feder la sala,EMERGENZA CULTURA: STATI GENERALI A ROMA IL 15 …

eMERGENZA CULTURA: STATI GENERALI A ROMA IL 15  …

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ITALIA (1994-2012): CULTURA, L’EMERGENZA DIMENTICATA DEL PAESE…
STATI GENERALI DELLA CULTURA: CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER LA COSTITUENTE (MA NELLA CHIAREZZA, PER CARITA’). Testi dell’iniziativa del Sole-24 Ore, con alcune note
È il momento degli Stati Generali della Cultura per tirare le fila, con l’intervento del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del Manifesto lanciato dal Sole 24 Ore il 19 febbraio scorso «per una Costituente della cultura». Sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, sono organizzati da Sole 24 Ore, Accademia dei Lincei e Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, e si terranno a Roma al Teatro Eliseo, il 15 novembre, alle 11. Introdurrà i lavori Giuliano Amato.

a c. di Federico La Sala
ITALIA (1994-2012): LA MISERIA DELLA CULTURA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO. Note di premessa sul tema:

L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Europa. Italia, 2008 …..
NUOVO GOVERNO. FEDELTA’ ALLA REPUBBLICA E ALLA COSTITUZIONE. Giuramento di Berlusconi, Bossi e tutti gli altri Ministri. In Parlamento un solo partito e un solo urlo: “Forza Italia”!!!
L’ITALIA (1994-2012), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA “PAROLA”, E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE “FORZA ITALIA”.
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI … (Federico La Sala)

Con Napolitano per la Costituente *
È il momento degli Stati Generali della Cultura per tirare le fila, con l’intervento del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del Manifesto lanciato dal Sole 24 Ore il 19 febbraio scorso «per una Costituente della cultura». Sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, sono organizzati da Sole 24 Ore, Accademia dei Lincei e Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, e si terranno a Roma al Teatro Eliseo, il 15 novembre, alle 11. Introdurrà i lavori Giuliano Amato.
Seguiranno un cortometraggio di Vincenzo Cerami («Appunti per un film sulla rinascita italiana») e la tavola rotonda «Cultura, l’emergenza dimenticata del Paese», introdotta e moderata dal direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, che presenterà l’«Indice24» della cultura (di cui Pier Luigi Sacco in questa pagina e Fabrizio Galimberti all’interno anticipano i contenuti), con le indicazioni economiche sul quadro competitivo globale e sulle possibilità concrete di sviluppo senza fondi pubblici dell’industria culturale italiana. Intervengono i ministri Fabrizio Barca, Lorenzo Ornaghi e Francesco Profumo, e Ilaria Borletti Buitoni, Ilaria Capua, Andrea Carandini, Lamberto Maffei, Carlo Ossola.
L’intervento del presidente della Repubblica chiuderà la mattinata. Nella sessione pomeridiana, «Fare economia della cultura. Idee e proposte», moderata dal responsabile della «Domenica» Armando Massarenti, intervengono Alessandro Laterza, Emmanuele Emanuele, Pier Luigi Sacco, Roberto Grossi, Antonio Cognata, Paolo Galluzzi, Gabriella Belli, Walter Santagata, Massimo Monaci, Guido Guerzoni, Alberto Melloni. Le conclusioni sono affidate al ministro Corrado Passera.

  Per partecipare è necessario registrarsi online entro le ore 12 del 14 novembre nel sito

  L’evento verrà trasmesso in diretta streaming

  e potrà essere seguito su twitter: #SGCultura12
* Il Sole-24 Ore, 11.11.2012

La “Costituente” per la cultura * *
1 Una costituente per la cultura
Cultura e ricerca sono capisaldi della nostra Carta fondamentale. L’articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi economico. Niente cultura, niente sviluppo. “Cultura” significa educazione, ricerca, conoscenza; “sviluppo” anche tutela del paesaggio.
2 Strategie di lungo periodo
Se vogliamo ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un’idea di cultura sopra le macerie che somigliano a quelle su cui è nato il risveglio dell’Italia nel dopoguerra, dobbiamo pensare a un’ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione delle culture, puntando sulla capacità di guidare il cambiamento. Cultura e ricerca innescano l’innovazione, e creano occupazione, producono progresso e sviluppo.
3 Cooperazione tra i ministeri
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte del Governo, significa che strategia e scelte operative devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il premier. Il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in coordinazione con quelli dell’Ambiente e del Turismo.
4 L’arte a scuola e la cultura scientifica
L’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’Università, lo studio dell’arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per il futuro. Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell’arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, ma anche assecondare la creatività.
5 Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale
Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i cittadini all’accettazione di regole per la valutazione di ricercatori e progetti di studio. La complementarità pubblico/privato, che implica l’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa. Provvedimenti legislativi a sostegno dei privati vanno sostenuti con sgravi fiscali: queste misure presentano anche equità fiscale.
* Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2012

23.17
Titolo:Da “la cultura non si mangia” a “la cultura si mangia eccome”!!!
Un dubbio manifesto: la cultura della Domenica

di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 09.03.2012)

Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).

Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa. Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.

Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.

È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.

È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.

È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».

Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.

Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.

Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.

È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.

Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.

Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».

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