Francesco Bochicchio ,Il liberismo è di sinistra?

7578a7e1f69fcf5dcb6e534cc83d2683.jpgI1 recentissimo, già famoso e recensito in tutti i principali quotidiani ancorché in commercio solo da poche settimane, libro di Francesco Giavazzi ed Alberto Alessina (Il liberismo è di sinistra, Milano, 2007, d’ora in avanti, anche il “libro 1 “) è uno scritto fondamentale teso a segnare il dibattito in materia economica ed anche politica.. I due illustri autori, notissimi accademici – in Italia e negli Stati Uniti d’America – in materia economica e conosciuti anche al pubblico non specializzato in virtù di importanti articoli sulla stampa quotidiana, hanno manifestato in maniera organica il loro pensiero in materia di impronta da fornire al governo dell’economia, raccogliendo tesi da tempo sviluppate e fornendo alle stesse un quadro di riferimento unitario: nel contempo, hanno utilizzato uno stile di agevole lettura e plastico, in grado di unire tra di loro idonei¬tà alla pronta comprensione da un lato e dall’altro particolare efficacia dialettica e di “vis polemica”.Il libro riesce ad essere semplice, in quanto comprensibile ai più, ma non per questo meno complesso per la profondità degli argomenti utilizzati e delle tesi sviluppate.Dietro a tutte le tesi sviluppate vi è un ragionamento raffinato ed approfondito, di cui peraltro non si manifestano sempre tutte le articolazioni, per non appesantire il discorso: il libro qui¬di deve essere analizzato unitamente all’altro, di poco precedente, dei due autori (Goodbye Europa, Milano, 2006, che pertanto viene qui denominato il “libro 2”, non a caso citato espressamente a pagg. 13-14 del libro 1 ), dove è sviluppato il “background” del pensiero dei due autori.Ma l’importanza del libro è conferita non solo dal valore intrin¬seco delle tesi sviluppate, ma anche dalla circostanza che il pensiero dei due autori costituisce la compiuta “summa” di quello che si presenta quale orientamento culturale domi¬nante in Italia, che propugna l’adesione incondizionata al pensiero liberale, nella sua più schietta derivazione liberista, considerato quale presupposto necessario anche per qualsivo-glia politica di sinistra, orientamento dominante che, sia ben chiaro, è ben lungi dall’essersi realizzato in Italia ma che raccoglie il supporto di chi eserci¬ta l’egemonia culturale, la corrente riformista dello schieramento di Centro Sinistra, la Confindustria e quel variegato e raffinato movimento di opinione della borghesia illuminata articolato intorno a “Il Corriere della Sera” e pertanto è plausibile che guiderà la politica italiana nel prossimo ventennio. Sia ben chiaro, il collegamento sopra evidenziato tra le tesi dei due autori e il pensiero domi¬nante in Italia – che si può definire senza forzatura quale “pensiero unico”, visto che ogni forma di opposizione viene taccia¬ta quale “conservatrice” e “corporativa” -, intende per niente affatto sottendere che i due sia¬no espressione di movimento di culturale e di interessi (il che tra l’altro non legittimerebbe a gridare allo scandalo, in quanto fenomeno normale in un paese pluralistico), ma al contrario manifestare che i due autori – la cui indipendenza, notoria, non merita discussione, e non è un caso che Giavazzi, in tempi estremamente recenti, abbia manifestato il consenso a tassazioni di rendite finanziarie sgra¬dite al blocco sociale favorevole alle tesi manifestate nei due libri – sono provvisti di un’autorevolezza tale da consentire loro di essere gli elaboratori del pensiero guida di tale movimento.La tesi del libro 1 è che il libero mercato e esclusivamente il li¬bero mercato costituisce non so¬lo uno strumento insostituibile di efficienza ma anche la condi¬zione essenziale per favorire il merito invece che il censo e per ridurre le aree di povertà e tale tesi viene articolata in diverse specificazioni:-le tasse devono essere ridotte immediatamente, senza aspet¬tare la decurtazione della spesa pubblica, ma quale condizione necessaria per tale decurtazio¬ne, resa necessaria dal venir meno per lo Stato di propria fonte considerevole;-la spesa pubblica è solo raramente suscettibile di utilizzo in senso sociale, come dimostrato dal ridottissimo numero di famiglie povere beneficiate dalla spesa pubblica, anche nei paesi dalla spesa pubblica cospicua;-in particolare, il lavoro pubblico improduttivo deve essere ridotto considerevolmente, mentre per le pensioni occorre passare ad un sistema di accantonamento parziale e continuativo del proprio reddito con gestio¬ne dei risultati di tale accantona¬mento e con sistemi di controllo sulla gestione e di incentivi per le pensioni minime;-l’unica forma di spesa pubbli¬ca da utilizzare è quella per far fronte ai costi sociali tempora¬nei delle riforme da introdurre in relazione ai punti in esame;-l’unico modo per porre gli studi anche avanzati a disposizione dei meritevoli non abbienti è costituito dal collocare gli oneri degli studi a carico solo di chi ne usufruisce, con benefici ed esenzioni a favore degli stessi meritevoli non abbienti;-l’efficienza degli studi anche avanzati va perseguita con liberalizzazioni e incentivi economici a favore di istituti e docenti meritevoli, senza fondi pubblici;-la liberalizzazione dei mercati favorisce gli utenti e quindi in particolare gli utenti economi¬camente più deboli;-la liberalizzazione deve investire anche il mercato del lavo¬ro, in quanto vincoli troppo rigi¬di quale quelli per lo sciogli¬mento del contratto di lavoro di¬pendente a tempo indetermina¬to finiscono per porre remore all’impresa nell’assunzione e quindi favoriscono la diffusio¬ne del precariato tra chi deve en¬trare nel mercato del lavoro a fa¬vore di chi già è al di dentro del¬ lo stesso.Un’analisi critica di un pensie¬ro così complesso ed articola¬to, in termini come detto evi¬dentemente organici e coerenti, richiede peraltro di affronta¬re preliminarmente il principio base di tutto il pensiero, sia nel¬la sua unità sia nei vari punti in cui si articola: il principio base è costituito da come gli aa. risol¬vono il rapporto tra povertà ed uguaglianza.E’ bene lasciare la parola agli autori, libro 1, pag. 61 : “Confrontate due economie: una che cresce di più ma in cui le differenze tra poveri e ricchi aumen¬tano; un’altra che cresce di me¬no e in cui i poveri sono più poveri rispetto alla prima, ma le differenze fra ricchi e poveri so¬no minori. Quale delle due è preferibile? A noi sembra la pri¬ma (N.B.: nel testo è scritto “la seconda”, e si tratta evidente¬mente di mero refuso di battitura). Invece spesso nell’immagi¬nario comune