebbe lavorando ad un progetto da portare al Consiglio dei Ministri. Una nuova riforma che inciderà sugli organici: pare che in gioco ci siano altri posti di lavoro: 40.000 cattedre, 40.000 nuovi esuberi. Primi comunicati contrari di Cisl e Anief.

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Mobilitazioni

Il 21 settembre 2012, in tutte le città italiane, la Flc Cgil chiama i lavoratori precari della conoscenza, delle scuole, delle università, degli enti di ricerca, dei conservatori e delle accademie a celebrerare “il giorno del merito“, iniziativa con cui vogliono ricordare i meriti e i diritti acquisiti di un’intera generazione di docenti e ATA, le competenze e le conoscenze, le esperienze e i progetti per una scuola migliore, di qualità: presìdi davanti alle Prefetture e alle Regioni, assemblee aperte, eventi serali.

Il giorno 22 settembre manifestazione nazionale dei Precari uniti contro i tagli. Riunitisi in assemblea nazionale a Roma il 9 settembre, dopo il presidio permanente davanti al Miur iniziato il 4, per protestare contro il concorso annunciato dal consiglio dei Ministri del 24 agosto, i precari chiedono il ritiro del concorso; la restituzione alla scuola delle risorse sottratte con i tagli della Gelmini e il rifinanziamento della scuola stessa; un piano di assunzioni a tempo indeterminato sui posti vacanti e disponibili; il ritiro del pdl 953 (ex Aprea).

Il giorno 23 settembre prima assemblea nazionale a Roma del Coordinamento nazionale per la Scuola della Costituzione, dalle ore 10,30 alle ore 17,30, a Roma alla Sala “Esquilino domani” via Galilei, 53. Sono invitati le forze politiche e sociali, i comitati locali e tutti coloro che sono impegnati nella difesa della scuola della Costituzione. Per adesioni e prenotazione pranzo tel. 3497865685.

Il 28 settembre i comparti università, ricerca e AFAM sciopereranno insieme alle categorie del pubblico impiego (parteciperanno allo sciopero del pubblico impiego proclamato dalle categorie) di CGIL e Uil.

Il 12 ottobre gli studenti universitari manifesteranno contro il numero chiuso e ogni barriera all’accesso all’università e contro gli aumenti delle tasse universitarie. La data, lanciata dall’Unione degli studenti, ha raccolto le adesioni di altre associazioni universitarie come Link e Rete della Conoscenza.

Il 20 ottobre la FLC CGIL organizza una grande manifestazione nazionale di tutti i comparti della conoscenza, con sciopero della scuola, su una piattaforma che mette insieme conoscenza, lavoro e diritti “per ridare prima di tutto alle nuove generazioni la possibilità di uscire dalla disperazione della precarietà esistenziale“.

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Le puntate precedenti di vivalascuola qui.

Su ReteScuole gli effetti della spending review sulla scuola.

Su ForumScuole tutti i tagli all’istruzione per il 2012.

Su ReteScuole le iniziative legislative dell’estate 2012 del governo che riguardano la scuola. Su PavoneRisorse una approfondita analisi delle ricadute sulla scuola della finanziaria di agosto 2011.

Tutte le “riforme” del ministro Gelmini.

Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.

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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.

Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.

Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Unicobas, Anief, Gilda, Cub.

Finestre sulla scuola: ScuolaOggi, OrizzonteScuola, Aetnanet. Fuoriregistro…

Spazi in rete sulla scuola qui.

(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Giorgio Morale, Roberto Plevano)

vIVA LA SCUOLA,DIeci e una volta: buon anno scolastico!ultima modifica: 2012-09-22T16:04:56+02:00da mangano1
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