Giorgio Vecchio, La resistenza delle donne

dal sito STORIA e STORICI

Giorgio Vecchio (a cura di)
La resistenza delle donne
1943-1945

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Più di centomila furono le donne direttamente coinvolte nell’epopea delle guerra di liberazione. Di loro, 4653 furono arrestate, torturate, condannate; 2750 deportate e 623 fucilate o cadute in combattimento. Alle donne furono assegnate 19 medaglie d’oro al valore militare, di cui 15 alla memoria. Su di loro, in qualche modo è caduto l’oblio. Questi limiti della memoria trovano appunto origine in una concezione tutta maschile e tutta «armata» della lotta di Liberazione. La memoria della Resistenza al femminile è stata poi limitata dal silenzio di tante protagoniste di quegli anni duri. È giunto il tempo di fare rivivere i ricordi, di scrivere la loro storia. La posta in gioco è gigantesca: per sopravvivere alla crisi l’umanità deve essere consapevole della gravità di ciò che, in un lontano futuro, potrà mettere a repentaglio la sua sopravvivenza e prepararsi ad affrontarlo. Per esserlo, deve cominciare con la conoscenza del suo passato, delle prove alle quali è sopravvissuta nel corso di millenni. Deve inoltre, avendo trovato una sua ragion d’essere, dotarsi di un progetto a lungo termine.
***

Premesse – Le opere di misericordia corporale- Un doppio problema: l’uso delle armi e il rapporto con la violenza – I motivi di una scelta – Testimonianze: Tina Anselmi

Premesse
Certo è che dopo la Liberazione la qualifica di partigiano fu riconosciuta a chi aveva portato le armi per almeno tre mesi e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o sabotaggio (o almeno aveva fatto tre mesi di carcere o sei mesi di lavoro nelle strutture logistiche). Poste così le cose, era chiaro che un grande numero di donne resistenti veniva messo fuori gioco e che – salvo casi eccezionali – per loro si sarebbe potuto parlare solo di «contributo» dato alla Resistenza, un termine che già contiene in sé un senso di inferiorità e di dipendenza. Come hanno mostrato ormai diverse studiose, tra le quali per esempio Roberta Cairoli esaminando l’area comasca, esiste un forte divario tra il numero di donne che a vario titolo si opposero al nazifascismo e il numero di quante si videro effettivamente riconosciuto il lavoro svolto. Ciò non toglie che a livello nazionale furono riconosciute a quel tempo circa 35.000 partigiane e 70.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, una cifra piuttosto consistente. Di loro, 4653 furono arrestate, torturate, condannate; 2750 deportate e 623 fucilate o cadute in combattimento. Alle donne furono assegnate 19 medaglie d’oro al valore militare, di cui 15 alla memoria.
Questi limiti della memoria trovano appunto origine in una concezione tutta maschile e tutta «armata» della lotta di Liberazione. Essi non sono stati esclusivi della Resistenza italiana. In un contesto del tutto diverso, come quello dell’Algeria della guerra di indipendenza (1954-1962), le donne resistenti sono state ridotte alle due figure della maquisarde e della poseuse de bombes, delle combattenti effettive e di coloro che depositavano le bombe per gli attentati. In tal modo si privilegiava la lotta armata e si metteva in ombra la resistenza civile, il sostegno nelle retrovie, gli aiuti spirituali e materiali, dimenticando una massa di donne.
La memoria della Resistenza al femminile è stata poi limitata dal silenzio di tante protagoniste di quegli anni duri. Un silenzio che per molte donne è stato una scelta consapevole, ma che per molte di più è stato provocato da un condizionamento esterno, da un’imposizione più o meno esplicita, dalla mancanza di chi volesse o sapesse ascoltare. Per la verità, non sono state solo le donne a rimanere spesso in silenzio. (pagg. 15-17)