povertà e disu¬guaglianza vengono confuse. E’ vero che spesso maggiore di¬suguaglianza significa anche maggiore povertà, ma non sempre, e soprattutto, non in economie che crescono molto e nelle quali tutti, sia i poveri sia i ricchi, migliorano la loro posizio¬ne”.In sostanza, si può sintetizzare che la disuguaglianza non è un male se migliorano le condizioni (di tutti e quindi anche) dei poveri, il che si realizza in un sistema liberistico. Per comple¬tezza, a pag. 24 (sempre nel li¬bro 1) sembrerebbe esservi uno spunto nel considerare la disu¬guaglianza di per sé un male , ma che viene dopo poche righe immediatamente reso privo di sviluppi, ritenendo la stessa ine¬vitabile alla luce dei cambia¬menti economici. Su tale punto, il dissenso è totale: in tanto la tesi degli autori sarebbe fondata solo in quanto, a fronte della disuguaglianza cre¬ata nei Paesi europei dopo gli anni ’70, con il ridimensiona¬mento dello stato sociale e del potere dei sindacati e quindi con l’attuazione, radicale in Gran Bretagna – e sia il libro 1, pag. 52, pag. 92 “Se Margharet Thatcher si fosse comportata come Prodi, oggi l’Inghilterra sarebbe un Paese in costante de¬clino”, pag. 116, sia il libro 2, pag. 208, riconoscono espressa¬mente che il liberismo “thatcheriano” ha salvato tale Paese dalla decadenza assoluta – e meno accentuata nei Paesi continenta¬li, delle misure liberiste vaticinate dagli aa., il potere d’acquisto degli operai e degli impiegti di più basso livello fosse non diminuito.Che tale condizione si sia effettivamente realizzata appare un azzardo.Che lo sviluppo economico rea¬lizzato in un’ottica liberistica e quindi di radicalizzazione del¬la disuguaglianza possa ridurre il numero delle famiglie real¬mente indigenti, vale a dire non in grado di sostenersi a livelli minimamente dignitosi può an¬che essere ammesso, ma ben di¬versa è la condizione dell’insie¬me dei ceti bassi e medio-bassi, condizione che è di converso in¬dubbiamente peggiorata. La maggiore disuguaglianza comporta, a differenza di quan¬to sostenuto dagli autori, mag¬giore povertà complessiva. Ma non solo: analisi articolate e documentate hanno dimostrato che, oltre ai ceti bassi e medio-bassi , anche il ceto medio è in profonda crisi con l’idonei¬tà della società liberista a soddi¬sfare le esigenze di certezza di tale ceto (Massimo Gaggi-Edo¬ardo Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Torino, 2006, pur fa¬vorevoli ad un’ottica liberistica che porta ad un consumismo spinto, in termini peraltro critici, a pag. 135 si parla di “totali¬tarismo consumistico”, sosteni¬tori della necessità dell’introduzione di elementi di “neo uma¬nesimo”, vale adire della necessità di un’umanizzazione, sem¬pre pag. 135). Sul punto si è consapevoli che le statistiche economiche elabo¬rate dagli economisti sembra¬no condurre a risultati diversi. Ed infatti, secondo la relazione tra disuguaglianza e crescita economica postulata da Kuz-nets, nelle fasi iniziali ed inter¬medie dello sviluppo di un Pae¬se, al crescere del reddito me¬dio pro-capite cresce anche la disuguaglianza, secondo l’as¬sunto degli autori in esame. Tuttavia il modello di Kuznets prevede anche che con il reddi¬to “pro-capite” stabilizzato a li¬velli elevati (com’è il caso di Usa ed Europa) programmi di “welfare” più generosi e politi¬che redistributive tendano a fa¬re decrescere la diseguaglian¬za. Questa seconda “gamba” della bell curve di Kuznets, che sembrerebbe pertinente allo sta¬dio di sviluppo anche dell’Ita¬lia, contraddirebbe l’ipotesi de¬gli autori.Più di recente, in un studio em¬pirico del 2001 del “World Institute for Development Economics Research” (G.A Cornia, J.Court, “Inequality, Growth and Poverty in the Era of Libe-ralization and Globalization”), si è mostrato che sia un eccesso di eguaglianza (indice Gini in¬feriore a 0,25) sia un eccesso di disuguaglianza (indice Gini su¬periore a 0,40) tendono a frena¬re la crescita economica. Poi¬ché l’Italia si colloca rispetto a questi estremi ancora in posi¬zione intermedia (indice Gini: 0,35-0,39), non si può conclu¬dere né che in Italia vi sia un ec¬cesso di eguaglianza (che è una possibile interpretazione di quanto sostenuto dagli autori), né che vi è un eccesso di diseguaglianza (il che confutereb¬be chiaramente l’affermazione degli autori). Anche se, dati al¬la mano, l’Italia sembrerebbe vi¬cina più alla seconda che alla prima situazione. Peraltro, per correttezza, le sta¬tistiche confermano che, come assumono gli autori, non si può affermare che, soprattutto in si¬tuazioni di (persistente) cresci¬ta economica, l’aumento della disuguaglianza si associ ad un impoverimento assoluto delle fasce meno abbienti di popola¬zione. Negli Stati Uniti ad esempio il reddito per famiglia (tra il 1967 ed il 2003) è cresciu¬to per tutti i percentili di reddi¬to.Peraltro, ciò non induce a modi¬ficare le conclusioni di cui so¬pra: tali statistiche, certamente importanti, non si rivelano omogenee rispetto all’oggetto della discussione: le statistiche non ci dicono se, in virtù dell’in¬troduzione di elementi di liberi¬smo rispetto al vituperato (da¬gli autori, certamente non da chi scrive) modello socialde¬mocratico, la povertà dei ceti bassi e medio-bassi deboli (non di quelli posti all’estremo livello di povertà) sia diminui¬to o aumentato. Il confronto sta¬tistico pertinente sarebbe, per esempio, quello tra il livello medio del reddito effettivo (va¬le a dire del potere d’acquisto) della classe operaia prima della “cura “Thatcher” – cura citata in chiave esemplare dagli auto¬ri, come visto – e dopo, a parità ovviamente di livello di occu¬pazione.In mancanza di tali dati, si con¬ferma la propria opinione, che sarà confermata da un esame del contesto generale derivante dalle modifiche liberiste, che come si vedrà si collocano in un’ottica di mancata tutela della stabilità del lavoro e, conte¬stualmente, in una concorrenza tra occupati e non occupati ed in una riduzione delle tutele complessive del singolo lavora¬tore di fronte all’imprenditore, hi definitiva, sul punto, che è di valenza generale, un’ottica libe¬ristica porta ad una società me-ritocratica, il che di per sé total¬mente positivo ed efficacemen¬te gli aa. evidenziano che senza meritocrazia si arriva ad una si¬tuazione che danneggia i meno abbienti, in quanto , in Italia, “Bandito il criterio del merito, i figli di notai, ingegneri, medi¬ci, avvocati e professori univer¬sitari sono diventati a loro volta notai,ingeneri,medici, avvoca¬ti e professori universitari. Più di quanto non accadesse primadel 1967”, libro 1, pag. 31. Più in