Giuliano Capecelatro, Intervista a Gerardo Marotta

0a991deade5fe017dd1fcf1a54e2ef64.jpgda LIBERAZIONE 13.5.2008A scuola scappavamo dalle finestreper evitare le adunate fascistenella foto GERARDO MAROTTA il mare. Lì di fronte, quasi a portata di mano. Nella morbida curva del golfo che abbraccia il porticciolo di Mergellina. In lontananza, il verde di Posillipo sfuma in una leggera foschia. E ci sono i libri. Migliaia e migliaia. Dovunque. Le pareti sono libri. I pavimenti sono libri. Sono libri persino i divani, che traboccano di ogni tipo di carte, nel salone luminoso che inquadra dal balcone un’irreale Napoli da acquerello ottocentesco, non fosse per i veicoli protervi che affollano via Caracciolo e cingono d’assedio i resti asfittici della villa comunale.Sostanza e simbolo sono i libri nella vita di Gerardo Marotta. Invadono ogni angolo della bella casa, che il mare chiede solo di bagnare. Invadono ogni interstizio dell’esistenza dell’avvocato Marotta, da trentatré anni al timone di un caposaldo della cultura, l’ Istituto italiano per gli studi filofici. Casa e bottega, potrebbe dirsi. L’elegante e severo palazzo Serra di Cassano, che con una sinuosa doppia scalinata immette nel cuore palpitante dell’Istituto, è a due passi dall’abitazione del presidente. Sull’angusta ed erta via Monte di Dio. Il monte Echia che accolse Palepoli, primo insediamento della futura Neapolis. Crogiolo di miti e storia.Anche l’Istituto ha il suo mito fondativo. Era il 1975… «Era il 1975 – racconta il presidente Marotta -. Febbraio. Mi telefona Elena Croce: c’è Enrico Cerulli, presidente dell’Accademia dei Lincei. Stiamo venendo da te. Io ero un avvocato di grande fortuna professionale, e uscivo da importanti battaglie forensi. Li aspettai sul pianerottolo. Mi proposero di assumere la presidenza dell’istituto. Ero onorato e frastornato. Chiesi un anno di tempo per sistemare i miei affari professionali. Cerulli fu perentorio: Marotta, non c’è più tempo. L’Europa è in declino. La filosofia deve riprendere il cammino segnato da Croce e dalle scuole filosofiche del Risorgimento. A maggio, all’Accademia dei Lincei, venivo nominato presidente a vita».Il mito prende corpo nelle ariose sale di palazzo Serra di Cassano. Seminari, convegni, mostre didattiche. Legami con le maggiori università del mondo. Studiosi di fama internazionale che sbarcano a Napoli. Filosofi della statura di Hans Georg Gadamer e Paul Ricoeur. Un’Atene in sedicesimo tra le mura di una città stravolta da decenni di speculazione edilizia e dal culto del profitto selvaggio, che fornisce un comodo passepartout alla camorra. Un rigoglio culturale che non si conosceva dall’ Illuminismo. Con la volontà tenace di risvegliarsi dalla lunga notte del fascismo.«In quegli anni Benedetto Croce fu l’unica ancora a cui potemmo appigliarci – rievoca Marotta -. Un uomo di grande apertura, arguto e saggio. Mi formai sui suoi testi. Tenevo sul comodino un’antologia dei suoi scritti su poeti e scrittori italiani. Che alternavo con la Letteratura di Luigi Russo. Cosa fu il fascismo? Oscurità. Il sabato fascista… ricordo che facevamo a gara, al liceo Sannazzaro, nello scappare dalle finestre per evitarci l’adunata. Che poi si risolveva in una gita sul tram, in cui i ragazzi gridavano: Francia che fa? Schifo, rispondevano in coro. E ancora: Inghilterra che fa? Schifo. Un provincialismo ideologico terrificante».La parola e l’insegnamento di don Benedetto spronano il giovane universitario. Che intraprende un apostolato di animatore culturale. Nel 1946 dà vita a “Cultura nuova”. Nasce il Gruppo Gramsci. «Diventò un centro di studi marxisti ed era frequentato non solo da giovani di sinistra, ma anche da giovani crociani, da scrittori, da storici in erba come Gaetano Arfé, Rosario Villari, Pasquale Villani».Ma profetiche si rivelano le parole pronunciate da Adolfo Omodeo, rettore fresco di elezione, nell’atrio dell’università in una Napoli appena liberata dai nazisti. Ottobre del ’43. «Attenti a quella vecchia borghesia che si è arricchita con le tangenti guadagnate collaudando le corazze guaste delle nostre navi da guerra. E che oggi, intorno al re malvagio, tenta di riprendere potere e di restaurare la corruzione». Fotografia nitidissima di quanto sarebbe avvenuto dopo la catastrofe elettorale del ’48, sulla scia del laurismo trionfante.Tra i libri che ascendono verso il soffitto spuntano rare foto; in bianco e nero, a colori. I tre figli: Massimiliano, Barbara, Valeria. Un Marotta non più che cinquantenne, immerso in acqua con due bambini. Un Marotta più ufficiale, vestito di scuro, con al braccio la moglie Emilia, scomparsa pochi anni fa. Flash di vita privata si insinuano nella muraglia di testi, tra le pieghe di un’attività assorbente. «Cultura nuova… Fu Corrado Alvaro – ricorda Marotta -, allora direttore del Risorgimento , un quotidiano di Napoli, ad inaugurarla. Facevamo sacrifici per invitare personalità della cultura. Venne Antonio Banfi, e ci conquistò con l’umanesimo marxista. Vennero Natalino Sapegno, Aldo