Le opere di misericordia corporale
[…] Il punto di partenza cronologico è naturalmente l’8 settembre 1943, anche se non si possono dimenticare tanti precedenti, come l’antifascismo dimostrato nel corso del Ventennio o come le proteste pubbliche di madri e mogli per il graduale peggioramento delle condizioni di vita tra 1942 e 1943. Proprio al momento dell’annuncio dell’armistizio e di fronte al disfacimento delle nostre forze armate e alla cattura, quasi senza colpo ferire, di centinaia di migliaia di nostri soldati, le donne seppero reagire con inattesa decisione e inventiva. Tante di loro non persero la testa e anzi si sforzarono di sollecitare gli uomini a una reazione attiva. Si potrebbe dire che le donne riuscirono a mettere da parte in fretta la loro condizione abituale di «dipendenti» dall’uomo, forti dell’esperienza del «cavarsela da sole» già sperimentata in tante circostanze della vita e durante la prima parte della guerra; al contrario gli uomini rimasero prigionieri della tradizionale disciplina militare e dalla disabitudine a uscire dagli schemi mentali consueti dell’obbedienza e della mancanza di iniziativa.
Il maternage di massa – ovvero la sensibilità e la capacità di esplicare funzioni materne e protettive verso i nostri soldati in quei giorni di settembre – spinse un’infinità di donne di ogni età e di ogni regione italiana a considerare come propri figli quanti passavano davanti alle loro abitazioni, chiedendo un pezzo di pane, un abito borghese, un pagliericcio per riposare. Capacità di iniziativa individuale e fantasia segnarono i comportamenti di molte donne.
A Torino la mamma di Chiara Serdi mise in piedi un’organizzazione quasi imprenditoriale per assistere i soldati in fuga: dopo aver esaurito i vestiti vecchi raccolti tra i vicini di casa, si rivolse alle suore di via Assietta, solite raccogliere abiti per i poveri, e si fece una scorta in cantina; comprese poi l’importanza di sostituire o tingere anche le scarpe militari. Al momento buono – sparsasi la voce sulla sua disponibilità all’aiuto – rivestiva in cantina i soldati e li accompagnava di persona alla stazione fingendosi loro parente.” Altrove, i gesti di generosità furono anche più spontanei e tuttavia pagati con la vita: la settantaduenne abruzzese Anita Santamarroni diede da mangiare ai prigionieri alleati evasi dal campo di Sulmona.
Arrestata, prima di essere fucilata dai tedeschi, precisò: «Non li ho aiutati perché erano inglesi, ma perché sono una cristiana e anche loro sono cristiani». Analogo, in altra regione e almeno per la spontaneità del gesto, fu il caso della mantovana Giuseppina Rippa, fulminata da una raffica di mitra tedesco nel settembre 1943 per il solo fatto di aver offerto del pane ad una colonna di prigionieri di passaggio in piazza Martiri di Belfiore.
La tensione dei giorni successivi all’8 settembre si prolungò sino al termine della guerra e coinvolse un numero elevato di donne. […]
L’assistenza offerta a tutte le categorie di perseguitati comportava dunque notevoli rischi e non può certo essere intesa come una sorta di scelta più tranquilla e meno coraggiosa rispetto alla lotta armata. Ne seppe qualcosa Maria Luigia Borgato (Soti), che nel 1944 aveva 46 anni, casalinga e contadina. Per quanto zoppicante fin dall’infanzia, si mise a disposizione delle iniziative promosse a Padova da padre Placido Cortese (anche lui pagò poi con la vita le sue azioni di carità) per fornire documenti falsi e concordare le varie forme di aiuto ai ricercati. Quando la cognata cercò di convincerla a non esporsi troppo rispose: «Un giorno anche i tuoi figli andranno per il mondo, e non sai che sorte avranno: saresti contenta che fosse fatto per loro quello che si fa ora per questi poveretti». Catturata dalle Ss il 13 marzo 1944, in agosto venne deportata a Mauthausen, da dove non tornò. […] (pagg. 20-23)