generale, del tutto condi¬visibile è il loro assunto che la società capitalistica ha fatto in modo che la divisione in classi non sia cristallizzata e che vi sia un forte dinamismo, per cui i meno abbienti possono arric¬chirsi (libro 2, pag.38, “Il marxismo deve per forza parti¬re dalla presupposto dell’immo¬bilità sociale per giustificare il concetto di ‘classe’. Altrimenti uno dei suoi assunti di base crol¬lerebbe”). Ma la divisione in classi rimane e le classi meno abbienti si impoveriscono. Per¬ tanto, l’assunto base degli auto¬ri che, in una società liberistica, aumenta la disuguaglianza ma non la povertà è del tutto confu¬tabile e quindi il liberismo effi¬cacemente propugnato dagli aa. perde irrimediabilmente qualsivoglia connotato di sini¬stra. E la proposta degli autori, secondo cui “La povertà e suc¬cessiva disuguaglianza (soprat¬tutto la prima) vanno mitigatecon un sistema di trasferimenti e di protezione sociale effica¬ci”, libro 1, pag 24, ma il ragionamento articolato ter¬mina a pag. 25, non solo è timi¬da ma è del tutto inefficace ri¬spetto allo scopo, in quanto co¬me visto diretta solo a interveni¬re a favore delle punte estreme di povertà, senza preoccuparsi dei tutti i ceti bassi e medio bas¬si ed addirittura, come visto, an¬che medi “tout court”. Più in generale ancora, la criti¬ca che gli autori conducono serratamente al marxismo, la cui diffusione in Europa è conside¬rata uno dei principali ostacoli all’affermarsi di una società li¬berista, è efficace ma parziale. E’ vero, l’evoluzione del capita¬lismo ha contraddetto sul pun¬to il marxismo : ma mai il marxi¬smo ha considerato la cristalliz¬zazione un elemento essenzia¬le della classe, tanto è vero che il terzo libro del Capitale vede quale sbocco del capitalismo, tale da provocare l’emergere di una situazione rivoluzionaria, la “proletarizzazione” del ceto medio ed è pacifico, riconosciu¬to anche da autori non marxisti, anzi di schietta impronta liberi¬sta, come i due autori sopra cita¬ti, che il ceto medio è in situa¬zione di profonda crisi – che ad¬dirittura i due autori sopra citati ritengono dallo sbocco radica¬le, quale “fine” – : la crisi del ce¬to medio conferma l’attualità dell’analisi di classe di Marx, pur se la sua conclusione della “proletarizzazione” non si è av¬verata, lasciando il posto ad un’ articolazione di classe ben più complessa. Ma la circostanza che il ceto medio non rappre¬senta l’elemento portante della società conferma l’attualità di Marx e la sussistenza di una struttura di classe nella sostan¬za bipolare, anche se la bipolarità si è indirizzata in senso pro¬fondamente diverso, vale a dire nel senso di mancato monoliti-smo dei ceti non alti, da quello previsto da Marx. La struttura di classe è bilatera¬le, nel senso di sussistenza di due blocchi, ciascuno dei quali articolato al proprio interno, ma tra loro profondamente dif¬ferenziati per la partecipazione solo di uno dei due blocchi al plusvalore creato dal processo di produzione.L’errore del marxismo è stato quello di individuare il dinami¬smo sociale solo in senso di blocchi e non individuale, men¬tre lo sviluppo del capitalismo ha creato un vero dinamismo a livello individuale, il che ha de¬terminato a propria volta la mancanza della coscienza di classe del proletariato (che, in mancanza dei presupposti oggettivi, non può certamente es¬sere introdotta coercitivamente dal partito di stampo leninista, come individuò lucidamente G. Lukacs e come più sistemati¬camente ben prima teorizzò R. Luxemburg) e, conseguentemente, l’impossibilità della classe operaia di diventare clas¬se generale e quindi di modifi¬care i rapporti sociali ormai per sé stretti: classe generale è rima¬sta quella capitalistica, che ha addirittura accentuato tale pro¬pria natura, attirando al proprio modello i ceti poveri, i cui ap¬partenenti hanno la possibilità di arricchirsi e di (entrare a) far parte della classe generale. La struttura di classe sussiste tuttora e le classi meno favorite vedono peggiorare la loro situa¬zione, anche se i singoli appar¬tenenti a queste ultime possono elevarsi socialmente e passare a classi superiori. Che all’interno della classe ca¬pitalistica non vi sia stata la con-centrazione tale da eliminare o comunque ridurre ai margini la piccola e media impresa non si rivela decisivo: ed è qui che si pone un’articolazione di classe all’interno della classe capitali¬stica, che dimostra e conferma la centralità di tale classe, in grado di dominare la società proprio in virtù di tale articola¬zione e del conseguente dinami¬smo; articolazione di classe che non infirma la divisione in classe, ma che confuta solo l’ir¬reversibile spostamento a sfa¬vore del proletariato e più in ge¬nere dei ceti bassi e medio-bas¬si. La lotta di classe sussiste nel¬la propria radicalità, come com¬preso da Marx. La classe gene¬rale è quella non proletaria, ma capitalistica ed è qui che Marx ha fallito ed è qui che bisogna elaborare una revisione profon¬da.Ripeto e ribadisco: il liberismo non è di sinistra, è e resta irrime¬diabilmente di destra – ciò sen¬za trascurare che gli autori so¬no sinceramente illuminati e ta¬li da non trascurare l’aspetto so¬ciale.Ma sul punto, che è centrale, il dissenso nei confronti degli aa. acquisisce valenza più genera¬le.La tesi che il liberismo aumen¬ta la disuguaglianza ma non la povertà e che la fortuna delle punte più avanzate nella socie¬tà alla fine aumenta il benesse¬re generale non è nuova, ma è addirittura ottocentesca, è pro¬pria del “capitalismo manchesteriano”, secondo cui l’accu¬mulazione capitalistica avreb¬be in un primo tempo portato beneficio solo ai detentori del capitale e poi un secondo tem¬po a favore dell’intera società. Leggendo il libro (il libro 1, s’in¬tende), ci si rende conto di un paradosso: 150 anni di storia so¬no miracolosamente azzerati e si intende ritornare gioiosamen¬te al primo capitalismo, libero di lacci e laccio li di qualsiasi ti¬po.E’ chiaro che in tal modo non si comprende la ragione non solo per cui è stata necessaria a suo tempo l’introduzione di tali li¬miti in un ottica sociale, ma an¬che per cui siano sorti da un la¬to movimenti radicali di opposizione rivoluzionaria al sistema, che hanno prodotto forme di Stato e economico-sociali alter¬native, nonché dall’altro tipolo¬gie reazionarie ed antidemocra-tiche di sistemi capitalistici, movimenti e tipologie che a propria volta addirittura hanno provocato nel loro insieme ri¬sposte tradottesi nell’intensifi¬cazione dei sopra citati limiti sociali.In definitiva, si vagheggia il ri¬torno ad un sistema capitalisti¬co