Matteo Rapalli, A proposito del giorno della memoria

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Quando il Giorno della memoria venne istituito, il dibattito attorno alla sua necessità verteva sul bisogno vitale per uno Stato, di tramandare ai suoi figli il ricordo di eventi che avevano nel passato segnato le coscienze di un’intera generazione; per preservare i cittadini dalla possibilità di ricadere in errori tanto inconcepibili quanto possibili. Ma le persone, i cittadini di uno stato, possono condividere una memoria comune? Nell’operazione di sintesi storica che l’istituzione deve necessariamente fare, si costruisce la cultura della nazione, ma quanta umanità si perde? Senza quell’umanità si tramandano fatti, eventi, immagini, parole che si trasformano inesorabilmente in slogan o icone, in immagini astratte o tabù; mentre i sensi e il senso di cui è intrisa quella memoria sbiadiscono con il passare degli anni, le persone diventano personaggi e si allontanano da noi. Gli eroi, sui loro piedistalli sono al riparo dall’oblio ma definitivamente alieni dalla nostra vita.Unknown-1.jpeg

Chi non ha vissuto la guerra ma è stato bambino in uno dei tre decenni successivi come noi, si è sentito ripetere infinite volte le stesse cose. E’ cresciuto all’ombra di miti e tabù.
Il mito dei radiosi combattenti con il fazzoletto rosso, sorridenti sotto la benevola luce del sole dell’avvenire. Tutti giovani e belli con il loro Sten a tracolla.
Dall’altra parte il tabù: l’abisso dell’indicibile.
A smascherare la retorica degli eroi, arriva un piemontese di Alba, Beppe Fenoglio, che dalle pagine di un libro ci racconta di come facesse freddo dietro al suo cespuglio, di come ci si lavasse poco; di come le persone fossero deboli, della paura, e delle miserie, di come sole e pioggia si alternassero, e di come fossero diverse le persone, di quanto fosse più complicato fare la scelta di salire in montagna e di quanto il mondo non si sia mai diviso tra buoni e cattivi.
Ma far scendere gli eroi dal piedistallo e invitarli a mangiare a casa nostra, a fare due chiacchiere, è piacevole, semplice, addirittura necessario. Come ritrovare qualcuno che non conoscevamo e del quale arrivavano notizie passate tra troppe bocche; lo facciamo accomodare e non vediamo l’ora che cominci a raccontare. Dopo un po’ ci sembra di conoscerlo.

Dall’altra parte sentiamo la minaccia di un abisso così profondo che non si può guardare. Così buio che fa male agli occhi. Costellato di fugaci immagini in bianco e nero impresse sulla retina prima che gli occhi per difendersi, si chiudessero istintivamente; di esseri umani straziati, cadaveri, inaudite efferatezze, foto sgranate di un orrore a cui si stenta a credere. Di dimensioni tali che sfugge alla comprensione. Che negli occhi di un bambino degli anni settanta, ancora impreparato, non trovano posto. Vengono ingoiate tappandosi il naso, per farle sparire. Diventano paure, traumi. Orrore e repulsione. Tabù.
Le vertiginose profondità in cui si sono conficcati non permettono neanche di riconoscerli. Sono cose di cui non si parla. Non c’è niente altro da dire. Fanno paura. Sono stati inculcati con la forza morale del dovere del ricordo nella nostra coscienza, li abbiamo subiti a scuola e li evitiamo per istinto di conservazione. E intorno, ci siamo adeguati all’imbarazzo, al ritegno, al pudore che accompagna certi discorsi. Ci stavamo abituando alla contrizione rituale delle celebrazioni che si sostituisce lentamente allo smarrimento. Uno schema rigido che divide nettamente il campo tra buoni e cattivi, in cui non c’è alcuno spazio per la “zona grigia”, incanala le nostre emozioni verso uno sfogo che intacca appena la superficie della coscienza.

Poi abbiamo scoperto un altro piemontese, di Torino. Primo Levi.
Un uomo che con la sua voce bassa e risoluta ci ha raccontato la sua esperienza. Ci ha accompagnato laggiù e ci ha tenuto per mano mentre ci mostrava tutto. Abbiamo potuto vedere solo perché stavamo guardando lui, ascoltavamo le sue parole che ci traducevano quello che i suoi sensi percepivano. Abbiamo imparato a conoscerlo. Attraverso le sue parole si è creata tra di noi un legame intimo, sentimentale. Ce ne siamo accorti quando abbiamo visto per la prima volta delle immagini di repertorio che lo ritraevano in una strada della sua città. Quell’uomo, quel volto, erano così familiari, vicini, da sentirne la mancanza.
Pare che la Memoria Collettiva debba essere rinfrescata, rivitalizzata, resa attuale per le nuove generazioni, per non correre il rischio di dimenticare; è sicuramente vero. La cosa si può fare in tanti modi. Noi abbiamo pensato di riconnetterci ad una persona che amiamo e alla sua voce. Perché solo così siamo al riparo da quegli errori che la memoria compie, per la sua natura fallace, possiamo conoscere l’unica verità indiscutibile,quella dello scrittore. Una verità indiscutibile perché non pretende di essere condivisa, solo di essere conosciuta. Magari intorno ad un tavolo, a casa, parlando, tra amici.

Matteo Rapalli, A proposito del giorno della memoriaultima modifica: 2012-11-07T14:43:30+01:00da mangano1
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