Un doppio problema: l’uso delle armi e il rapporto con la violenza
Nella concezione corrente, le armi rimanevano uno strumento che solo i maschi potevano usare: dopotutto era a loro che spettava il ruolo millenario del «guerriero», mentre le donne erano identificate con il ruolo della maternità, della silente dolcezza, della subalternità. Era quindi problematico – per tutti o quasi tutti, anche tra le donne stesse – immaginare una partigiana combattente con le armi in pugno. In vari casi esisteva un rifiuto condiviso, che nasceva probabilmente anche dal tipo di professione esercitata nella vita civile: così la già ricordata Maria Peron rifiutò esplicitamente di usare le armi. Questa cultura diffusa valeva per tutte le parti in causa, tanto che anche tra le file fasciste le volontarie del Saf erano tenute nel ruolo delle vivandiere o comunque nelle retrovie. Talvolta, malgrado la rigida insistenza sulla moralità e la severità delle prescrizioni, finirono per svolgere soprattutto compiti di confortatrici dei maschi combattenti.
Nella Resistenza, dunque, non furono molte le combattenti vere e proprie, e tuttavia non mancano esempi in tal senso. Furono diverse le ragazze che chiesero, con maggiore o minore successo, di imparare a sparare e di poterlo poi fare davvero.
Elsa Oliva fu comandante in Valdossola e, in seguito, ricordò di aver così risposto a chi le voleva togliere il comando:
“Non sono venuta qua per cercarmi un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un’arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se no me ne vado […] Al primo combattimento ho dimostrato che l’arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire […] Curavo i miei compagni ma non li servivo […] gli uomini erano spesso pigri”.
Livia Bianchi, combattente nella brigata Ugo Ricci in Valsolda e ben nota ai fascisti che la ricercavano, fu catturata dopo uno scontro a fuoco nel gennaio 1945 in località Cima di Porlezza. Venne fucilata con i cinque compagni all’alba del 21 gennaio, dopo aver rifiutato la grazia che avrebbe potuto ottenere proprio in quanto donna. Nel Bresciano Margherita Morandini Mello ha raccontato di aver compiuto vere e proprie azioni a fuoco, come un attacco a un treno. […] Anche nei Gap militarono donne che parteciparono direttamente ad azioni rischiose e alla preparazione ed esecuzione di attentati. A Roma, Carla Capponi fu partecipe dell’attentato di via Rasella; Maria Teresa Regard, fu combattente fin dai giorni del settembre 1943 e partecipò a diverse azioni dei Gap: catturata e portata in via Tasso, venne fortunatamente rilasciata, in quanto Giorgio Labò finse di non conoscerla. Sempre a Roma si segnalò in questi compiti Marisa Musu Martini, mentre nei Gap di Milano, insieme ai coniugi Giovanni Pesce e Onorina Brambilla, fu protagonista della lotta armata Isa De Ponti.
L’elenco potrebbe ovviamente essere più ricco. Sta di fatto, tuttavia, che rimangono ben più numerose le testimonianze di coloro che non volevano usare le armi, come conferma di una mentalità e di una ripulsa tradizionali, ma anche di una scelta per la vita, ritenuta più consona al genere femminile. In qualche modo, veniva declinata al femminile una problematica che in parte riguardava anche i maschi, nel caso fossero cattolici o nonviolenti (come Aldo Capitini) o preti.
La decisione (e la possibilità concreta) di usare le armi in modo attivo costituisce tuttavia una sola faccia del problema della violenza. Ben più facile da vedere era l’altra faccia, quella della violenza subita. Essere donna comportava un di più di rischio, per l’ovvia possibilità di utilizzare l’arma dell’umiliazione fisica e della violenza sessuale (che, in vari casi, peraltro, fu esercitata anche a danno dei maschi). Il tema era – e rimane – delicatissimo e spesso celato, nei ricordi, dietro vaghe allusioni e più che comprensibili rimozioni. Taluni episodi o particolari sono emersi solo in anni recenti, dopo la morte delle dirette protagoniste o in seguito alla possibilità di esaminare le carte dei processi celebrati dopo la conclusione della guerra.
La descrizione delle torture anche sessuali inflitte dai militi fascisti in un luogo di tortura come Villa Cucchi a Reggio Emilia suscita raccapriccio e vergogna anche in chi si è ormai abituato a studiare questi argomenti. In molte situazioni, per di più, non era esercitata una vera e propria violenza sessuale: le forme di tortura, più o meno attinenti all’intimità sessuale, erano esercitate all’unico fine di umiliare le vittime nella loro stessa natura femminile. In questo contesto era difficile mantenere – anche nel ricordo successivo – la forza d’animo della cattolica veneta Ida D’Este, autrice di una autodescrizione capace anche di un’ammirevole dose di auto ironia.
Alcune delle donne martiri della Resistenza hanno conosciuto violenze inenarrabili prima di essere uccise. Così Irma Bandiera (1915-1944), staffetta e membro della VII Gap a Bologna; arrestata, torturata, accecata, infine uccisa a mitragliate dai tedeschi per non aver parlato; così Gabriella Degli Esposti (1912-1944), contadina comunista di Castelfranco Emilia, madre di due bambine piccole, responsabile dei Gap, organizzatrice di proteste delle donne per il pane; arrestata e torturata, fucilata (dopo essere stata squarciata – era incinta – e aver avuto i seni tagliati); così Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944), di padre ebreo, fiorentina benestante, impiegata alla Biblioteca vaticana. Dopo esser stata battezzata nel 1938, entrò a Firenze nel partito cristiano-sociale. Arrestata, venne torturata e poi fucilata. Così ancora Natalina Vacchi (morta a Ravenna nel 1944), comunista dal ’42, salvatrice di Arrigo Boldrini l’8 settembre, poi staffetta e responsabile dei servizi sanitari, catturata e impiccata, lasciata penzolare per giorni dalla forca. E non si dimentichi Clorinda Menguzzato, contadina trentina, staffetta e infermiera nella Brigata «Ghirlanda» della Divisione Gramsci: catturata dai tedeschi fu sottoposta a ogni genere di sevizie, violentata a più riprese, fatta azzannare da cani, pur di strapparle informazioni sulla dislocazione delle basi partigiane in Valsugana. Non parlò e fu infine fucilata il 10 ottobre 1944: aveva soltanto 19 anni. […] (pagg. 31-36)