perfetto, forse esistito solo sui testi, trascurando che “me¬dio tempre” si sono prodotti fe¬nomeni sociali che hanno mo¬strato l’esistenza di fattori di in¬stabilità e di tensione interni al sistema, rendendo quindi neces¬saria la formazione di penetran¬ti limiti di ordine sociale. Gli autori non si pongono la do¬manda perché vi sia stato in un secolo e mezzo un oscuramen¬to della “ragione pura liberista” e si limitano ad evidenziare (li¬bro 1, pag. 51) i cambiamenti economici che rendono obsole¬ta la permanenza di forme avanzate di limiti sociali. Invero, la ragione non è econo¬mica ma politica: le dinamiche nella struttura sociale e di composizione di classe hanno determinato lo spostamento dei rap¬porti di forza a favore della classi agiate, diminuendo la resi¬stenza nei confronti di riforme liberiste: ma gli autori non pren¬dono minimamente in considerazione la possibilità che tali ri¬forme creino di nuovo tensioni tali da mettere in crisi la pace sociale. La composizione socia¬le attuale non è contraddistinta non solo da equità ma nemme¬no da un miglioramento di mas¬sa delle condizioni dei ceti meno favoriti, con la conseguenza che il ritorno al passato non è in alcun modo giustificato e di sicuro non si basa su fondamenta economiche e sociali, rivelan¬dosi meramente rispondente ad un’ottica meramente politica di cui si trarranno le fila e che si criticheranno aspramente alla fine. Anche a stare all’aspetto pura¬mente economico, gli autori non considerano minimamente i fattori di instabilità propri del sistema capitalistico, con l’anarchia economica propria che discende dall’accumulazione ca¬pitalistica: l’idoneità del merca¬to ad un’allocazione efficiente delle risorse , senza interventi pubblici, anzi dannosi ed inuti¬li, enfatizzata dagli autori (li¬bro 1, pagine 103 e seguenti) -idoneità da riconoscere salvo i limiti che si evidenzieranno “in¬fra” – non esclude l’incapacità dello stesso di evitare crisi ed involuzioni profonde. Non è un caso che gli autori non affrontino minimamente il problema delle crisi finanzia¬rie: essi affrontano in maniera efficace (libro 1, pagg. 55 segg., libro 2, pag. 140 segg.) i conflitti di interessi all’interno del sistema finanziario, senza peraltro incentrarsi in nessun modo sul problema della stabi¬lità del sistema finanziario e dei singoli intermediari (al ri¬guardo gli autori manifestano una particolare felicità espositi¬va nell’evidenziare i profili pa¬tologici dell’operato finale dell’ ex Governatore di Banca d’Ita¬lia, pag. 148 del libro 2, per pas¬sare sotto silenzio la globalità dell’operato complessivo dell’ ex Governatore, che in un perio¬do particolarmente complesso del sistema finanziario italiano, caratterizzato dalla scom¬parsa della banche pubbliche, dall’apertura delle banche all’in¬termediazione in titoli e dal trionfo della globalizzazione, ha saputo salvaguardare l’efficienza del sistema stesso, il che conferma la necessità di con¬trolli pubblici nel settore finan¬ziario non riconducibili ad un’ ottica meramente regolatoria), problema invece assolutamen¬te centrale.L’attuale crisi, peraltro scoppiata subito dopo la stesura del libro 1, nel momento in cui mette a repentaglio importanti ban¬che internazionali, con rischio di trascinamento a catena, ed addirittura pone l’eventualità di manifestazioni esplosive, rende eclatante un problema mai risolto: l’attuale Governatore di Banca d’Italia Mario Draghi ha puntualmente messo in eviden¬za che il valore nominale dei contratti aventi ad oggetto stru¬menti finanziari derivati – quel¬le forme di investimento finan¬ziario collegate a indici, valute tassi, crediti e altre forme finanziarie o addirittura a strumenti dell’economia reale, che, ove di non copertura ma puramente speculative, presentano la po¬tenzialità di perdite astronomi-che superiori allo stesso valore nominale – è superiore a 10 vol¬te il Pil mondiale. Ciò conferma inequivocabilmente che il sistema capitalistico ha una tendenza intrinseca all’instabilità ed alla crisi finanziaria, derivante dalla sua caratterizzazione in senso speculati¬vo, da qui la necessità di controlli e di limiti stringenti, non di sola natura regolatoria – del ruolo centrale dello “Statorego¬latore” parlano efficacemente gli autori, pag. 103 del libro 1 -: la crisi finanziaria non appar¬tiene al passato, come da sempre evidenziato in termini esau¬rienti da autori come Hyman P. Minsky e Charles P. Kindleber-ger.In sintesi, il liberismo necessita indefettibilmente, per propria natura, di limiti e controlli strin¬genti, propri di una tradizione socialdemocratica. 2. Dopo questo chiarimento ge¬nerale e prodromico rispetto ai singoli punti proposti dagli au¬tori, non si può sottacere che la loro analisi, ricca ed articolata, merita attenzione e non frettolo¬sa liquidazione: la concorrenza resta un elemento fondamenta¬le di dinamismo e di efficienza economica, nonché di limite a posizioni costituite di potere economico, le liberalizzazioni sono in via generale positive in quanto la libertà di iniziativa economica ha dimostrato di es¬sere l’unico effettivo motore de¬gli investimenti e dello svilup¬po, la meritocrazia negli studi costituisce uno strumento per l’innalzamento dei giovani del¬le classi meno agiate, se provvi¬sti di incentivazioni. Parimenti, il mercato del lavo¬ro richiede mobilità e forme di responsabilità dei lavoratori e la paro la d’ordine del movimen¬to operaio negli anni ’60-’70, “Da un parte sola, dalla parte dei lavoratori” è diventata tale da tutelare anche forme negati¬ve di assenteismo: la tutela dei lavoratori degli anni 70 era col¬legata a un movimento in cui la connotazione anticapitalistica e rivoluzionaria era innegabile ed il venir meno di una logica effettivamente antagonistica ha poi favorito forme di nichili¬smo e di fuga dal lavoro, con la riduzione dell’orario di lavoro e la mancata salvaguardia della produttività, riduzione e manca¬ta salvaguardia incompatibili con un’efficace tutela dei lavo¬ratori sul piano economico e normativo, tutela quest’ultima che non può non discendere da un sistema economico efficien¬te e quindi in grado di produrre ricchezza.E non solo: la spesa pubblica si è spesso caratterizzata in senso di spreco e di inefficienza, con la riduzione delle tasse che di¬venta un’esigenza della classi agiate, di per sé non meritevole di tutela, ma dalla giustificazio¬ne difficilmente confutabile proprio alla luce della degenera¬zione della spesa pubblica. Sui singoli punti, la sinistra si deve confrontare con le tesi de¬gli autori, prendendo dalle stes¬se importanti spunti, senza