Capitini, Massimo Mila, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Pablo Neruda. Il poeta cubano Nicolás Guillen. Organizzavamo mostre di scultura e pittura». Semi gettati nella città che cambiava. Che inconsciamente rinnegava il suo mare, secondo la geniale intuizione di Anna Maria Ortese. «Anni tristi – commenta Marotta -. Morì Croce. La vita politica divenne piatta. Circoli, gruppi si sciolsero. L’aria si era fatta irrespirabile. Le colline del Vomero e di Posillipo furono devastate; si creò una spaventosa conurbazione tra città e provincia: Portici, Ercolano, Torre del Greco, agglomerati demenziali, che quasi sfidavano la collera del Vesuvio. Caccioppoli rinunciò a vivere. I suoi funerali segnarono l’addio definitivo a ogni progetto culturale».Neppure in casa il presidente Marotta abbandona il cappello dalle ampie tese. Che, insieme al cappottone scuro che abbraccia il corpo minuto, lo ha reso un personaggio caratteristico. Fissato in una immutabile raffigurazione. Quasi una divisa, fasciato dalla quale percorre la città, vola a Roma per incontri, convegni, prolusioni. O per far echeggiare nelle stanze del Potere le esigenze della sua creatura. Il corpo è affaticato dal peso degli anni. La mente è agile, lucida. Lo sguardo vivido smentisce le ottantuno stagioni, compiute lo scorso mese.«In Italia la scuola era diventata un pastrocchio irriconoscibile. Rimanevano sulla scena le grandi coscienze di Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Beppe Fenoglio. Usciva Il Gattopardo , quasi a sottolineare la tragedia di riforme mancate. In una nazione, come scrive Edgar Quinet, che non aveva mai portato a termine le sue rivoluzioni».Rivoluzione è un termine chiave nel lessico del presidente. Cui non manca qualche goccia di giacobinismo nel sangue. E che non nasconde la simpatia per Robespierre, avvocato come lui. Per questo dovette toccare il cielo con un dito quando, era il 1989, lo raggiunse una telefonata del grande storico della rivoluzione francese, Michel Vovelle.«Mi pregava di correre a Parigi. Il presidente François Mitterrand minacciava di non presenziare alle celebrazioni della rivoluzione francese. Era stato omesso, obiettava, un avvenimento fondamentale: la rivoluzione partenopea del 1799. I nobili francesi, argomentava, insieme ai vescovi, si erano schierati col re per restaurare il vecchio ordine. A Napoli, i nobili si fecero ammazzare, dopo aver firmato il giuramento “per la filosofia, la libertà e la repubblica”. E i vescovi avevano firmato con loro. Croce lo spiega bene. In Francia fu la borghesia a fare la rivoluzione, mossa da un interesse pratico: attuare la libertà di mercato per vendere i prodotti delle manifatture, liberi da ceppi doganali».La rivoluzione del 1799. “Per la filosofia, la libertà e la repubblica”. Una stella polare nella navigazione dell’Istituto. Una rivoluzione morale, delle coscienze. Che il presidente sogna di attuare attraverso la cultura, le scuole, le centinaia di borse di studio concesse ogni anno, i corsi di alta formazione aperti in tutto il Meridione. E poi, nel resto d’ Italia. Una pioggia di riconoscimenti per il suo ispiratore. Sette lauree honoris causa, da Bucarest a Rotterdam. Medaglie d’ oro, premi, encomi da ogni parte del mondo.Fruga con mano sicura, Marotta, nella muraglia di libri. Impenetrabile per un estraneo, per lui non ha segreti. «Ecco qua», esclama soddisfatto, spiattellando un cospicuo fascio di fogli. Raggiunge il balcone, comincia a leggere. «La ripresa della filosofia, promossa a Napoli dall’attività dell’ Istituto…». Pagine e pagine di apprezzamenti. Firme illustri. Da Hans Georg Gadamer a Paul Dibon, da Charles B. Schmitt a Paul Oskar Kristeller.Una macchina complessa. Un problema gigantesco di finanziamenti. «I banchieri facevano orecchie da mercante. Per sedici anni ho mandato avanti l’ Istituto da solo. Poi sono arrivati i contributi statali. Il presidente del Consiglio Ciampi mise a disposizione dieci miliardi dall’ otto per mille. In seguito, Umberto Colombo (ministro dell’Università nel governo Ciampi, ndr ) escogitò un meccanismo per farci arrivare dai sei ai nove miliardi l’anno. Scomparso Colombo, nuove difficoltà. Nel 2005, per l’interesse di Ciampi, presidente della Repubblica, un emendamento della finanziaria provvedeva all’Istituto e all’Istituto Croce. Ma attendiamo gli arretrati dal 2002-2003. C’è stata una sollecitazione del Senato al governo; c’è una sentenza favorevole del Tar. Ci hanno un po’ dimenticati. Ed è una ferita mortale per l’Istituto».Il mare è lì di fronte, indorato dal sole che tramonta. A piccoli passi, Marotta si riporta in mezzo alla confortante muraglia di libri. Sostanza e simbolo. «Ho esaurito tutte le risorse della mia famiglia. Ho sopportato sacrifici. E dissensi con la famiglia di origine. Non puoi sostituirti allo Stato nella promozione della cultura, sostenevano».

Giuliano Capecelatro, Intervista a Gerardo Marottaultima modifica: 2008-05-13T16:17:45+02:00da mangano1
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