I motivi di una scelta
Le motivazioni alla base delle scelte di queste donne furono in larga parte analoghe a quelle degli uomini: per motivi in definitiva casuali e dovuti cioè al luogo dove si abitava, alle amicizie, alle risposte istintive nate dal dissolvimento dell’esercito, senza una precisa opzione politica o militare. Ha scritto un partigiano scrittore come Nuto Revelli: «Se nella notte del 25 luglio mi fossi fatto picchiare, oggi forse sarei dall’altra parte. Mi spaventano quelli che dicono di aver sempre capito tutto. Capire l’8 settembre non era facile!». Il fatto di trovarsi o no su una strada percorsa da soldati in fuga dopo l’8 settembre, oppure il vivere in città piuttosto che in campagna, il trovarsi coinvolti – anche semplicemente come testimoni involontari -in un fatto di violenza o di sangue, ebbene, tutto ciò aveva il suo peso. Ha raccontato Tina Anselmi:
E venne il 26 settembre del 1944. Io ero a scuola a Bassano del Grappa, dove frequentavo l’istituto magistrale, quando i fascisti e i nazisti costrinsero tutti gli studenti, e la popolazione, a recarsi in viale Venezia, oggi viale dei Martiri, ad assistere all’impiccagione di quarantatre giovani che erano stati presi dopo un rastrellamento sul Grappa. Un macabro spettacolo, un monito a chi osasse ribellarsi, quei giovani presi come ostaggi e che, in base
al principio etico secondo il quale non è responsabile chi non compie l’atto – e loro non erano responsabili di alcun atto di guerra -, non avrebbero dovuto essere condannati. […] Ritornati in classe scoppiò tra noi compagne una discussione violenta, ci siamo perfino picchiate; c’era chi diceva che i soldati avevano fatto bene perché quella era la legge, e loro l’avevano fatta rispettare; chi difendeva le ragioni dei partigiani perché la legge non può andare contro i diritti della persona. Questo episodio, l’ultimo di tanti, ci obbligò a dare una risposta concreta a un interrogativo che ci ponevamo da molti mesi: cosa possiamo fare? Stiamo qui e guardiamo? Potevamo assistere alla sofferenza, a quello che avveniva intorno a noi senza fare niente? Dovevamo agire per non aggravare la situazione. Per non sentirci corresponsabili dei massacri. […] (pagg. 44-45)