per questo oscurare il dissenso, ra¬dicale.La ricetta generale degli autori, intorno a cui ruotano i vari pun¬ti, per realizzare un regime me-ritocratico e liberista, è rappre¬sentata dalla salvaguardia e dal¬lo sviluppo di un regime di pie¬na libertà concorrenziale. E qui si tocca il paradosso, para¬dosso analogo a quello già emerso in sede di analisi preli¬minare: gli autori propongono un ritorno ad un regime di pie¬na libertà concorrenziale, me¬diante la repressione e la rimo¬zione di restrizioni, situazioni oligopolistiche e monopolisti-che e di interventi pubblici non meramente regolatori, propon¬gono quindi un ritorno a centocinquanta anni fa, senza interro¬garsi sulla ragione per cui il re¬gime di piena concorrenziale non sia mai riuscito a resistere nella sua effettività e si siano in¬vece affermate sia situazioni monopolistiche, oligopolisti¬che e di cartelli sia situazioni in cui la libertà concorrenziale, pur esistente, opera all’interno di mercati dominati da oligopo¬li, resi necessari dai colossali in¬vestimenti necessari soprattut¬to in settori tecnologicamente avanzati.Del resto, in termini squisita¬mente giuridici, i rigorosi con¬trolli “antitrust” – ormai consi¬derati una panacea per ogni ma¬le – non riescono a intervenire né su situazioni oligopolistiche se non in presenza di eclatanti patologie, né su cartelli derivan¬ti non da accordi espressi ma da comportamenti taciti. E le osservazioni qui espresse non si rivelano eretiche. Un autore come Joseph A. Schumpeter, non sospetto di adesione all’ideologia marxi¬sta, aveva evidenziato come la concorrenza tendesse a diventa¬re residuale nello sviluppo capi¬talistico.Ma non solo, gli autori non spie¬gano la ragione per cui si siano resi necessari interventi pubbli¬ci per sanare irrimediabili situa¬zioni di crisi economica non cir¬coscritte, come quello che si sta realizzando negli Stati Uni¬ti e in Gran Bretagna in relazio¬ne alla crisi finanziaria descrit¬ta.Financo un liberale “puro” co¬me Luigi Einaudi – il quale, non va dimenticato, nella nota pole¬mica con Benedetto Croce, so¬stenne l’inammissibilità di qualsivoglia distinzione tra liberali¬smo e liberismo – aveva ammes¬so l’inevitabilità di interventi pubblici, non meramente rego¬latori, nell’economia, distin¬guendo tra interventi conformi al funzionamento del sistema liberistico e concorrenziale ed in¬terventi non conformi, accettan¬do ed anzi ritenendo indispensa¬bili e comunque inevitabili i pri¬mi e respingendo solo i secon¬di.Altro illustre autore, strenuo di¬fensore della libertà di concor¬renza e antesignano propugna¬tore dell’introduzione di una normativa di repressione di comportamenti anticoncorren¬ziali, Tullio Ascarelli, aveva evidenziato che a volte “il dialo¬go dell’economia, piuttosto che fra “libera iniziativa” e “pianifi¬cazione” si svolge tra pianifica¬zione privata e pianificazione pubblica”, Teoria della concor¬renza e dei beni immateriali, Milano, 1960, pag. 88. Gli autori perseguono un regi¬me liberistico e concorrenzia¬le, che la storia ha superato da tempo, sostituendolo con un si¬stema di economia organizza¬ta.Negli ultimi venti anni, non si è registrata alcuna novità sul pia¬no della concorrenza, concor¬renza che continua come detto a non rivelarsi affatto non cen¬trale, ma in effetti si è assistito ad una riduzione incisiva dell’ intervento pubblico “non con¬forme” agli interessi della clas¬se capitalistica, alla luce non so¬lo dello spostamento dei rap¬porti di forza ma anche della mancanza di efficacia di qualsi-voglia intervento pubblico anti¬capitalistico e spesso, proprio alla luce dell’intensità dei con¬flitti che hanno caratterizzato il secolo scorso, l’intervento non conforme si era spesso indiriz¬zato in chiave non capitalistica. In definitiva, la concorrenza è residuale, mentre l’intervento pubblico, ineluttabile, si indi¬rizza essenzialmente in funzio¬ne delle esigenze degli impren¬ditori privati.Gli autori pensano che un’otti¬ca liberistica possa perseguire veramente l’interesse dei consu¬matori, dal che conseguirebbe l’abbandono di ogni visione marxista, in quanto “in una vi¬sione marxista della società l’in¬dividuo si caratterizza per la sua posizione nell’ingranaggio del sistema produttivo, dell’of¬ferta, non della domanda”, li¬bro 1,pag. 50.Quello che è certo è che il lavo¬ro dipendente non è più centra¬le per le ragioni già dette e quin¬di ha ragione Michele Salvati, Il partito dipendente per la rivo¬luzione liberale, Roma, 2007, pagg. 44-45, che vede l’inesi¬stenza di un blocco sociale e la mancanza della centralità del la¬voro.Non vi è invece nessuno sposta¬mento a favore della domanda come invece gli autori ritengo¬no: il centro del sistema è sem¬pre dal lato dell’offerta, identifi¬cato con la sola sfera dell’impre¬sa.In definitiva, l’attività delle im¬prese, lasciata al libero gioco del mercato, è spesso tale da bruciare risorse: basti pensare a forme di ricerca di super-profit¬ti a breve – per raggiungere i quali sono necessarie forme di remunerazione straordinarie a favore del “top management” -che rendono poi l’impresa alla lunga inefficiente; sia ben chia¬ro, gli autori che sono illumina¬ti, si rendono conto di ciò benis¬simo, “E ciò indipendentemen¬te dai super-stipendi dei grandi manager che sono dovuti a alcu¬ne nella governance delle azien¬de, altrettanto gravi in Europa quanto negli Stati Uniti” (libro 1,pag.60).Si rendono di ciò conto, ma non traggono le dovute conseguen¬ze, preferendo imputare il feno¬meno a “lacune di governance” , piuttosto che a un’ottica iper liberista di esaltazione nel “re-turn on equity”, che alla lunga favorisce solo gli imprenditori ma distrugge l’impresa. 3. Non può mancare un appro¬fondimento in relazione ad una della materie specifiche delle tesi degli autori, il mercato del lavoro. Gli autori sostengono che le tutele accentuate a favo¬re dei lavoratori, con il divieto del divieto di licenziamento “ad nutum” di cui all’art. 18 del¬lo Statuto dei lavoratori, crea¬no una divisione del mercato del lavoro in due segmenti, l’una dei lavoratori super-pro¬tetti e l’altra dei lavori di fatto precari, in quanto le imprese, di fronte all’impossibilità di porre fine a collaborazioni non soddi¬sfacenti, hanno remore nell’as¬sunzione e ricorrono prevalen¬temente a lavoro a termine o a forme di lavoro atipico. Del resto, l’impresa nessun inte¬resse ha a licenziare se non per ragioni oggettive e quindi l’uni¬ca forma di licenziamento nei cui confronti difendere i lavora¬tori sarebbe quella dei licenzia¬menti discriminatori: per il re¬sto, andrebbero ricercate forme di tutela minimali, ed essenzial¬mente con sovvenzioni tempo¬ranee.La ricerca degli autori sul pun¬to si ricollega in termini di tota¬le condivisione a quella specia¬listica di Pietro Ichino, condot¬ta da tempo, da ultima in A che cosa serve il sindacato?, Mila¬no, 2006, passim – le posizioni degli autori sono coincidenti con quelle di Ichino e questi vie¬ne citato spesso per la lotta da questi condotta per licenziare i “fannulloni” – dove quanto so¬pra detto viene integrato con la necessità di forme di contratta¬zione collettiva decentrate, in grado di derogare “in pejus” al contratto nazionale, in modo da non ingessare iniziative in zone meno avanzate o comun¬que in via di avvio o di risana¬mento. Altra integrazione ri¬guarda il favore per tregue nei rapporti di lavoro, in modo da disincentivare lo sciopero. L’analisi, lucida, è del tutto par¬ziale: certamente le imprese non licenziano in via permanen¬te ed il loro interesse è di cresce¬re in modo che un mancato “ingessamento” favorisce l’occu¬pazione – “licenziare oggi per assumere domani” è un felice “slogan” di marca confindu¬striale -; ma si trascura che si tratta di impostazione in via glo¬bale e generale, ma non tale da tutelare efficacemente i casi sin¬goli; è evidente che le imprese tendono ad espellere i lavorato- ri da cinquant’anni in più, per antonomasia se non in certe po¬sizioni in cui si richiede partico¬lare esperienza.E tale posizione penalizzante nei confronti dei meno giovani raggiunge vette particolarmen¬te punitive nel momento in cui si è inteso elevare l’età pensio¬nabile, e l’elevazione è a mio modesto avviso anche condivi¬sibile in un’ottica di produttivi¬tà quale condizione per ottene¬re tutele sociali – nel libro 1 la posizione penalizzante è espressa in termini particolar¬mente enfatici, pag. 32 ss., pag. 89 ss.Né il problema può essere risol¬to solo con forme di sussidio temporanee a favore dei meno giovani, come proposto dagli autori, in quanto non si può por¬re ai margini della società chi ancora intende profondere ener¬gie lavorative.hi via più generale, la proble¬matica non riguarda solo i me¬no giovani di oggi, con la solu¬zione per il futuro rappresenta¬ta dallo sviluppo professionale dei lavoratori e quindi dalla for¬mazione: la professionalità se¬condo gli autori sarebbe l’unica forma vera di tutela dei lavora¬tori, tale da consentire loro di trovare agevolmente altra occu¬pazione.Si trascura così che nel ciclo produttivo sono necessariamen¬te inserite masse di lavoratori dalla qualificazione ridotta e le¬gata a compiti ripetitivi e stan¬dardizzati (grande parte dei la¬voratori manuali, ma non solo essi come invece mostrano gli autori, che ritengono quindi il problema se non superabile co¬munque fortemente riducibile con lo sviluppo economico, contabili, informatici, etc.): il problema di tutela dei lavorato¬ri più deboli è ineliminabile, a meno che non si intenda trascu¬rare assolutamente il problema di una coesione sociale. Si è consapevoli che, massime in un economia globalizzata ed aperta, il problema della mobili¬tà lavorativa è fondamentale e non è eludibile: ma non per que¬sto si possono trascurare le esi¬genze di tutela dei lavoratori o, addirittura, come ritengono sia gli autori che Ichino, rimetterle ad un logica unilaterale di con¬venienza dell’impresa, che assi¬curerebbe efficienza e quindi al¬la lunga equità. Anche se più at¬tenuata, è da respingere per le stesse ragioni la proposta di Sal-vati (op. cit., pag. 78) di garan¬zie che si rafforzano e si esten¬dono nel tempo. Occorrono quindi strumenti di garantismo, che impediscano all’impresa licenziamenti non giustificati: gli orientamenti giurisprudenziali recenti si rive¬lano equilibrati e tali da non comportare, così, anche la sal¬vaguardia degli assenteisti e di chi ha livelli di produttività insi¬gnificanti. D’altro canto, la mancanza di garantismo ed il relativo licenziamento “ad nutum” altererebbero del tutto i rapporti tra la parti del contrat¬to di lavoro, ponendo il lavora¬tore, sotto la spada di Damocle del licenziamento, alla mercè dell’imprenditore. Altrettanto certamente, è positi¬vo che tra i lavoratori prevalga¬no esigenze di sviluppo di pro¬duttività e di efficienza, senza i quali le loro esigenze di stabili¬tà del lavoro e di forme di remu¬nerazione adeguate resterebbe “in limine” frustrate. E’ oppor¬tuno che il sindacato negozi con l’impresa forme di mobilità e di sviluppo di produttività: ma tale negoziazione non deve significare, nemmeno surretti-ziamente, la rinunzia a diritti dei lavoratori, come proposto, pur finemente, da Ichino, secon¬do il quale essa si deve risolve¬re nella scommessa del sindaca¬to, quale intelligenza colletti¬va, su iniziative economiche con prospettive. Così si viene a proporre una vera e propria par¬tecipazione dei lavoratori ai ri¬sultati non positivi delle impre¬se, senza porsi alcun problema di reciprocità: nel citato volu¬me di Ichino, nel dialogo con Eugenio Scalfari, a pag. XXII, tale ultimo profilo della recipro¬cità viene sollevato, ma con una tale timidezza da renderlo solo lontanamente eventuale. Al contrario, al sindacato deve essere rimessa la tutela dei lavo¬ratori in modo pieno, con nego¬ziazione di forme di mobilità e di produttività che arrecchino beneficio effettivo ad entram¬be le parti: la produttività deve essere compensata adeguata¬mente in termini economici, mentre la mobilità deve accom¬pagnarsi ad una tutela rigorosa dei singoli, cui trovare imme¬diatamente forme alternative di impiego.Non vi è ironia, se non inevita¬bile, nell’evidenziare che non è affatto singolare che sia gli au¬tori che Ichino basino la propria ricerca su un argomento ti¬picamente marxiano, secondo cui è caratteristica essenziale del capitalismo porre in concor¬renza tra di loro i lavoratori per abbassare la remunerazione e la tutela, in questo caso si tratta dei precari rispetto ai lavoratori stabilmente occupati. 