Testimonianze: Tina Anselmi
Mi hanno chiesto di fare la staffetta e, quando la Resistenza è esplosa con tutta la sua forza, con la bicicletta facevo centoventi chilometri ogni giorno. Una delle conseguenze della guerra era un’usura fisica. Eravamo consapevoli che se l’Italia non avesse partecipato ai processi di Liberazione del nostro Paese avrebbe avuto delle conseguenze negative. Quando De Gasperi andò a Parigi per tutelare gli interessi dell’Italia disse agli Alleati che non era vero che tutta l’Italia fosse fascista; c’era un’Italia che combatteva per la libertà, che voleva conquistarla insieme agli alleati.
Un’amica, fidanzata con un partigiano, mi disse «Tu saresti capace di aiutarli? Vuoi aiutare i nostri ragazzi?» Avevo visto cosa succedeva quando non si offriva una salvezza a questi ragazzi, che venivano impiccati, bruciati nella piazza del paese, soggetti ad atroci momenti. Chi non accettava di servire i tedeschi e i fascisti era sottoposto alla tortura, al ricatto, a tutte quella crudeltà che sempre la guerra porta con sé.
Il Monte Grappa, le montagne che ci circondano erano, in un certo qual modo, occupate dai soldati scappati dalle caserme, dai soldati caricati su carri bestiame, dove io stessa ho scoperto tutta la sofferenza, tutto il dramma che la nostra gente di campagna viveva nel momento in cui non era più possibile nascondersi, bisognava tentare di salvarsi. Salvare chi, essendo dentro la Resistenza, poteva farlo a rischio della vita. In quel periodo abbiamo vissuto la presenza di oltre duemila soldati che scappavano dalle caserme, che non volevano andare in Germania, che volevano possibilmente salvarsi e salvare le loro famiglie. L’episodio più grave è stato quello di vedere centinaia di giovani nascondersi, fuggire, purtroppo molte volte catturati, persone che non erano nelle condizioni di andare in guerra per fare una guerra. Era una situazione angosciosa sentire che in montagna si combatteva e il doversi nascondere, anziché combattere. Solo nascondendosi si poteva pensare di salvare il numero più alto possibile di soldati. Uno spettacolo spaventoso: giovani catturati dai tedeschi e dai fascisti. […]
Era difficile potersi salvare. Chi era disposto a rischiare la propria vita, il proprio futuro pur di offrire aiuto agli alpini, artiglieri, agli ex prigionieri? Chi si prestava per salvare questi giovani, che erano poi i nostri compagni di scuola, i ragazzi con i quali avevamo combattuto sino a pochi giorni prima? Se volevamo provare il rischio della risurrezione, i partigiani salivano in montagna più per salvare noi che loro stessi. Quei giorni e mesi sono stati terribili, dolorosi, li abbiamo vissuti non sapendo mai se un domani avrebbero rappresentato per noi la libertà o una fuga, che ci permetteva però di guardare al domani con più speranza. Bisognava scrivere la parola «fine»! Noi, come partigiani, c’eravamo assunti il compito di scrivere questa parola. Fine alla guerra, fine ai combattimenti, alle torture, fine ai dolori e alle tragedie che si vivevano nei nostri paesi. Tutto questo lo abbiamo voluto, l’abbiamo pagato, perché questo potesse realizzarsi.
Anche nei nostri paesi abbiamo voluto ricordare qualcosa che io credo debba avere un valore per sempre: se vogliamo non rivivere queste tragedie dobbiamo esserci, non c’è altra strada. Se vogliamo che la democrazia cresca nel nostro Paese, dobbiamo tutti partecipare a questa crescita, a questo cambiamento. Se ci siamo vinceremo nel nome della libertà e della pace. (pagg. 121-123)

Giorgio Vecchio

indice del volume:
Prefazione di Fabio Pizzul – Introduzione di Marco Gorzonio – Le Resistenza delle donne in Italia: 1943-1945 di Giorgio Vecchio – Rtratti di donne cattoliche nella Resistenza di Elisabetta Salvini – Le scelte al femminile dopo l’8 settembre di Carla Bianchi Iacono – Testimonianze

La Resistenza delle donne
1943 -1945
acura di Giorgio Vecchio

In dialogo – Ambrosianum

Milano -2010

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Giorgio Vecchio, La resistenza delle donneultima modifica: 2010-06-27T15:49:18+02:00da mangano1
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