4. In definitiva, il libro degli au¬tori in esame, libro n. 1, mostra in termini organici un’esposi¬zione chiara ed organica del pensiero liberista, applicato al periodo attuale, che si espone a critiche nel momento in cui ri¬solve la tutela sia dei meriti in¬dividuali sia delle esigenze dei soggetti più deboli nell’efficien¬za dell’impresa, i cui abusi sa¬rebbero pacificamente repressi da un mercato efficiente, il che ci si permette di contestare. Le tesi degli autori non sono so¬lo di natura economica, ma so¬no di natura squisitamente poli¬tica, nel momento in cui mani¬festano fiducia nell’iniziativa individuale, che lo Stato deve favorire ed incoraggiare, con in¬terventi correttivi minimi e es¬senziali.Si rientra a pieno nel liberali¬smo, senza alcuna distinzione dal liberismo, ciò anche se gli autori rendono solo impliciti i profili teorici.Peraltro, a pag. 12 del libro 2, nel tratteggiare la differenza tra Stati Uniti e Europa, sul piano economico, ovviamente a favo¬re dei primi, gli autori inserisco¬no una frase significativa di stampo non economico “Gli eu¬ropei credono che non si debba quasi mai (leggi “mai”) ricorre¬re all’uso della forza nell’ambi¬to della relazioni internaziona¬li; gli americani credono nell’ uso relativamente frequente della forza”.Gli autori sono illuminati e di sicuro non condividono alcune forme di ricorso alla forza da parte degli Stati Uniti, ci si rife¬risce non solo alla politica in America Latina (e sdegno e in¬dignazione suscita solo il ricor¬do del caso “Cile”) al tempo del¬la guerra fredda, ma anche ad alcune recenti guerre del tutto illecite, quale quella in Iraq, lan¬ciata sulla base di prove palese¬mente “ex ante” false. Certamente non le condividono, ma queste fanno parte di quell'”uso relativamente frequente della forza” da parte degli Stati Uniti: non si rendono conto che un liberismo sfrenato ha necessità di una politica este¬ra “imperialista”, se è consenti¬to il ricorso ad un termine “marxista”, e più in genere di un anti illuminismo sfociato nel fondamentalismo religioso anti-islamico? Illuminismo, de¬mocrazia e socialismo (non più anticapitalistico) sono legati tra di loro in termini indissolubili, come recentemente mo¬strato da Zeev Sternhell, Con¬tro l’illuminismo, Milano, 2007, passim.Ma a ben vedere, il pensiero de¬gli autori si rivela ancora più complesso ed assurge al livello di filosofia politica. Gli autori vedono in termini to¬talmente riduttivi e negativi il ruolo dello Stato, con il conferi¬mento della centralità alle dina¬miche sociali ed economiche: lo Stato ha un ruolo assolutamente minimo, di supporto alla classe imprenditoriale, con in¬tervento economico a favore dei più deboli in via temporanea per rendere sopportabili le riforme negative nei confronti degli stessi ceti più deboli. Tale ruolo dello stato si presenta così “classista” da rendere ad¬dirittura timida la famosa defi¬nizione di K. Marx dell’appara¬to statuale quale “comitato d’af¬fari della borghesia”. Ed in effetti, gli autori manife¬stano, da un punto di vista filo-sofico, una chiara impostazio¬ne di stampo marxiano e marxista, con una svalutazione pro¬fonda e totale del politico, ridot¬to a mera (ingombrante) sovra¬struttura, come nel pensiero marxiano per l’appunto. Sul punto si possono quindi ef¬fettuare considerazioni conclu¬sive: nel momento in cui il libe¬rismo dominante si serve a pie¬no titolo dell’impianto teorico marxista, la sinistra radicale può continuare a sostenere un anticapitalismo di fondo solo ancorandosi a presupposti teori¬ci antimarxisti: e negando il va¬lore positivo della globalizza¬zione, che fu proprio il marxi¬smo ad individuare quale sboc¬co del capitalismo e soprattutto vedendo il blocco sociale anti¬capitalistico in termini non clas¬sisti, con un’esaltazione dei nuovi movimenti, i quali inve¬ce, svincolati da una base classi¬sta, assumono la natura di movi¬menti escatologici e religiosi. Un riformismo di natura socia¬le e quindi socialdemocratico -e di converso occorre evidente¬mente prendere le distanze dal la moda ormai unanime che de¬nomina riformismo ogni movi¬mento teso ad introdurre misu¬re a danno dei ceti più deboli -può trarre molto dal pensiero marxista.Resta fondamentale di questi la denunzia della natura anarchi¬ca dell’accumulazione capitali¬stica, fine a sé stessa, derivante dalla contraddizione insanabi¬le tra natura sociale della produ¬zione ed accumulazione priva¬ta, di modo che finisce con il perdere natura produttiva, per trasformarsi in mera specula¬zione.Le capacità del capitalismo di regolarsi – che non si rivela in contraddizione con la natura anarchica dell’accumulazione, in quanto la regolazione con la regolazione il capitalismo ha la capacità sia di controllare le cri¬si e limitarne gli effetti sia di procedere ad una distribuzione sociale diparte dei profitti, sen¬za incidere sulle cause della cri¬si, indefettibilmente conse¬guenti alla citata natura del ca¬pitalismo -, facendo partecipa¬re anche esponenti dei ceti de¬boli ai benefici creati, sfalda ogni natura classista dei ceti più deboli e trasforma la classe imprenditoriale in vera classe generale.E’ quindi da non condividere la conclusione della recente anali¬si, peraltro importantissima e lucidissima, di natura marxista riformista, di Guido Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato li¬berto dall’utopia, Roma-Bari, 2005, passim, secondo cui la fuoriuscita del capitalismo po¬trà essere possibile nel futuro, nel momento in cui il capitali¬smo avrà esaurito la sua funzio¬ne propulsiva, estendendo il suo modello a tutto il globo, con la sua anarchia che potrà es¬sere sostituita da una pianifica¬zione socialista. Come si è visto, l’anarchia del capitalismo può essere dallo stesso regolata e controllata, se non nel processo, almeno negli effetti, eliminando quegli aspet¬ti che possono provocare crisi irreversibili.La problematica si snoda a que¬sto punto anche all’esterno dell’ impostazione marxista. La dinamica del capitalismo, svolta secondo le leggi lucida¬mente da Marx elaborate, ha portato a situazioni di crisi per¬manenti proprie dell’anarchia dell’accumulazione capitalista, situazioni peraltro controllate dalla capacità del sistema di re¬golarsi. In virtù di tali dinami¬che, la classe operaia ha perso ogni centralità, acquisita definitivamente dalla classe capitali¬stica.Ciò non comporta la fine della storia, come pensato dai teorici apologeti del sistema, in quan¬to le crisi e la regolazione del sistema hanno comportato lo sviluppo e l’affermazione della democrazia e delle libertà indi¬viduali.La democrazia e le libertà indi¬viduali furono sempre trascura¬te da Marx e dal marxismo che ne hanno visto e denunziato il carattere formale, compiendo con ciò due errori: da un lato hanno trascurato che senza le li¬bertà formali le libertà sostan¬ziali non possono attecchire, mentre dall’altro, hanno trascu¬rato la natura non solo sovra-strutturale ma anche strutturale della democrazia e delle libertà formali, che possono incidere sul funzionamento del sistema capitalistico, limitandolo e con¬trollandolo in termini non solo funzionali alla classe capitali¬stica.La natura strutturale dell’aspet¬to giuridico ed istituzionale comporta una revisione della te¬oria marxista, che si deve apri¬re al pensiero giuridico borghe¬se ed ai due elementi centrali della teoria di Max Weber, la te¬oria dell’etica della responsabi¬lità e l’elaborazione della razio¬nalità del capitalismo, a sua vol¬ta basata sul calcolo economi¬co e sulla distinzione e separa¬zione dell’impresa dall’impren¬ditore: questi due ultimi ele¬menti risultano pregiudicati dalle dinamiche del sistema, il secondo dalla perdita di valore effettivo della personalità giuri¬dica ed il primo dalla perdita di valore del calcolo quale valuta-zione di efficienza di un’inizia¬tiva economica per entrare in una logica di pura speculazio¬ne, dove il calcolo diventa fine a sé stesso.Le dinamiche economico-so-ciali hanno comportato il trion¬fo del capitalismo ma anche l’acquisizione di valore univer¬sale da parte della democrazia: tra capitalismo e democrazia vi è un nesso dialettico, con il capi¬talismo che comporta per anto¬nomasia quel pluralismo econo¬mico e sociale che costituisce il substrato della democrazia ma poi soffre e mal tollera i suoi li¬miti e controlli.Il valore positivo da sviluppare è rappresentato dalla dialettica tra democrazia e liberalismo: la scelta va affidata alla democra¬zia, perché è vero che la democrazia non può essere antilibera¬le e non può trascurare le liber¬tà negative, senza le quali non possono sorgere le libertà posi¬tive, ma è altrettanto vero che il liberalismo si ferma alle libertà negative e vede il valore perico¬loso di quelle positive – per tutti Isaiah Berlin.E’ la democrazia che sola può portare limiti sociali al capitali¬smo. In termini critici rispetto al marxismo si pone la riscoper¬ta della politica, che non è mera sovrastruttura: ma ciò non com¬porta l’adesione a teorie pure del politico, quale contrapposi¬zione tra amico e nemico e qua¬le lotta per il potere, in quanto in tal modo si trascura la demo¬crazia, mentre la politica è un mezzo della democrazia: si cri¬tica la filosofia politica, per arri¬vare ad una concezione giuridi¬ca della stessa politica quale forza del diritto (“… sovranità è la proprietà di un’unità di azio¬ne e di decisione universale nel territorio, in forza della quale per garantire il diritto essa si af¬ferma in modo assoluto even¬tualmente anche contro il dirit¬to”, secondo la splendida espressione di Hermann Hel-ler, La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato, Milano, 1987, pag. 245.).E’ la strada della socialdemo¬crazia che non può e non deve essere abbandonata. Certamente, si è consapevoli che la socialdemocrazia si è svi¬luppata grazie all’interventi¬smo dello Stato, nell’ambito di una concezione forte dello Sta¬to, che deve molto al pensiero protestante (con riferimento ad Heller, ma in termini validi per tutta la socialdemocrazia, illu¬minanti si rivelano le parole conclusive dell’Introduzione di Pasquale Pasquino, pag. 14, “Certo si tratta nel suo caso della Berlino socialdemocratica di Otto Braun e di Carl Severing, ma anche del centro di quella cultura statalistica e protestan¬te che, a partire da Osse, Conrig e Seschendorff fino a Weimar, non ha mai accettato, a dif¬ferenza di altre, la separazione radicale fra etica e politica e fra diritto e politica”) : con la globalizzazione, lo Stato vede ridur¬re il suo ruolo e lo spazio per un interventismo (tale profilo di inattualità del pensiero di Hel¬ler non viene vista da uno dei suoi attenti lettori, Ernst Wol-fangBockenford). Un ampio dibattito culturale si sta sviluppando per una teoria socialdemocratica della globa¬lizzazione (David Held, Joseph E. Stiglitz, in campo squisita¬mente giuridico Otfried Hoffe) e merita tutta l’attenzione. Il problema è che istituzioni del¬la globalizzazione (e quindi del cosmopolitismo) non sono faci¬li ad essere realizzate: la partita può e deve essere giocata intor¬no alla dialettica tra capitali¬smo e regolazione, la quale è ne¬cessaria allo stesso capitalismo e viene prontamente attuata an¬che in presenza della globaliz¬zazione, basti vedere gli inter¬venti per sanare gli effetti delle disastrose crisi finanziarie; tale regolazione deve essere utiliz¬zata in senso non solo congenia¬le alla classe capitalistica. La missione della socialdemo¬crazia è impervia, vista la capa¬cità del capitalismo di finalizza¬re a sé qualsiasi intervento ed è meno affascinante della solu¬zione rivoluzionaria (verso cui non si ha supponenza, avendo chi scrive in passato e fino alla metà degli anni ’90 aderito alla sinistra extraparlamentare, sen¬za successivo pentimento o abiura), che, per la sua radicalità, è irraggiungibile. Per inciso, il superamento del capitalismo può venire non da tendenze interne al sistema, co¬me invece ritiene Carandini, nello scritto sopra visto, ma da movimenti esterni, di natura non sovversiva ma gradualisti¬ca, vale a dire dall’instaurazio¬ne di forme di produzione che riescano a sviluppare l’accumu¬lazione sostituendo nel tempo l’anarchia con la pianificazione sociale. Ebbene, tale supera¬mento è impossibile se la socie¬tà non riesce a sostituire l’egoi¬smo con forme di cooperazione sociale, il che forse non è del tutto utopistico, visto che può sviluppare tendenze già in esse¬re e trarre linfa dagli eccessi del capitalismo, ma si tratta di pro¬spettiva da porre nel lontano fu¬turo, senza alcuna forma di at¬tualità. E la rimozione totale dell’egoismo si rivela in ogni ca¬so problematica, di modo che la prospettiva più concreta, co¬me detto remota e non attuale, si rivela quella di una accentua¬ta socializzazione all’interno del capitalismo. Chiuso l’inciso, un progetto che si risolve nel porre limiti e controlli non regge il confronto con la costruzione di una socie¬tà nuova, ma proprio per que¬sto merita di essere combattuto strenuamente e senza mai nes¬suna rinunzia od abbandono, nemmeno tattico, figuriamoci se strategico, quale quello che staper essere sviluppato dal na¬scente Partito Democratico. HIC RHODUS, HIC SALTA.Francesco Bochicchio CONQUISTE DEL LAVOROAnno: 60 – N. 308 / 309SABATO 29 DICEMBREDOMENICA 30 DICEMBRE 2007

Francesco Bochicchio ,Il liberismo è di sinistra?ultima modifica: 2008-02-07T19:42:45+01:00da mangano1
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Un pensiero su “Francesco Bochicchio ,Il liberismo è di sinistra?

  1. come dice l’autore stesso, a ben vedere il problema posto dagli autori chiama in causa alcune questionisi di filosofia politica che invece non risultano affrontate. Per cui rimane l’impressione di un testo dispersivo e di una piccola occasione mancata di approfondimento.

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